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Attualità della ricerca

Salvadori S., La nascita dell'immagine come prima sintesi di un pensiero possibile. 2014

 

C’è stato un passaggio difficile da superare per decidere di fare arte. Arte come apertura e comunicazione con il mondo esterno. In questo passaggio critico si è rotto un guscio protettivo, e anche un senso di continuità. La certezza che mai più avrei potuto dipingere come prima, che dovevo affrontare un vuoto, e non potevo affidarmi all'intelligenza razionale.

La Milner scrive "Il vuoto può essere germinativo", permette un processo indispensabile per creare qualcosa di nuovo (1950, "On not being able to paint").

Ma come è difficile. Poter stare nel vuoto riguarda un'area psichica precedente alla formazione dell'Io, vicino alla non vita. Comporta una regressione. Se non si è sufficientemente forti si ha paura di perdere l'integrità di se stessi. Per sostenere il rischio di questo salto, che per me è stato un tuffo nell'ignoto, serve la fiducia in una propria fertilità nascosta sotto la superficie, il contatto con questa sorgente interiore da cui partire per poi aprirsi nella comunicazione con l'esterno. E’ difficile staccarsi dal noto, andare oltre e dare una forma. Ritirarsi dal mondo, per entrare in comunicazione con il mondo.

Quella crisi è diventata il mio metodo di lavoro, e il vuoto è diventato il contenitore di quello che ancora non so.

Fare arte – modalità abitata fin da bambina senza saperlo – è un salto nel buio per scoprire cosa penso.

Succede a ondate, si alterna a periodi di silenzio, come la veglia e il sonno. Il silenzio, come il riposo, fa parte del processo.

PREMESSA DEL LAVORO ARTISTICO: LA PASSIVITÀ RICETTIVA

In un appunto che ho scritto prima di fare un lavoro che ho chiamato WAIT, descrivo lo stato interiore che provavo con intensità in quel momento:

rinunciare all’intelligenza * lasciar emergere

rinunciare a scegliere * NON cancellare

sentire il presente – il corpo

rinunciare alla volontà * aspettare

diventare contenitore – SOLITUDO

accettare di essere colpita

- sconvolgimento della continuità -

colpita da un’immagine

Questo stato è la premessa profonda del mio lavorare artistico, e anche della mia pratica clinica.

Mi devo isolare dal mondo esterno e raccogliere in me stessa, svuotata al pensiero volontario, disancorata per quanto possibile dalla coscienza e dalle sue barriere.

Nel corpo, in cui mi immergo, nell'ascolto del respiro, del suo ritmo vivo - l’aria che entra e che esce regolando la vita (Psyché soffio in-spirato dall’esterno)- ritrovo il mio senso perduto di continuità.

Nel silenzio mi faccio innocente quando rinuncio a ogni sapere; mi chiudo separata a tessere intorno al vuoto un bozzolo che mi tiene nell’attesa. Così il mio vuoto si fa contenitore.

Annullate in questo modo le separazioni con l'esterno allora posso aprirmi e far entrare il mondo dentro di me. Non decido non scelgo. L'attenzione allargata, lascio il controllo. Credo sia quello che la Milner chiama "la resa creativa”.

Aguzzo i sensi, libera di lasciarmi penetrare e di accogliere il diverso, la “passività ricettiva” della Milner.

E' a questo punto che posso essere colpita.

Uno stimolo fra tanti si fa strada, mi raggiunge e colpisce in modo speciale.

È un urto – una forma, una parola, un colore, un movimento mi coglie di sorpresa. È il corpo che è coinvolto. Uno stimolo si impone, a volte sottovoce.

Il mio vissuto è di non essere soggetto, piuttosto un’eco che risuona. Non decido, non scelgo. Accolgo quello che si fa sentire senza giudicare. Capisco il misterioso "senza memoria né desiderio" di Bion. Come dice Merleau-Ponty: “È falso dire: Io penso. Bisognerebbe dire: mi si pensa” (Phénoménologie de la perception, Gallimard, 1945).

È una chiamata, un’annunciazione.

IL PROCESSO CREATIVO: ATTIVITÀ

Essere colpita da uno stimolo accende la mia immaginazione e dà il via ad associazioni interne. Il momento estetico è un incontro, uno scambio fra due mondi, un transfert sulla realtà. La realtà esterna diventa la materia attraverso cui un pensiero ignoto e senza parola possa tradursi in immagine.

Ho imparato a riconoscere e afferrare l’emozione, quando improvvisamente una cosa sempre vista si fa ‘sentire’ (aisthesis) in modo nuovo, ho imparato ad accettare questo annuncio anche se può sembrare insignificante, a non lasciare che sbiadisca nell’impatto con la vita quotidiana, che soccomba all’autocritica e alla svalutazione. Invece mi metto al servizio, mi prendo cura, lo salvo. Richiede energia, coraggio, fiducia. Qui avviene il salto. Verso la rappresentazione.

Sento una tensione a creare, un bisogno di digerire, rielaborare l’emozione che si è fatta sentire.

Aspetto che mi vengano in mente, senza decidere con la volontà, i modi per ritrovare le sensazioni che mi hanno colpito, cosa che avviene lentamente e a intermittenza. Ho pazienza, un intervento intellettuale può interrompere, oscurare, bloccare, svuotare di senso quello che mi sta accadendo. Adopero tutte le materie e le tecniche che mi vengono in mente, seguendo la regola fondamentale di essere fedele a me stessa, senza preoccuparmi di una coerenza di linguaggio a tutti i costi. Fotografo, fermo quello che mi commuove senza saperne il motivo, lo strappo allo scorrere delle impressioni che si annullano.

Mi sono accorta che lo sguardo riconosce con un'intelligenza diversa, prende solo quello che serve. Circoscrive, ritaglia, isola per cominciare a delimitare, dare un contorno all’immagine.

Disegno, faccio acquarelli, dipingo. Ripeto e ripeto un’immagine, mi incanto a vedere come ogni volta è diversa. La ripetizione rispecchia i cambiamenti miei, del mio gesto, diventa movimento, dà vita. L’impressione iniziale si scioglie in una forma, più forme, si chiarisce, finché sento che non posso andare oltre. Chiudersi/aprirsi, introversione/estroversione, passività/attività, femminile/maschile: come un'onda, riuscire a oscillare fra gli opposti del doppio movimento che avviene in me.

Quando guardo un lavoro che ho fatto mi stupisco come se non fosse mio. Non me ne sento responsabile. Posso sopportare qualsiasi critica, non mi appartiene. Forse Merleau-Ponty si riferisce a questo evento quando parla dell’“in-visibile” che si rende manifesto, si incarna.

Io lo penso come una goccia di inconscio che ce l’ha fatta a salire in superficie.

L’IMMAGINE E IL PENSIERO

Ho fatto riferimento a quattro immagini in questo scritto che si sono sciolte in un pensiero. L’immagine del salto, l’immagine del ritmo a ondate, l’immagine di WAIT e l’immagine dell’annunciazione.

Ho scritto all’inizio che entrare nella dimensione della ricerca artistica è per me come un salto nel buio. Questo pensiero, che ho avuto per la prima volta pensando a queste cose, è in effetti il risultato di un processo che è passato attraverso il fare arte.

Un po’ di anni fa vedendo una ragazza, le ho chiesto se poteva camminare e saltare mentre la fotografavo. Non sapevo perché, né perché proprio lei. Ero sicura solo di quello che mi era venuto in mente con tanta precisione, e determinata nel realizzarlo.

Da quelle foto è nato un lavoro complesso. Le ho ritagliate e ho costruito un piccolo modello in cui si vede la stessa ragazza nelle varie fasi del salto. Ho rifotografato ciascuno di quei piccoli ritagli muovendomi io. Il risultato sono delle fotografie vibranti dall’interno, diverse per ogni fase del salto (figg. 1-6). Poi ho dipinto (figg. 7,8,9).

Solo ora quel lavoro di anni intorno all’immagine del salto diventa un pensiero articolabile in parole: fare arte è per me un salto in una dimensione di cui non conosco niente quando ci entro. Si è associato al senso che per me ha l'immagine della Gradiva, una Gradiva che prende vita (nota n.1).

Il primo lavoro di scultura che ho fatto l’ho chiamato ONDA n.1 (fig. 10): è idealmente un libro in ferro, verticale, che contiene la sagoma di una donna che cammina, non si sa se avanti o indietro, e ha dentro un groviglio di fili: alcuni escono dalla sua testa, dalla sua pancia, dalle sue gambe, come un’onda. Non sapevo assolutamente cosa stavo facendo.

Dopo 10 anni, posso pensare si riferisca al ritmo che ci riguarda come esseri umani: la veglia e il sonno, la spinta artistica e la capacità creativa, come anche la possibilità di entrare in contatto con emozioni e dolori che possono essere sostenuti solo a ondate. Noi funzioniamo con questo ritmo. E' quando perdiamo questa elasticità che ci ammaliamo, quando vogliamo restare sempre svegli, o dormire sempre.

Ho citato un appunto che ho scritto prima di fare il lavoro WAIT. Era la prima volta che avevo sentito il bisogno di creare una realtà tridimensionale (prima de Il salto). Avevo costruito un modellino con delle foto ritagliate di persone che camminano in tutte le direzioni. Una donna è ferma in mezzo a loro, aspetta (fig. 11).

Solo ora posso dire che quel lavoro stava cercando di dare una forma al mio stato interiore di ‘passività ricettiva’ (Milner), l’immersione in un ambiente in cui possono colpirmi forme colori sfocature rumori movimenti gesti, premessa al mio lavorare artistico.

Ho scritto che quando uno stimolo mi colpisce è come un’annunciazione.

Prima di poter concepire questo pensiero, ho passato un lunghissimo periodo in cui ho guardato solo Annunciazioni. La prima volta mi è successo a Capodimonte a Napoli (fig. 12), davanti a quella di Tiziano. Vista e rivista più volte, quel giorno la sentivo vibrante di una luminosità speciale immersa in quei toni di blu e marrone, commovente la madonna giovane a occhi bassi, leggevo quel suo gesto di mettersi in disparte tirando con sé il vestito, come se fosse concentrata su una sensazione fisica più grande di lei, che la sovrasta. Quell’impressione profonda mi aveva stupito per come si era fatta sentire in me in modo del tutto nuovo. Nella mia vita ho visto davvero tante Annunciazioni senza che mi avessero mai suscitato nessuna associazione o metafora. In quell’occasione sono stata così colpita che è quasi diventata un'ossessione. Sono rientrata in chiese dove sapevo avrei trovato annunciazioni, ho ricercato riproduzioni in cataloghi; riflettevo sulle differenze, sulle scelte degli artisti di sottolineare un particolare, di inventare un contesto specifico.

Mi è capitato di riconoscere la ‘mia’ annunciazione, l’ho dipinta con particolare partecipazione del corpo, usando colori inconsueti per me. L’ho guardata con stupore (Fig. 13,14,15,16).

Molto tempo dopo, mentre parlavo con un amico a proposito di come arrivo a lavorare su una certa immagine, ho esclamato: "è come un’annunciazione!". E' in quel momento che l’immagine che mi aveva perseguitato così a lungo è arrivata a essere un pensiero che riguarda il mio vissuto come artista: l’inatteso ricevere dall’esterno, diventarne il contenitore, essere spinta a creare un'immagine.

L’immagine può essere il risultato di questo processo creativo ricettivo/attivo che ho descritto, senza necessariamente arrivare a essere un pensiero cosciente. Mi interessa però averne rintracciato in certi casi il percorso per poter dire che l’immagine è la prima sintesi di un pensiero possibile.

Mi pare che la creatività introduca nuovi nessi che la logica cosciente non prevede o esclude, e si organizzi a partire da un'esperienza percettiva che non si basa sul senso comune. Arrivo a pensare che le associazioni libere, gli accostamenti inaspettati, il modo come lo sguardo seleziona lascia cadere, decodifica uno stimolo; come l'immagine visualizza per analogie, deforma, mescola realtà parallele, oltrepassa le differenze tra esterno e interno, abbiano il loro fondamento nella memoria sensoriale che si risveglia nell’incontro fra il corpo e il reale.

Si può supporre che la creatività sia una capacità presente fin dall’origine per la sopravvivenza psichica, e che parta dai sensi in relazione a bisogni.

Winnicott guarda non il bambino di Freud che allucina (cioè immagina) quando ha fame, in assenza del soddisfacimento, ma invece il bambino mentre sta mangiando, mentre sta soddisfacendo il bisogno. Secondo lui la creatività si attiva proprio se trova il seno a sua disposizione quando ne ha bisogno, è la creatività, sostenuta da una mamma che si dà prima di essere percepita troppo separata, che glielo fa immaginare come parte di sé.

Un'illusione che è stata esperienza reale nell'utero, e che fonderebbe la fiducia del bambino di possedere risorse interne per non morire, e intanto gli permette di imparare a nutrirsi a una fonte fuori di lui.

Secondo Winnicott è per merito di questa fiducia in sé confermata nei momenti di soddisfacimento, che il bambino potrà in seguito, quando la mamma non c'è, vivere un'analoga esperienza di fusione con un oggetto nuovo, che immagina ancora non del tutto separato. E' sempre un’illusione ad aiutarlo ad attraversare il vuoto della mancanza e a scegliere questa volta un sostegno all'esterno.

E' in questo passaggio che Marion Milner si inserisce per dare un valore specifico al ruolo dell'immaginazione (“Il ruolo dell’illusione nella formazione del simbolo”, 1952, in: La follia rimossa delle persone sane, Borla, 1992).

Il bambino è attratto da un animale di pezza (ignoto) perché gli ricorda la mamma e quell'estasi (il noto): secondo la Milner questa capacità di venire attratto è espressione di un salto creativo, primi accenni della capacità simbolica del giocare. Riesce infatti a vivere un oggetto della realtà esterna, grazie alla sua immaginazione, come identico emotivamente alla bocca-seno vissuti come parte di sé, a vederlo cioè come qualcosa di speciale. E così la realtà diventa attraente, familiare e accessibile e il bambino si apre all'ignoto e procede nella conoscenza (chiudersi/aprirsi: oscillazione narcisismo-relazione oggettuale).

Mi piace pensare che all’origine la creatività - cioè il mettere insieme, collegare in modo imprevisto il noto con l'ignoto - sia necessaria e funzionale non solo per proteggersi da esperienza troppo difficili, ma anche per collegarsi alla vita, per passare dal cordone ombelicale all’ossigeno, al latte, agli oggetti, per fare esperienza del mondo esterno.

Da parte mia osservo che il bambino comincia a immaginare a partire da bisogni ed emozioni che si fanno sentire nel corpo.

E' forse per questo fondamento che sono proprio i sensi a aiutare a stare in quel vuoto di cui parlavo all'inizio perché sia "germinativo". I sensi pescano sul fondo della vita del corpo, che è un deposito di memorie di contatti fisici, delle nostre origini, della nostra vita e della specie, che si risvegliano nell’impatto con una certa realtà.

Nella mia arte non cancello gli errori, che, testimoni della ricerca della forma, diventano movimento.

Stefania Salvadori

 

 

nota n.1 - Bassorilievo di marmo del II secolo d.C., conservato nel Museo Chiaromonte al Vaticano. Il suo calco si trova nello studio di ogni psicoanalista della Società Psicoanalitica. Questa presenza è dovuta al fatto che la Gradiva rappresenta il modello psicoanalitico di cura, un modo di entrare in contatto con la sofferenza psichica. L'origine del significato per la psicoanalisi di questa immagine deriva da un bellissimo saggio che Freud scrisse nel 1906 "Il delirio e i sogni nella 'Gradiva' di Jensen".

 

 

fig-1 il passo

 Fig. 1

 

fig-2 saltando

Fig. 2

 

fig-3.saltoN1a

Fig. 3

 

fig-4.saltoN1b

Fig. 4

 

fig-5.rincorsa

Fig. 5

 

fig-6.saltoN2

Fig. 6

 

fig-7 andarsene

Fig. 7

 

fig-8 salto1

Fig. 8

 

fig-9 salto

Fig. 9

 

fig-10   ONDA

Fig. 10

 

fig-11 modello WAIT

Fig. 11

 

fig-12 AnnunciazTIZIANO NA

Fig. 12

 

fig-13 Annunciazione

Fig. 13

 

fig-14 particolareAnnunciaz1

Fig. 14

 

fig-15 particolare Annunciaz2

Fig. 15

 

fig-16 partic annunciazione.3

Fig. 16

 

 

 

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