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Neri C., La nozione allargata di campo in psicoanalisi. 2009

 

Il lavoro è articolato in due sezioni. La prima è dedicata al confronto tra il concetto di campo e nozioni che, pur essendo prossime, non coincidono con esso. La seconda sezione, che inizia col paragrafo funzione alfa, sviluppa l’idea di “campo allargato”.

 

Le origini del concetto: M. e W. Baranger, F. Corrao

 

I primi lavori in ambito psicoanalitico (duale) sono quelli di Madeleine e Willy Baranger, che, introducendo il concetto di campo bi-personale, propongono un ampliamento della psicoanalisi di scuola kleiniana attraverso l’apporto di concetti tratti dalla psicologia della Gestalt e dalla psicologia dell’uomo “in situazione” di Merlau-Ponty (1964). «Le caratteristiche strutturali della situazione analitica rendono necessaria una descrizione con l’aiuto del concetto di campo. La situazione analitica ha la sua propria struttura spaziale e temporale, è orientata secondo linee di forza e dinamiche determinate, possiede proprie leggi di sviluppo, obiettivi generali e obiettivi momentanei. Questo campo è il nostro oggetto immediato e specifico di osservazione» (Baranger e Baranger, 1961, p. 28). Partendo dalla considerazione che paziente e analista partecipano allo stesso processo dinamico, i Baranger (1978) arrivano a distinguere gli individui impegnati nel campo, dal campo che essi stessi producono ed in cui sono immersi: il campo non è la somma delle situazioni interne dei membri della coppia, né è riconducibile all’uno o all’altro, ma si configura come un elemento terzo con qualità e dinamiche indipendenti. Il campo analitico così definito si articola in tre livelli di strutturazione: il primo livello corrisponde agli aspetti formali e al contratto di base (setting), il secondo agli aspetti dinamici del contenuto manifesto e dell’interazione verbale, il terzo all’aspetto funzionale di integrazione ed insight rispetto alla fantasia inconscia bi-personale. La fantasia inconscia bipersonale rappresenta l’aspetto più originale della proposta dei Baranger e coniuga i concetti kleiniani con quello di campo: essa è infatti costituita dall’incrocio delle identificazioni proiettive dei due membri della coppia analitica. La fantasia inconscia bi-personale è l’oggetto specifico dell’analisi, il cui scopo diventa quello di mobilizzare il campo e permettere il riattivarsi dei processi proiettivi e introiettivi, la cui paralisi determina sofferenza.

Come apparirà chiaro col procedere del discorso, questo riferimento stretto alla teoria kleiniana è anche l’aspetto più datato del contributo dei Baranger, perché definisce in modo molto specifico e vincolante i meccanismi ed i processi di formazione e sviluppo del campo. La visione attuale tende invece a valorizzare proprio la possibilità di cogliere attraverso la nozione di campo anche gli elementi più sfuggenti e difficili da determinare; come osserva Carla De Toffoli (2005) quando «accade qualcosa che esorbita dagli abituali parametri spazio-temporali, che travalica i confini individuali, che non è contenibile nelle categorie conosciute [...] allora può essere utile ricorrere al modello di Campo perché l’esperienza possa essere rispecchiata ed in qualche modo resa pensabile, affinché non vada perduta». F. Corrao (1986) vede la psicoanalisi come una pratica specializzata nella trasformazione delle esperienze sensoriali ed emotive in pensieri e significati. Egli mette a punto una nozione di campo coerente con questa visione. «Il campo [...] può essere descritto in base alle sue trasformazioni [...], non appare confinato da alcun piano di osservazione fattuale di tipo percettivo, ma [...] si riferisce a movimenti fenomenologici eventuali, [...] invisibili e tuttavia deducibili [...]» (Corrao, 1986, p. 120). La sua teoria della cura è centrata sulle trasformazioni ed evoluzioni del campo psicoanalitico (comprendente l’analista, il paziente e le teorie). Questa valorizzazione delle nozioni di trasformazione e di campo ha come conseguenza l’abolizione di una distinzione stabile soggetto/oggetto, che sono considerati funzionalmente reversibili.

 La scuola italiana

 Prima di proseguire con la parte della trattazione dedicata a differenziare la nozione di campo da concetti analoghi, desidero chiarire un punto relativo al discorso che mi propongo di sviluppare. Nel corso degli anni e col contributo di molti psicoterapisti ed analisti, si sono accumulate un gran numero di definizioni della nozione di campo, a volte contraddittorie ed inconciliabili tra di loro. Per questo, non aggiungerò una mia definizione originale, preferendo offrire una rilettura ed un collegamento degli apporti che mi sembrano più significativi. Inoltre, non mi propongo di fornire un’illustrazione completa ed esaustiva dei fenomeni di campo, ma porterò l’attenzione soltanto sugli aspetti che mi sono parsi maggiormente utili nell’impiego clinico. Allo stesso modo, desidero anche chiarire che questo articolo è basato principalmente sul lavoro degli psicoanalisti e psicoterapisti di gruppo italiani, che hanno dato vita ad un movimentato dibattito intorno a questo tema: Riolo (1986; 1997), Correale (1991), Di Chiara (1997), Gaburri, (1997), Chianese (1997), Ferro (2003). Gli psicoanalisti italiani, per un’antica tradizione che risale a Federn e Weiss e che è stata portata avanti da Perrotti, Musatti e Servadio, sono stati allenati a monitorare momento per momento ciò che accade in seduta; in particolare il mutare di sensazioni, atmosfere, vissuti corporei. Essi cercano con costanza il contatto emotivo con il paziente, seguono accuratamente il minuto scambio – fatto di silenzi, gesti, cambiamenti nello spazio e mutamenti della postura – tra il paziente e loro stessi, che sostiene, modifica e mette a punto la relazione terapeutica. Segnalo di passaggio come questa attenzione è ripresa in studi molto recenti ed in particolare da quanto indicano gli psicoanalisti che partecipano al Boston Change Process Study Group (2005, p. 694).

Le percezioni vengono annotate nella mente dell’analista come osservazioni utili per seguire lo sviluppo della seduta; esse però possono anche non essere annotate come osservazioni, ma trasformate in immagini, fantasie e narrazioni che al momento opportuno potranno venire condivise (o meno) con il paziente. Questo lavoro di annotazione, trasformazione ed eventuale comunicazione non si sovrappone e non sostituisce l’interpretazione, ma l’affianca, ridefinendone la posizione e l’importanza. Ne deriva un cambiamento della tecnica classica: la ricettività dell’analista, l’attenzione per il contesto, le trasformazioni che opera sugli elementi non-verbali (extra-verbali, ultraverbali), la tolleranza per il dubbio divengono un’importante chiave terapeutica assieme alla capacità d’interpretazione e soprattutto alla capacità di modulazione interpretativa (Ferro, 2005).

Parallelamente al percorso che ho fin qui sinteticamente descritto, è cresciuto in Italia un interesse per l’idea di campo, che ha portato ad un’elaborazione originale di questo concetto, che a mio parere non ha ancora ricevuto sufficiente riconoscimento in ambito internazionale. Nel 1994 il congresso nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, tenutosi a Rimini, è stato appunto dedicato a La risposta dell’analista e le trasformazioni del campo analitico. Un risultato importante di questo approfondimento è stata un’accresciuta consapevolezza a proposito di due punti. Prima di tutto, il concetto di campo è utile soltanto se si rinuncia a considerarlo come una teoria psicoanalitica comprensiva e lo si affianca ad altre teorie e modelli, come, ad esempio, la teoria basata sui concetti di transfert e controtransfert. Impiegato in questa maniera, il concetto di campo consente di spiegare meglio alcune dimensioni della situazione analitica e di averne una visione più completa. In secondo luogo, la stessa nozione di campo, per essere operativa nella clinica, deve essere allargata a comprendere altri concetti che la completano. Mi riferisco in particolare alle idee di funzione alfa, di funzione narrativa, di trasformazione e di evoluzione in O delle quali parlerò in seguito.

Atmosfera

Prima di presentare il tema principale – proposte per l’impiego della nozione di campo nella clinica – procederò a distinguere la nozione di campo rispetto a concetti simili e ad illustrarla attraverso alcune esemplificazioni. I termini campo ed atmosfera sono talora impiegati come sinonimi. Atmosfera e campo, tuttavia, non coincidono. Il termine campo indica qualcosa di più complesso ed articolato dell’atmosfera. Il campo non è soltanto un’atmosfera: dal campo dipendono una serie di funzioni tra loro interagenti. Il campo – più precisamente – è l’insieme delle condizioni che fa sì che queste funzioni (empatia, attenzione, attunement, ricezione, interpretazione, ecc.) interagiscano positivamente oppure siano bloccate, inibite o sovvertite. Per illustrare questo punto impiegherò un’osservazione tratta dell’ambito ospedaliero. Quando un medico o un infermiere comincia il turno, solitamente si informa in modo apparentemente generico:

“Come è?!?”. Di fatto sta domandando: Non quale è l’atmosfera, ma come è la situazione generale del reparto. Soltanto dopo avere ricevuto queste informazioni, propone altre e più specifiche domande su eventuali emergenze o casi particolari. L’ordine con cui il medico che entra in turno pone le domande corrisponde a qualcosa che è stato insegnato dall’esperienza: un’emergenza o un problema clinico complicato si affrontano in modo diverso a seconda che il reparto “tenga” oppure che vi sia tensione, caos, allarme. Nella risoluzione dei problemi clinici, cioè bisogna tenere conto di variabili che non riguardano solo i pazienti, ma corrispondono alle funzioni svolte dai diversi membri dello staff, alla relazione tra loro e dalla relazione che vi è tra lo staff ed i pazienti. Tutto ciò è raccolto nella sintetica domanda del medico che entra di guardia: “Come è?!?”.

 Il campo differisce dall’atmosfera perché sostiene il complesso delle funzioni necessarie per l’operare del reparto e della situazione analitica.

 Vorrei stabilire un’ulteriore differenza tra campo e l’atmosfera osservando che il campo corrisponde a stati mentali che possono essere sperimentati – contemporaneamente o alternativamente – come interni alla mente o come appartenenti all’ambiente, mentre l’atmosfera è una condizione solitamente attribuita all’ambiente.

 Legame

 Il concetto di legame è stato introdotto da Pichon-Rivière e poi sviluppato soprattutto da René Kaës e Janine Puget. Secondo la definizione originaria (Pichon-Rivière, 1979) con il termine legame (vinculo) ci si riferisce contemporaneamente alla “relazione oggettuale” ed alla “relazione interpersonale”. Il legame rappresenta una struttura complessa che comprende il soggetto, l’oggetto e la relazione tra di essi, tanto a livello interno quanto a livello esterno. Ad esempio, si parla di “legame fraterno” perché ci sono fantasie relative ai fratelli ed alle sorelle, ma anche perché esiste un reale rapporto inter-personale con un fratello o una sorella: ovvero ci sono sempre due versanti, uno interno ed uno esterno.

I contributi di R. Kaës (1993; 1994) e J. Puget (Puget, Berenstein, 1997), descrivono il legame come una realtà psichica inconscia particolare, separata e distinta per ciascuno dei soggetti collegati dal legame. Come nota Evelyn Granjon (2005), l’idea di campo è più ampia ed articolata di quella di legame. Gli effetti dei legami si manifestano all’interno del campo, quest’ultimo però non li fonda né li produce.

Si può invece apprezzare un maggiore parallelismo tra campo e legame nella definizione fornita da Anna Maria Nicolò (2002, p. 186): «[...] il legame costituisce lo sfondo relazionale sul quale si innesta il nostro lavoro analitico e all’interno del quale si muoveranno i personaggi del mondo interno del paziente e dell’analista. Esso costituisce lo scenario relazionale del palcoscenico analitico. Tale scenario in certe situazioni [...] potrà essere mobile e variabile e non influenzare particolarmente lo sviluppo emotivo della storia. Al contrario in altre potrà rappresentare l’elemento dominante, che oscura la stessa storia e i dialoghi tra i personaggi».

Setting

M. e W. Baranger – come ho accennato – considerano il setting come uno dei livelli costitutivi del campo. Non sono d’accordo con il loro punto di vista e ritengo più utile tenere separati i due concetti. In altri termini, non condivido il porre l’accento sugli aspetti formali (spazio, tempo, accordo), per cui il campo costituirebbe «una vera e propria struttura che si crea tra analista e paziente e che permette lo sviluppo dell’analisi» (Ferro, 1990, p. XV). Il campo – per come lo intendo io – non coincide con il setting e, diversamente dal setting, non è relativamente invariante: la sua configurazione comprende alcuni elementi stabili nel tempo ed altri che possono mutare momento per momento. Questi cambiamenti influenzano il paziente, l’analista e la qualità della loro relazione. La relativa mobilità ed elasticità del setting semmai è legata alle proprietà del campo. Credo invece che si possa utilmente accostare al mio modo di concepire il campo la visione di J. Bleger.

Secondo Bleger (1966; 1970) si può studiare la situazione analitica distinguendo aspetti che costituiscono un processo (setting dinamico), cioè i fenomeni che interpretiamo (1967, p. 237), ed aspetti che rappresentano invece una cornice, un “non-processo” (setting istituzione). Il setting istituzione include le dimensioni più stabili della relazione (il luogo, l’orario, il pagamento delle sedute, ecc.) e funziona come un deposito per aspetti psicotici della personalità. Finché si mantiene costante ed inalterato, il setting istituzione è “muto”, fa da sfondo al processo analitico e garantisce una forma simbiotica di legame. Bleger propone inoltre un’osservazione interessante: nel setting istituzione viene depositata in generale la parte not changing dell’identità, che non corrisponde con la parte psicotica, ma include anche elementi su cui si basa l’identità più matura.

Queste formulazioni di Bleger aggiungono spessore all’idea di campo come pool trans-personale di idee, sentimenti ed emozioni presenti in una coppia o in un gruppo. Gli individui contribuiscono depositandovi emozioni, sensazioni e perfino parti scisse di sé (Perrotti, 1983), fino a comporre un amalgama di elementi disparati che non corrisponde più né ai singoli partecipanti né alla loro relazione, ma che condiziona entrambi.

Relazione analitica

Secondo Loewald (1960; 1960a) la relazione è una forma altamente sviluppata di dialogo e di interazione psichica, nella quale due o più persone interagiscono tra loro. Una relazione si realizza contemporaneamente a vari livelli; il nucleo essenziale di significato del termine, tuttavia, fa riferimento all’interazione di individui in quanto centri di attività psichica, che sono di per sé molto organizzati e relativamente autonomi. Ognuna delle persone impegnate nella relazione, sebbene sia relativamente autonoma, contemporaneamente dipende per il proprio sviluppo e la propria preservazione dal rimanere nell’ambito del campo affettivo, sociale e culturale che è proprio di quella relazione. In altri termini, il campo svolge un’attività nutritiva e di sostegno sugli individui e sulle relazioni che hanno luogo nel suo ambito. In altre circostanze, al contrario, il campo può svolgere un’attività svuotante e paralizzante. S. Mitchell (1988) – ponendosi sulla stessa linea di Loewald – propone una prospettiva secondo la quale lo studio della vita psichica non può essere centrato sull’individuo, inteso come entità separata, e sulle vicissitudini dei suoi desideri pulsionali, ma deve prendere come oggetto il campo interazionale all’interno del quale l’individuo nasce e lotta per stabilire contatti ed esprimersi. L’indagine analitica implica la partecipazione, l’osservazione, la scoperta e la trasformazione di queste relazioni e delle loro rappresentazioni interne.

Io ritengo che “relazione” e “campo” costituiscono un sistema nel quale le funzioni dell’uno e dell’altra variano con il mutare delle condizioni più generali.

Più precisamente voglio affermare che gli individui (l’analista e l’analizzando) sono la sorgente dell’attività, dell’organizzazione e dell’intenzionalità che si manifesta in analisi. La relazione è il contesto in cui tale attività prende vita, il campo è una dimensione di base della relazione. A tale proposito, ricordo che una posizione simile è stata espressa da Alice e Michael Balint nel loro articolo del 1939 sulle risposte emotive dell’analista. La situazione analitica non è un campo “sterile”, ma è “doppiamente individuale”, cioè permeata da un clima che è altamente specifico e legato ad entrambi i partecipanti ed alla loro particolare relazione.

Altre volte, un particolare tipo di campo si manifesta non come dimensione di base della relazione, ma piuttosto come qualcosa che è presente al posto di una relazione che è venuta a mancare o prima che si stabilisca una relazione. Utilizzerò un frammento clinico per illuminare la situazione in cui l’attivazione di un campo sostituisce una relazione.

Roberto – un uomo di circa quaranta anni – da circa due anni è chiuso in casa. Racconta al medico e all’infermiere che lo vanno a visitare di essere sottoposto ad un campo elettromagnetico provocato da Radio Maria. Roberto ha chiamato più volte i carabinieri per una disinfestazione della casa dal “campo Radio Maria”, ma senza alcun risultato. Gli operatori del Centro di salute mentale, che successivamente lo hanno seguito abbinando alla psicoterapia un trattamento farmacologico, fanno l’ipotesi che il campo magnetico possa rappresentare una particolare forma di unione del paziente con la madre che era morta alcuni anni prima. La madre ed il rapporto residuo si manifesterebbero come “campo Radio Maria”.

L’immagine del “campo elettromagnetico provocato da Radio Maria” rappresenterebbe contemporaneamente uno stato mentale ed una condizione fisica di imprigionamento1.

Spazio comune e condiviso

Una linea di pensiero molto recente e interessante è rappresentata dall’idea di spazio comune e condiviso, che R. Kaës (2003) propone come conseguenza di un generale cambiamento dei modelli psicoanalitici e dell’introduzione di nuovi dispositivi (l’analisi di gruppo, la terapia della coppia, ecc.) che “aprono” lo spazio della psiche (del sogno, della psicoanalisi) mettendolo in relazione con lo spazio intersoggettivo.

La nozione più interessante, proposta da Kaës, a mio avviso, è quella di spazio onirico comune e condiviso, intesa come «uno spazio poroso, strano e qualche volta inquietante », «un sistema di scambio tra gli spazi onirici e gli spazi di veglia di più soggetti» (Kaës, 2002). Per creare questo spazio è necessario che gli individui che vi partecipano abbiano subito un processo comune di regressione, ma Kaës ci avverte, giustamente, che «la nozione di regressione comune a due o più soggetti va maneggiata con una certa sfumatura», perché in questo caso si tratta di forme di regressione e depersonalizzazione leggere e reversibili. D’altra parte, la regressione e la depersonalizzazione non sono di per sé sufficienti perché questo spazio si realizzi: «La nozione di regressione comune [...] indica la partecipazione a qualcosa che appartiene a più persone. Questa cosa in comune non significa che essa sia condivisa automaticamente [...]» (Kaës, 2002). La condivisione è resa possibile dall’attivazione di un “apparato interindividuale e sopra-individuale” che mette in rapporto gli individui, i loro apparati psichici e spazi onirici. Lo spazio comune del gruppo, in analogia allo “spazio analitico” (Viderman, 1970), è dunque una sorta di luogo – immaginario e reale al tempo stesso – in cui si svolge la vita e si sviluppano gli scambi (Rouchy, 1998). Il modello di Kaës è fondato essenzialmente sulle alleanze ed i contratti inconsci e trova i suoi riferimenti principali nella metapsicologia freudiana.

Lo “spazio comune e condiviso” non coincide con la nozione di campo che, nella mia visione – come vedremo in seguito – ha un legame stretto con il concetto bioniano di evoluzione in “O”.

Campo e transfert

Non è facile indicare quale possa essere la collocazione del campo rispetto al transfert. Bion (1977, p. 99) in Caesura avanza l’ipotesi che la distanza tra campo e transfert possa essere meno grande di quanto non appaia a prima vista: «... vi è una continuità assai maggiore tra gli specifici “quanti” e le “onde” dei pensieri e dei sentimenti di quanto l’impressionante cesura del transfert e del controtransfert non ci faccia pensare».

Questa proposta di Bion è suggestiva, ma non del tutto convincente. Si può asserire che campo e transfert si sovrappongono in larga misura e sono difficilmente distinguibili l’una dall’altro. Si può, però, anche dire che alcuni fenomeni di campo sono ben distinguibili dal transfert, e anzi interferiscono marcatamente col suo funzionamento.

Io preferisco tenere ben distinte le due nozioni come ho indicato anche a conclusione del paragrafo dedicato a “La scuola italiana” (vedi anche Neri, 1988).

Riprenderò il discorso più avanti nel paragrafo intitolato “Il sogno del ballo”.

Il terzo

Cercherò adesso di individuare alcuni caratteri specifici del campo.

Il campo è un prodotto dell’apparentamento e del meticciato dell’analista e dell’analizzando (oppure dello psicoterapista e dei membri del gruppo). Le parole sono state accuratamente scelte. “Prodotto” si riferisce al fatto che il campo ha caratteristiche diverse da quelle delle persone che concorrono alla sua formazione e diverse anche dalla somma delle loro caratteristiche. “Apparentamento” indica che il campo è generato da simpatie e flussi di empatia che convergono, dando origine sia a qualcosa relativamente stabile, sia a creazioni temporanee che si presentano in una data seduta ed in un dato momento della seduta. “Meticciato” segnala che alla generazione del campo contribuiscono non soltanto affinità tra analista ed analizzando, ma anche tratti del carattere ed elementi affettivi e culturali diversi e disparati tra loro. Preciso che impiego il termine “meticciato” in senso positivo, cioè come espressione di tolleranza, apertura e capacità di sintesi.

Una coppia o un gruppo producono un campo e nello stesso tempo ne sono influenzati. Questa definizione mette in rilievo la prossimità tra la nozione di “campo” e quelle di “terzità” e di “terzo analitico”. André Green (2002, pp. 251 e 267) scrive: «La condizione necessaria e sufficiente per stabilire una relazione è data dal fatto che vi siano due termini. Questa semplice constatazione [...] instaura la coppia come referente teorico più fecondo di tutte le teorie che prendono come base l’unità». «[Si può fare un altro passo avanti ed aggiungere che non vi è] alcun interesse a lasciarsi imprigionare nella relazione duale»; «T. Ogden, riprendendo queste idee, ha creato il concetto di terzo analitico (analytic third), di cui Ogden si serve per la comprensione dei fenomeni che hanno luogo durante la seduta».

T.H. Ogden (1997; 1999) definisce terzo analitico intersoggettivo il risultato dello scambio degli stati di rêverie dell’analista e dell’analizzato, in un’ottica per cui il processo analitico «implica la parziale consegna della propria individualità separata ad un terzo soggetto, che non è né l’analista né il paziente, bensì una terza soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica» (Ogden, 1997, p. 10). Se da un lato il “terzo” è il prodotto dello scambio inconscio dei due membri, dall’altro è anche ciò che definisce il paziente e l’analista in quanto tali, nel senso che non esistono un analista, un analizzando e un processo analitico al di fuori di esso. Il “terzo” è in tensione dialettica con le soggettività individuali dei partecipanti e corrisponde ad un’esperienza in continua evoluzione, che può essere diversa per ciascuno dei membri della coppia e può quindi riflettere l’asimmetria propria della relazione analitica. Madeleine e Willy Baranger hanno abilmente descritto il versante collusivo e patologico di questi fenomeni sotto i nomi di “bastione” o “baluardo”. Il “bastione” è una «struttura immobilizzata che rallenta o paralizza il processo analitico che compare all’interno del campo come risultato di un aggancio inconscio tra analista e paziente» (Baranger, Baranger, Mom, 1982, p. 133).

Un altro modo ancora di vedere la questione può essere espresso con le parole di Mitchell (1997, p. 194), che scrive: «... l’analista partecipa sempre e inevitabilmente cocrea esattamente, quello che, insieme con il paziente, sta tentando di comprendere».

E` utile infine tenere presente il concetto di aggregato funzionale, introdotto da Bezoari e Ferro e definito come «una produzione analitica di coppia [...] un primo livello di simbolizzazione condivisa» (Bezoari, Ferro, 1992, p. 401). L’aggregato funzionale è l’esito dei processi di trasformazione che la coppia analitica mette in atto per cogliere e rendere rappresentabile ciò che accade ai livelli più profondi dello scambio emotivo, la «elaborazione in “aggregati funzionali” coincide con il passaggio da figure piane, colte da un unico vertice, a ologrammi, cioè immagini tridimensionali che prendono corpo nello spazio plurisoggettivo e possono essere viste simultaneamente da prospettive diverse, in quanto prodotte da almeno due fonti di luce» (Bezoari, Ferro, 1997, p. 142).

Cambiamenti del campo

Le caratteristiche del campo possono mutare per evoluzione spontanea; possono però anche essere modificate (involontariamente e inconsapevolmente oppure intenzionalmente) dalle persone che condividono lo stesso spazio o situazione relazionale.

Saul Bellow (1997) – nel testo che riporterò – impiega termini come “spandere”, “spargere”, “spruzzare”. Queste parole suggeriscono che la variazione del campo psicologico esistente tra due o più persone possa venire operata non tanto investendo direttamente l’altra persona, ma modificando il medium condiviso.

«Madge incrociò le braccia sul petto e si mise a passeggiare avanti e indietro. Era estremamente irrequieta. Passò tra le porte di vetro, entrando nel lungo soggiorno come se volesse ispezionare i sofà, le poltrone, i tappeti persiani, tornando a mettervi qualcosa di lei. Qualcosa di sessuale? Qualcosa di criminale? Ribadiva la sua importanza. Non aveva la minima intenzione di lasciartela dimenticare. La spandeva, la spargeva, la spruzzava qua e là. Non per nulla era stata in prigione. Quando la conobbi mi fece pensare a un corso sulla teoria dei campi al quale mi ero iscritto da studente; la teoria dei campi psicologici, cioè concernente le proprietà mentali di una regione mentale sotto influenze mentali che somigliano alle forze gravitazionali».

Per spiegare questo tipo di fenomeno, M. e W. Baranger (come ho accennato, chiamano in causa l’identificazione proiettiva. Io preferisco, invece, concentrare l’attenzione sulla sincronizzazione di funzioni basiche, somatiche e mentali (ad esempio, respiro, tono muscolare, ansia, rilassamento, attenzione), e sulla rottura e sull’alterazione di tali sincronizzazioni. Le caratteristiche del campo analitico cambiano anche in funzione degli stati mentali che si succedono nella mente del paziente. Il variare delle caratteristiche campo, insieme alle comunicazioni verbali e non verbali del paziente, alle associazioni ed ai sogni, forniscono all’analista una rappresentazione del percorso che il paziente sta facendo, durante la seduta e durante l’intera analisi, nell’esplorazione del suo mondo di relazioni, fantasie e memorie. Il brano che segue – tratto da un libro di reportages di Ruyard Kapu´sci ´ nski – mostra con immediatezza come le caratteristiche del campo possano mutare, influenzando i vissuti delle persone che sono nel suo ambito. In Ebano, Kapu´sci ´nski (1999) descrive un percorso in taxi nell’isola e città di Lagos:

 «La casa [dove abito e dove adesso sto tornando] si trova nel centro della città, sull’isola di Lagos. Un tempo l’isola fu base dei mercanti di schiavi e questa sua origine sinistra e vergognosa ha lasciato un non so che di inquieto e violento che aleggia ancora nell’aria. Andando in taxi chiacchiero con l’autista, quando all’improvviso questi si zittisce e comincia a guardarsi intorno con aria nervosa. “Che c’è?” domando incuriosito. “Very bad place!” risponde lui a voce bassa. Proseguiamo. L’autista, si è appena rilassato riprendendo a chiacchierare, quando in mezzo alla strada (qui non esistono marciapiedi) ci viene incontro un gruppo di persone alla cui vista il conducente ammutolisce, si guarda intorno, accelera. “Che succede?” domando. “Very bad people!” risponde e solo dopo un chilometro riprende la conversazione interrotta.

Questo autista si porta impressa nella testa una mappa della città come quelle dei commissariati di polizia, con le luci multicolori che lampeggiano segnalando i punti pericolosi, le aggressioni e i delitti. I segnali d’allarme sono particolarmente fitti nel centro della città, dove si trova la mia casa».

E` come se ad un territorio (Lagos, l’isola degli schiavisti) fossero rimasti legati ricordi terribili (che adesso sono sullo sfondo) ed un palpabile campo di negatività: «... un non so che di inquieto e violento che aleggia nell’aria». Questo “campo di negatività” è composto da un insieme di stati mentali (corrispondenti a diversi punti del campoluogo- deposito); ognuno di essi è capace di pervadere la percezione e i vissuti dell’autista e di Kapu´sci ´ nski stesso: entri in un certo quartiere della città e ti trasformi, sei in pericolo e diventi anche tu un po’ losco.

Una metafora ferroviaria

Il racconto di Kapu´sci ´ nski richiama alla mente la celebre analogia nella quale Freud (1913-14) paragona il paziente ad un passeggero seduto in uno scompartimento di un treno e l’analista ad un esperto di linee ferroviarie. Il paziente-passeggero, associando liberamente, descrive i suoi stati d’animo come se fossero le diverse scene del mutevole paesaggio che vede dal finestrino. Egli, però, non conosce il senso di ciò che sta illustrando ed ancora meno quello del viaggio nel suo insieme. L’analistaesperto di linee ferroviarie, invece, è in grado non soltanto di seguire il percorso associativo complessivo, ma anche di attribuirgli un significato.

Al di là della somiglianza delle immagini scelte, vi sono alcune sostanziali differenze tra ciò di cui parla Freud e ciò che racconta Kapu´sci ´ nski. La prima consiste nel fatto che il dispositivo individuato da Freud prevede che l’analista non abbia accesso diretto alle fantasie-paesaggio, ma possa esserne informato soltanto indirettamente attraverso ciò che il paziente racconta. Per Kapu´sci ´ nski, invece, ciò che l’autista dice non è l’unica fonte di informazione che ha a disposizione: Kapu´sci ´ nski percepisce anche “in prima persona” il variare delle atmosfere e sensazioni nell’attraversamento dei diversi quartieri della città. La seconda differenza è rappresentata dal fatto che Freud – attraverso l’esempio delle due persone nello scompartimento del treno – essenzialmente vuole illustrare il particolare “lavoro in tandem” che il paziente e l’analista compiono per convertire le fantasie inconsce in comunicazioni consce e dotate di significato. Kapu´sci ´ nski, invece, vuole mettere in evidenza come il passaggio attraverso diversi quartieri della città provochi una variazione dei pensieri, delle fantasie, del tono dell’umore e della comunicazione tra le due persone.

Funzione alfa

Come è possibile per lo psicoterapista modificare le caratteristiche negative, costrittive o addirittura perverse che possono essersi determinate nel campo analitico?

Per rispondere, almeno in parte, a questa domanda è necessario affiancare alla nozione di campo quelle di “funzione alfa” e di “sciogliere le emozioni in narrazioni”. Attraverso lo stretto collegamento con esse, la nozione stessa di campo cambia, divenendo quella che vorrei definire nozione allargata di campo.

La Funzione alfa corrisponde alla capacità di operare trasformazioni sulle esperienze sensoriali, sulle tensioni e sulle emozioni, più in generale su tutti gli elementi esterni ed interni che sollecitano la mente e la personalità di un individuo. La strutturazione della Funzione alfa del bambino non avviene per sviluppo autonomo, ma si appoggia su quella della madre e delle altre persone che si prendono cura di lui. La madre inizialmente “digerisce” con la propria Funzione alfa le impressioni sensoriali che il bambino, ancora immaturo, non è in grado di metabolizzare. Successivamente, il bambino – appoggiandosi su quella della madre – struttura ed attiva la propria Funzione alfa.

Alcuni modi dell’operare della Funzione alfa dell’analista durante la seduta possono essere chiariti facendo riferimento alla rêverie. La rêverie – come indica l’uso comune della parola nella lingua francese – è un’attitudine rilassata e sognante, un lieve fantasticare ad occhi aperti, senza obiettivi. Con riferimento alla situazione analitica, la rêverie corrisponde alla «capacità dell’analista di recepire comunicazioni del paziente pre-verbali o verbali, capacità di ricezione che è accompagnata da una concomitante attività di elaborazione» (Di Chiara, 1992).

Emozioni narrazioni

L’espressione “sciogliere le emozioni in narrazioni” indica un approccio teorico e tecnico che dà grande importanza alla possibilità che un dato sentimento o vissuto possa essere espresso. L’importanza dell’esprimere – secondo questo approccio – è pari a quella del comprendere e dare senso (Baruzzi, 1981). Lavorando secondo questo orientamento, l’idea di trasformazione diviene centrale ed assorbe in larga misura quella di interpretazione. Va sottolineato che il concetto di narrazione è qui usato in un modo assai diverso da quello con cui è stato impiegato dagli psicoanalisti americani, ad esempio da Roy Schafer, che della funzione narrativa sottolineano soprattutto l’aspetto legato al costruttivismo ed al relativismo. Secondo Shafer (1983; 1992) è possibile considerare i “racconti della vita” via via prodotti nel corso dell’analisi, le teorie di riferimento dell’analista, l’interpretazione e la stessa relazione analitica come strutture o performance narrative, dotate in quanto tali di un carattere finzionale, mutevole e trasformabile.

 Nella prospettiva che sto proponendo, invece, il riferimento al narrare si lega alla possibilità di cogliere, dare forma e rendere quindi rappresentabile e pensabile qualcosa che è presente in modo implicito o soltanto su un livello emotivo. “Sciogliere le emozioni in narrazioni” significa operare una trasformazione attraverso cui emozioni e vissuti troppo addensati vengono espressi in parole, scene e narrazioni. La messa in parole cui mi riferisco non coincide con l’interpretazione classica, ma piuttosto ne rappresenta un precursore o un sostituto. Essa è caratterizzata dal fatto di essere, per alcuni aspetti (spontaneità, immediatezza, vicinanza con la dimensione preconscia), simile ad una libera associazione ed è caratterizzata, inoltre, dalla forma narrativa e per immagini. La nozione di “sciogliere le emozioni in narrazioni” può essere indicata anche con “emozionenarrazione”. Questa notazione (emozione narrazione) mette in luce non soltanto la trasformazione che ha come risultato l’espressione delle emozioni, ma anche l’operazione reciproca. Evidenzia, dunque, che la narrazione ha la capacità di fare emergere emozioni sino a quel momento disperse o avvertite soltanto come tensioni (Corrao, 1992; Neri, 2004).

Le emozioni ed i sentimenti solitamente non sono considerati al pari dei pensieri come fattori organizzativi e di orientamento. Io ritengo, invece, che l’emergere e l’esprimersi di nuove forme di sentimento sia fondamentale nel processo di conoscenza, cambiamento e complessiva riorganizzazione che si attua in analisi. Come osservano anche gli autori del Boston Change Process Study Group  (2005): «... si può dire che [emozioni e sentimenti] sono i prodotti più importanti e complessi che emergono dall’interazione umana».

Il sogno del ballo

Seguendo questo approccio teorico e tecnico, anche il sogno non è visto come un testo da decifrare, ma piuttosto come una prima forma di espressione e contenimento di emozioni e vissuti, che potranno andare incontro a successive trasformazioni, attraverso il racconto del sogno in seduta ed il dialogo tra paziente ed analista (Friedman, 2002). Fornirò un esempio clinico.

Nino: “Ho sognato che mi trovavo in una stanza con alcune altre persone, i colleghi del centro di igiene mentale dove lavoro. Incominciavo a ballare con Annarita, la psicologa del mio servizio; così, per fare allegria. Il ballo diventava via via più intenso e veloce. Annarita iniziava a ridere. Anche io – dopo un po’ – ridevo con lei. La risata ci trascinava sempre più. Cadevamo a terra”. Nino aggiunge alcune associazioni. Nino: “Con Annarita per molti anni ho avuto un rapporto molto positivo. Abbiamo condotto insieme un gruppo di ‘pazienti gravi’ che ha dato risultati veramente buoni. Io poi ho avviato, nel servizio, un secondo gruppo: il ‘gruppocultura’. Nello stesso periodo, Annarita ha iniziato un gruppo di musico-terapia. Il gruppo di Annarita, però, non ha funzionato molto bene, a causa di alcuni problemi tecnici. Lentamente lei lo ha trasformato, sino a quando è diventato un gruppo gemello del mio, con la stessa formula”.

Ascoltando il paziente, penso che il suo rapporto con Annarita più che un accoppiamento sessuale, è un andare di pari passo sincronizzandosi e sostenendosi reciprocamente.

Nino (continua): “Attualmente, il rapporto tra me ed Annarita è cambiato. Continua ad esservi grande stima, ma tra noi si è inserita una certa sospettosità. Il rapporto è sempre intenso, ma piuttosto sul versante di una sottile conflittualità, che su quello della amicizia. Quest’anno, io ho deciso di non riprendere il mio ‘gruppo-cultura’. Il gruppo che ho terminato l’anno passato è stato molto ricco e produttivo. Quest’anno, però, manca un’idea centrale intorno alla quale il gruppo potrebbe lavorare”. Penso che se Nino non ha ripreso un gruppo che è andato tanto bene, si deve essere verificato e deve essere ancora presente qualcosa che rappresenta un intoppo molto grande.

Nino (continua a parlare e poi, terminata questa parte del suo discorso, rimane in silenzio): “La situazione del servizio, in generale, è fortemente conflittuale. Vi è una contrapposizione litigiosa, violenta e distruttiva tra il primario ed il responsabile del day hospital. Il conflitto è dilagato, andando anche al di là del servizio: ha coinvolto il sindaco, il deputato locale ed altri personaggi di rilievo della città”.

Si presentano alla mia mente due possibilità di intervento. La prima è mettere il sogno e le associazioni in rapporto con il transfert. Letto in questa chiave, il sogno segnalerebbe un’erotizzazione del rapporto tra il paziente-Nino e me-Annarita. Il surriscaldamento della relazione analitica avrebbe un effetto destabilizzante sulla struttura del Sé del paziente e potrebbe portare ad un collasso dell’analisi (“la risata ci trascinava sempre più, cadevamo a terra”). Il transfert erotico – ad un altro livello – troverebbe corrispondenza in un transfert persecutorio, che si starebbe adesso progressivamente insinuando nel positivo rapporto tra il paziente e l’analista-Annarita. Questo secondo aspetto del transfert sinora è stato tenuto relativamente lontano, perché scisso e proiettato in una scena secondaria, che è rappresentata dalla relazione tra il primarioanalista e il paziente-responsabile del day hospital. Questa lettura del sogno e delle associazioni, però, non mi convince pienamente. Essa, infatti, è in contrasto con la percezione che ho avuto del rapporto di Nino con Annarita come un andare all’unisono, piuttosto che un accoppiarsi. Inoltre, non ho percepito nell’atmosfera della seduta erotizzazione e/o persecuzione, ma piuttosto sofferenza, ansia e preoccupazione. Il ballo mi era sembrato corrispondentemente come un modo di contrastare e modificare tali sentimenti di sofferenza, ansia e preoccupazione, introducendo allegria (come ha detto Nino) o eventualmente eccitamento (come a me è sembrato).

La seconda possibilità di intervento – coerente con l’idea che il sogno sia una prima forma di contenimento ed espressione di emozioni che sono in cerca di un’espressione più completa ed articolata – è guidata dall’idea che Nino desideri effettivamente condividere con me ciò che sta vivendo. Questa lettura non vede me-analista come uno dei protagonisti del sogno, ma piuttosto come il destinatario del sogno e del suo racconto. Scelgo questo seconda linea di lettura del sogno ed intervengo in modo cauto segnalando l’eccitazione piuttosto che l’erotizzazione.

Dr Neri: “Mi sembra che vi sia una eccitazione crescente”.

Nino: “Dove vede l’eccitazione? Ciò che provo nel servizio - semmai – è noia, impossibilità a partecipare”.

Dr Neri: “Il sogno mostra un’eccitazione crescente. Le risate portano Lei ed Annarita a cadere a terra”.

Nino rimane in silenzio. Sembra teso e a disagio. Probabilmente, attende che io dia una collocazione al sogno indicando un contesto. Ciò gli permetterebbe di capirlo ed avvicinarsi ai sentimenti che contiene. L’individuazione di un contesto – in generale – è essenziale perché possa avvenire una trasformazione conoscitiva ed affettiva. Penso che il rischio che il conflitto tra il primario ed il responsabile del day hospital trascini con sé l’intero servizio è molto doloroso per Nino. Già in una precedente occasione, alcuni anni addietro, la deflagrazione del servizio in cui lavorava lo ha costretto a cambiare posto di lavoro ed andare a vivere in una cittadina vicina. Decido di intervenire seguendo il più possibile ciò che il paziente ha detto nelle associazioni al sogno.

Dr Neri: “Ho pensato che il sogno possa rappresentare la situazione che vi è nel servizio dove lavora e mostri come lei sta vivendo questa situazione”.

Nino (iniziando sommessamente a piangere): “Nel sogno vi sono risa crescenti, ma io credo che stiano per l’opposto: un pianto crescente”.

Sono molto commosso dalla pena di Nino, che si è manifestata in modo improvviso. L’eventualità che quello su cui ha investito vada in rovina lo fa soffrire molto. Penso che capire maggiormente quale sia il suo ruolo nella vicenda potrebbe aiutarlo.

Dr Neri: “Il sogno fa vedere anche la funzione svolta nel servizio da Lei e dalla sua collega psicologa”.

Nino: “In effetti, io ed Annarita, siamo centrali nel servizio. Se il nostro rapporto, che è già diventato più conflittuale, dovesse rompersi, il servizio non sarebbe più lo stesso”.

La seduta sta volgendo al termine. Mi sembra opportuno intervenire ancora, non sminuendo la gravità della situazione o distanziando il dolore provato da Nino, ma operando una regolazione affettiva, che consenta al paziente di lasciare la seduta meno oppresso. Mi viene in mente un film e la scena di un ballo: il ballo si svolge nel salone di una nave prossima alla catastrofe. Mi appare anche l’immagine della bella attrice formosa che balla col protagonista.

Dr Neri: “E` un po’ come la festa da ballo sul Titanic”.

Nino (sembra sollevato dal mio implicito riferimento alle immagini del film e riprende a parlare con voce più chiara): “Alcune cose stanno andando bene ... io forse nel servizio potrei collocarmi in questo modo ...”.

 Dal blocco alla “non direzione” e alla ripresa della comunicazione

 L'ultimo intervento che ho riportato – quello del ballo nel salone del Titanic – offre un esempio dell’inserimento di un elemento narrativo che ha la funzione di regolare la qualità affettiva del campo presente in seduta. Desidero soffermarmi su questo aspetto del lavoro terapeutico. Esso può essere svolto non soltanto con “interventi associativo-narrativi”, ma anche con altre forme di intervento. Riporterò altre due brevi illustrazioni cliniche, ambedue presentano situazioni nelle quali la seduta è dominata dalla freddezza, dall’impaccio e dalla difficoltà a comunicare. In questi casi, non basta interpretare la “non comunicazione”, ma è necessario trasformarla prima che un’interpretazione sia possibile ed utile. La prima illustrazione clinica considera la situazione, guardandola dal punto di vista del vissuto dello psicoanalista.

 Durante alcune sedute si attiva in me o tra me ed un dato paziente una sorta di barriera magnetica che tiene a distanza la mia possibilità di mettermi in rapporto con lui e ciò che sta esprimendo. L’attivazione di questa barriera provoca una reazione nel paziente, che si smarrisce, diviene logorroico o, al contrario, si chiude. Io stesso mi stanco per lo sforzo inconsapevole di tenere attiva la barriera. Se però riesco a rinunciare a capire ciò che sta succedendo e lascio andare del tutto liberamente i miei pensieri e fantasie, mi avvicino, mi sento meglio. Divento più interessato. Accetto con piacere di condividere qualunque discorso e qualunque condizione mentale. Sono in grado di riprendere il lavoro insieme al paziente 2.

 Questo modo di procedere può essere considerato come un’operazione di regolazione dell’assetto mentale dell’analista, secondo le indicazioni proposte da Bion (senza memoria, senza desiderio, senza comprensione). Può, però, essere considerato anche come una momentanea possibilità dell’analista di affidarsi ad un terzo (il campo) ed alla sua capacità di re-indirizzare la comunicazione tra lui stesso ed il paziente.

 Un dialogo liberamente fluttuante

 La seconda illustrazione clinica ha per oggetto una situazione simile a quella che ho appena descritta, ma viene però considerata dal punto di vista del paziente. In questo caso, la ripresa del contatto si realizza attraverso un piccolo dialogo liberamente fluttuante, una sorta di chiacchierata (cfr. Strozier 2001, p. 352).

 Il paziente ad un certo momento della seduta è in un tale stato di ansia ed agitazione, che non riesce a dire più niente. Rimane in silenzio e il suo disagio aumenta visibilmente. Comprendo che il paziente è inutilmente sotto sforzo. Riempio allora lo spazio/tempo di silenzio e difficoltà – che si è creato in seduta – con qualche discorso senza particolare rilevanza. In certe occasioni posso fare una domanda su un argomento che è familiare e non conflittuale per il paziente (ad esempio, i programmi per la serata o per la fine settimana). In altre occasioni faccio qualche osservazione oppure presento un piccolo riassunto degli avvenimenti delle ultime settimane. Altre volte ancora, propongo una piccola storia per ricostruire un quadro d’insieme. Comunque introduco elementi narrativi, una voce. Sono interventi che non assomigliano, anzi sono l’opposto delle interpretazioni delle resistenze, che io stesso avrei fatto all’inizio del mio lavoro come psicoanalista.

 Quando c’è stallo ed impossibilità a parlare, attendere non serve a granché; anzi può portare ad un braccio di ferro. Interpretare spesso è controproducente. E` invece opportuno reintrodurre una “discorsività” che consenta poi la ripresa della parola da parte del paziente.

 Ho potuto notare, in molte circostanze, che le mie parole e la tranquilla accettazione che esprimono riescono a dissolvere l’eccesso di imbarazzo e paura. L’atmosfera della seduta presto diviene nuovamente accogliente. Progressivamente, un po’ a tentoni, l’analista ed il paziente creano isole di contatto e di direzione condivisa. Il lavoro analitico può riprendere.

 Linguaggio e strutturazione del campo

 In che modo uno psicoterapista può facilitare lo stabilirsi ed il durevole mantenimento di caratteristiche del campo vantaggiose per il lavoro analitico?

 Kohut (1984) ed Anzieu (1975) hanno segnalato l’importanza dell’investimento affettivo sugli aspetti frammentati e nascenti della personalità del paziente (vedi anche Neri, 1998 e 2005). Hanno, inoltre, indicato la rilevanza del fatto che l’analista sia sufficientemente autonomo rispetto al Super-io individuale ed istituzionale. Gli psicoanalisti italiani hanno portato l’attenzione in particolare sulla “tolleranza per i limiti della conoscenza”. Una forma particolare di tale tolleranza è l’interpretazione insatura. La tolleranza – esercitata attivamente e tenacemente seduta dopo seduta – promuove una specifica configurazione del campo analitico, che consente alle “ombre dell’essere” di sostare mantenendo la propria oscurità. Ciò – a sua volta – rende possibile l’emergenza di pensieri inediti e lo sviluppo di nuove ricerche di senso (Gaburri, 1998). La tolleranza di cui parlo non deve essere confusa con il fatalismo, la rinuncia o il distacco; si tratta infatti di un esercizio attivo, che tende a contrastare la tendenza ad aderire alle richieste esplicite o implicite, provenienti dall’interno o dall’esterno, di dare comunque un significato a ciò che avviene. La spinta a fornire un senso ed una definizione trae forza dal rapporto con istanze potenti: il Super-io istituzionale ed il “conformismo automatico”, più in generale dalla “valenza” che è propria di ogni uomo in quanto animale del gregge e che lo porta a legarsi agli altri secondo un “assunto di base”. Se il terapista aderisce a richieste di questo tipo – che possono diventare pressanti ed imperiose – produce conoscenze apparentemente solide e costruisce scenari di prevedibilità superficialmente rassicuranti, ma porta l’analizzando e se stesso a chiudersi in un vicolo cieco.

 Il linguaggio dell’analista

 Desidero aggiungere a queste osservazioni qualcosa a proposito del linguaggio con cui lo psicoanalista interviene in seduta. Ho imparato molto a questo proposito attraverso il contatto e la discussione con i terapisti che lavorano con bambini piccoli. Molti preferiscono, piuttosto che interpretare il gioco verbalmente, intervenire direttamente nel gioco: spostando un elemento, aggiungendo un personaggio, proponendo un cambiamento dello sviluppo della scena giocata. Ad esempio, non dicono al bambino: “Il gioco che stai facendo con l’elefante, il leone e la piccola scimmia arriva sempre allo stesso risultato. Il papàleone e la mamma-scimmia distruggono tutto, la scimmietta rimane poi sola con la casa distrutta”. Aggiungono, invece, un personaggio o propongono un possibile diverso sviluppo della scena giocata: “Arriva l’amico leoncino della scimmietta, (ecco lo metto qui) vediamo se il leoncino può dare aiuto” (Lugones, 2005).

 Anche l’analista cha lavora con pazienti adulti può usare nei suoi interventi il linguaggio che l’analizzando sta adoperando in seduta. Può cioè proporre le sue osservazioni ed interpretazioni, non sotto forma di un meta-discorso che commenta ciò che il paziente sta dicendo, ma inserendosi direttamente nel filo del suo discorso. Antonino Ferro (2005) parla di “trasformazione co-narrativa” e di “cooperazione dialogica”.

 La prima condizione necessaria perché questo tipo di interventi abbia successo è che lo psicoterapista abbia investito di interesse e partecipazione il linguaggio del paziente ed il mondo di persone, cose, fatti, idee, sentimenti che ne è oggetto. L’analista, in secondo luogo, non deve tradurre il discorso dell’analizzando nella lingua della psicoanalisi e poi ri-tradurre da questa nella lingua dell’analizzando; deve semplicemente parlare con lui. Il linguaggio della psicoanalisi rimane momentaneamente nella penombra della mente del terapista, anche se in qualche modo è presente nelle sue parole.

 Dialogo ad andamento spiraliforme

 Prima di proseguire con un’illustrazione clinica, voglio sottolineare come questo impiego del linguaggio implichi anche per l’analista l’adozione di una prospettiva particolare riguardo al dialogo ed all’ascolto. Luciana Nissim Momigliano scrive a questo proposito (1992, pp. 28-29): «La concezione della psicoanalisi intesa come un campo bipersonale (affermazione ripresa da un importante lavoro di M. e W. Baranger), nel quale i due componenti la coppia analitica sono considerati coinvolti nello stesso processo dinamico, tanto che nessuno dei due può essere capito, dentro la situazione, senza l’altro – ma in cui, beninteso, i ruoli sono asimmetrici, [...] è coerente con l’idea che in seduta si svolga un dialogo». Langs (Langs, Stone, 1980), propone una «concezione del dialogo analitico come qualcosa che ha un andamento spiraliforme, in quanto è costituito da sequenze di eventi, che possono essere così descritte: avviene una comunicazione (in generale proveniente dal paziente, più raramente dall’analista), segue una formulazione/intervento (generalmente da parte dell’analista, più raramente dal paziente), segue una nuova comunicazione, che è una risposta. Ora, noi siamo abituati da sempre ad ascoltare con attenzione questa risposta, nei suoi aspetti consci e inconsci di conferma/ accettazione, o di rifiuto a quanto abbiamo proposto con la nostra interpretazione, ma siamo meno allenati a considerare questo aspetto di sequenza, in cui ogni comunicazione è così strettamente collegata alla precedente. Ponendosi invece in questa prospettiva, si può avvertire come molte delle associazioni cosiddette “libere“ del paziente non comunichino soltanto gli elementi caratteristici del suo mondo interno, che chiamiamo tradizionalmente transfert sull’analista, e ne mobilitino il controtransfert, inteso in senso lato, ma costituiscano anche un messaggio per l’analista nell’attualità della relazione, e una risposta, in genere non diretta, ma espressa attraverso derivati, sia ai suoi interventi che ai suoi silenzi».

 Frammento dell’analisi con Renato

 Renato, due volte la settimana, fa due ore in treno o in auto per venire in analisi. Egli spesso impiega tutto il tempo delle sedute spiegandomi molte cose che conosce su questioni ed argomenti di tipo molto diverso. A volte le sue spiegazioni sono ricche di dettagli, ma non sono mai noiose.

 Questo suo modo di fare, nel corso degli anni, ha suscitato in me numerosi pensieri. Ho pensato che il nostro rapporto potesse essere una riedizione di quello col padre, a cui Renato era molto legato e che è morto alcuni anni addietro.

 Ho pensato che in alcuni aspetti del Sé, egli soffrisse di grande solitudine. Renato, quindi, mi veniva a trovare semplicemente perché qualcuno stesse con lui ed ascoltasse le cose che lui sapeva e voleva dire.

 La vita di Renato è via via andata migliorando. A questo miglioramento la psicoterapia, a mio avviso, ha dato un contributo, anche se non saprei dire in quale misura sia aumentata la sua consapevolezza riguardo alla natura ed alle radici dei suoi problemi. La maggior parte delle teorie psicoanalitiche spiegano i cambiamenti che avvengono nella vita dei pazienti come risultato di una comprensione verbale condivisa dall’analizzando e dall’analista (comunicata come interpretazione) in momenti particolarmente significativi della relazione di transfert. Io non mi sento di attribuire un’importanza così esclusiva alla comprensione e neanche all’espressione in parole. Il cambiamento – a mio avviso – non richiede necessariamente una comprensione di qualcosa che è stato messo in parole, nel senso dell’inconscio che diviene conscio. Il cambiamento può realizzarsi, a poco a poco, attraverso gli scambi minuti tra paziente ed analista. In alcune circostanze, questi cambiamenti non hanno neanche la necessità di essere esplicitati, ma passano per contiguità nella vita del paziente. Il cambiamento può realizzarsi anche perché la disponibilità dell’analista e le favorevoli condizioni del campo hanno permesso l’attuarsi di un’interiorizzazione trasmutante, ovvero di un processo che permette di assorbire e trasformare in struttura interna le funzioni originariamente svolte dagli oggetti-sé (Kohut, 1971; 1984). Certamente, adesso, Renato è in grado di operare anche da solo, una buona regolazione affettiva nei suoi rapporti ed è in migliore contatto con sentimenti e fantasie. Renato comunque continua a venire alle sedute ed a spiegarmi cose a volte molto speciali, a volte meno. Oggi sta parlando di un’attività propria della vita quotidiana: lavare i piatti. Mi spiega che l’impiego di acqua molto calda o addirittura bollente è inutile per lavare i piatti, anzi è controproducente.

 Sono incuriosito e domando spiegazioni.

 Renato chiarisce che gli enzimi dei detersivi sono attivi già a quaranta gradi e che una temperatura maggiore non è necessaria.

 Dico che non lo sapevo e che mi sembra un’informazione degna di attenzione.

 Il paziente continua: “Se si mettono i piatti sotto l’acqua bollente, si crea una patina che poi è molto difficile togliere”.

 Lo ringrazio: “Ne terrò conto la prossima volta che laverò i piatti”.

 La sera, dopo essere tornato a casa, rifletto su questa conversazione. Capisco che il paziente mi ha anche detto di andare molto cauto con lui. Le mie parole potrebbero scottarlo e provocare, invece che sollievo e voglia di collaborare, una reazione di difesa. Gli ho però già dato una prima spontanea risposta di consenso durante la seduta, quando gli ho detto: “Ne terrò conto la prossima volta che laverò i piatti.” Adesso si tratta non tanto di spiegare al paziente quello che è successo in seduta, ma di regolare opportunamente il mio modo di intervenire. Nel corso degli anni ho imparato a conoscere il linguaggio di Renato, un linguaggio eloquente anche quando parla di cose estremamente semplici, un linguaggio sostanziale e serio e ricco di domande affettive. Anche Renato ha scoperto le grandi potenzialità espressive del proprio linguaggio. Si è inoltre creato un nostro modo di comunicare (un linguaggio del tandem psicoterapista-paziente) fatto di molto ascolto da parte mia e di molte spiegazioni da parte di Renato.

 Questo lavoro ha trasformato il campo analitico, dotandolo di nuove qualità che sono simili a quelle della vita quotidiana, pur conservandone altre speciali e preziose proprie della situazione analitica (Malamoud, 1994). Renato si è sentito accolto in analisi. In qualche misura è stato anche adottato come un partecipante (un figlio) della mia vita domestica. Ogni tanto, quando sono seduto a cena con i miei familiari, ad esempio posso dire: “Lo sapevate che per lavare i piatti ..., oppure per conservare i cibi ..., ecc.”

 Renato, poi, ha fatto esperienza prolungata e duratura di stare nel campo analitico, un campo che ha caratteristiche molto diverse da quelle della sua famiglia di origine. Sulla base di questa esperienza, egli non ha tanto giudicato l’esperienza della sua infanzia e della sua famiglia, ma piuttosto l’ha messa in prospettiva e l’ha potuta guardare con più simpatia e compassione.

 Fantasie collettive e miti

 Lascerò adesso momentaneamente da parte la psicoanalisi per dire qualcosa della psicoterapia di gruppo. Le differenze fondamentali relative al campo, con riferimento alla psicoterapia di gruppo rispetto alla psicoanalisi, consistono nel fatto che in psicoterapia di gruppo il campo è co-creato dall’analista e da una pluralità di persone e si manifestano fenomeni propri del gruppo come totalità (mentalità primitiva, assunti di base, gruppo di lavoro). Nel campo del gruppo, i sentimenti, le fantasie ed i pensieri acquistano risonanze diverse da quelle che avrebbero avuto nel setting tradizionale (duale). Fantasie collettive messianiche ed apocalittiche ed anche miti (Eden, Torre di Babele, Ur, ecc.) lo influenzano fortemente. Non voglio dire che questi non siano attivi anche nel setting duale, ma soltanto che nel setting di gruppo si mostrano con maggiore evidenza. Mi pare utile ricordare a questo proposito l’osservazione di Bion (1961, pp. 94-95): «L’insieme degli avvenimenti [che l’analista osserverà] rimane lo stesso, ma il cambiamento di prospettiva metterà in evidenza fenomeni molto diversi».

 Riporterò una breve sequenza clinica, che presenta una iniziale situazione di blocco della comunicazione molto simile a quelle che ho descritto nella prima parte del lavoro. Limiterò l’esposizione agli interventi del terapista di gruppo e dei membri che sono volti a chiarire le caratteristiche del campo presenti nella seduta.

 Nella parte iniziale della seduta sono stati raccontati due sogni: il primo di Carlotta, nel quale si intrecciavano scene sessuali e di persecuzione, sentimenti di tenerezza, eccitamento e solitudine; il secondo di Bartolo, lungo e contorto, descriveva uno stato di tensione che lasciava il posto all’abbattimento ed alla rinuncia.

 Valeria: «Mentre Bartolo raccontava il suo sogno mi sono protesa in avanti per fare attenzione. Ciononostante, non sono riuscita a seguire quello che diceva. E` come se avessi perso il contatto con quello che succede nel gruppo: niente mi suscita niente».

 Marinella (che era rimasta sino a quel momento rannicchiata ed in silenzio): «Io oggi sono venuta alla seduta, perché il gruppo mi sta facendo veramente bene. Ma arrivo da fuori Roma. Sono stanchissima. Ho fatto uno sforzo per venire».

 Bartolo: «Anche io, oggi, ho fatto fatica. Sono venuto alla seduta, facendo appello alla forza di volontà, perché sapevo che era importante».

 Valeria: «Anche a me è veramente pesato».

 Carlotta: «Io, al contrario, è da questa mattina che contavo le ore per venire qui».

 Dr Neri: «Valeria ha cercato di fare attenzione al racconto del sogno di Bartolo, ma non è riuscita. Forse ne è stata impedita da qualcosa. Alla fine, ha dovuta lasciare cadere i suoi sforzi di comprensione e si è distaccata da ciò che succede nel gruppo. Marinella, Bartolo e la stessa Valeria dicono di sentire l’importanza di venire alle sedute, ma segnalano anche di fare molta fatica. Carlotta, al contrario, ha sentito una spinta a venire al gruppo. E` come se si confrontassero due serie opposte di sentimenti: interesse e paura. Ciò che suscita interesse è forse percepito adesso più vicino di quanto non fosse nelle sedute dei mesi ed anche delle settimane passate. Vi è forse la possibilità che emergano e si facciano sentire sentimenti e pensieri nuovi».

 Marisa: «Per molti anni, io ho fatto i turni di notte in sala-parto al San Camillo. Lì ho imparato a conoscere l’aurora. La sala-parto del San Camillo ha grandi finestre che danno sui Colli Albani e si vede bene quell’ora lugubre e violacea che viene prima dell’alba. L’alba è rosa e bellissima. L’aurora, al contrario, è veramente angosciante. Però, anche nell’aurora vi è qualcosa di molto bello. Una vita che fosse fatta di sola alba sarebbe piuttosto stucchevole e falsa. Perché la vita sia completa vi deve essere posto anche per l’aurora».

 La rappresentazione del campo del gruppo, proposta da Marisa, mette in rilievo il nascere (la sala-parto). Far nascere se stessi è uno scopo fondamentale della terapia. La rappresentazione, inoltre, dà ragione del motivo per cui è necessario tollerare angoscia ed anche dolore (“vi deve essere posto anche per l’aurora”); evidenzia, infine, un asse evolutivo (il susseguirsi dell’aurora e dell’alba; il parto). I membri avvertono il suo intervento come un’utile messa a punto del contesto. Nella ultima parte della seduta e nelle sedute successive riprendono contatto con ciò che si sta avvicinando al campo del gruppo e si concentrano attivamente nel lavoro di dare un nome alle cose ed i sentimenti che stanno vivendo.

 Evoluzione in O

 Nella sequenza clinica appena riportata ho formulato due interventi nei quali faccio riferimento alla presenza di qualcosa che attrae e contemporaneamente fa paura. Vorrei esplicitare ora le ipotesi e le idee su cui si basano quegli interventi.

 A volte attraverso gli effetti che provoca, è possibile intuire la presenza di qualcosa che non è direttamente osservabile. Ad esempio, Einstein ha dimostrato l’esistenza di corpi celesti fondandosi sul loro potere di curvare la luce (Rushdie, 2005). Allo stesso modo è possibile provare l’esistenza di un nucleo (attrattore e repulsore) attivo nel campo analitico, che non può essere osservato direttamente, ma che esercita un’influenza – questa sì registrabile – su ciò che i membri del gruppo dicono, sentono ed agiscono durante la seduta.

 Numerosi psicoterapisti di gruppo hanno evidenziato la presenza di un nucleo tematico, di fantasie comuni cui i membri del gruppo fanno riferimento e che è attivo a livello preconscio. Io ritengo, però, che sia possibile individuare due nuclei, disposti a livelli diversi: il primo corrisponde al tema ed alle fantasie preconsce della seduta (ciò di cui si parla) e può essere elaborato attraverso un processo conoscitivo (ciò che Bion chiama “trasformazione in K”); il secondo è invece composto da fantasie intense, ma prive di forma. Questo nucleo di secondo livello non può essere conosciuto direttamente, tuttavia può evolvere secondo quello che Bion (1970) ha definito “evoluzione in O”, cioè evoluzione di ciò che è ignoto.

 A mio parere è estremamente importante che i membri del gruppo riescano ad entrare in contatto con questo nucleo privo di forma e a partecipare alla sua evoluzione, poiché si tratta di un’esperienza altrettanto ricca di potenzialità trasformative e terapeutiche della comprensione promossa attraverso l’interpretazione.

 La possibilità di “mettersi all’unisono con O” dei membri del gruppo è favorita da una serie di fattori.

 E` necessario che il terapista nel corso della seduta si ponga all’unisono con il punto focale e ne promuova il prendere forma all’interno del gruppo.

 L’individuazione del fuoco è facilitata da un’ottica secondo cui i membri del gruppo ed i loro interventi vengono considerati espressione di un significato complessivo, che diventa accessibile se si rinuncia ad una modalità di pensiero che separa e classifica e si assume un vertice sincronico.

 In precedenti lavori (1995 [20047]; 2004) ho chiamato “cercare la disposizione a stella” questa modalità di pensiero, che permette all’analista di percepire e rendere significativo un materiale disomogeneo e poco organizzato, individuando la presenza di un “nucleo centrale” o “fuoco”, con il quale tutti gli elementi sono in relazione (Benjamin, 1933). Quando l’analista procede cercando di individuare la “disposizione a stella” tende a valorizzare lo spazio piuttosto che il tempo, più precisamente tende a cogliere gli elementi della seduta nella loro sincronicità. Con tale termine, in accordo con la definizione di Jung (1948), intendo una prospettiva opposta alla causalità, che considera come essenziale «la coincidenza degli eventi [...] come significatore di qualche cosa di più di un mero caso» (Jung, 1948, p. 14).

 Conclusioni

 Con il paragrafo precedente, dedicato all’esplicitazione dei riferimenti teorici sottesi alla pratica clinica con i gruppi, si conclude questa lunga panoramica sul concetto di campo. Utilizzo il termine “panoramica” per evidenziare che questo lavoro non rappresenta un tentativo di definire una nuova nozione o addirittura un nuovo modello di campo. Piuttosto, i miei sforzi sono andati nella direzione di individuare, raccogliere ed enunciare nell’esperienza clinica con i pazienti una serie di elementi riconducibili a questa nozione relativi al campo 3.

  1 Sono grato a Giorgio Campoli ed ai colleghi della USL “Roma A” di Via Boemondo per avermi fatto conoscere la vicenda di questo paziente e per avermi autorizzato a riportarla.

  2 Ho pubblicato questo esempio ed il successivo in Neri, 2003.

  3 A margine del testo aggiungo qualche parola per chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni di carattere storico. La nozione di campo è stata introdotta in psicologia a partire dalla metà degli anni Cinquanta sulla base di ricerche ed esperienze nei gruppi. Solo in un momento successivo l’idea di campo ha trovato spazio nel pensiero psicoanalitico ed è comunque rimasta ai margini delle correnti principali. Gli autori di riferimento sono Kurt Lewin, Enrique Pichon-Rivière, Sigmund H. Foulkes e Wilfred R. Bion. Kurt Lewin (1951) definisce il campo, in ambito sociale e psicologico, come una totalità dinamica capace di produrre all’interno di un gruppo un senso di coesione ed appartenenza, che si manifesta con l’emergere del sentimento del “noi”, di motivazioni e mete comuni ed implica una sorta di identità di gruppo con cui l’individuo fa corpo. La concezione di campo di Kurt Lewin (1948, p. 125) è resa particolarmente interessante dalla definizione connessa di legame di interdipendenza: «gli elementi del campo non sono necessariamente simili tra loro, ma una volta che si è stabilito un legame di interdipendenza, questa può essere più forte del legame basato sulla somiglianza». Ciò significa che un cambiamento di uno degli elementi del campo influenza necessariamente lo stato di tutti gli altri. Più o meno negli stessi anni, questi due autori portano avanti ricerche sul gruppo che, pur non includendo esplicitamente la nozione di campo, si basano su una visione sostanzialmente analoga. Foulkes mette a punto un modello di psicoterapia di gruppo basato sulla teoria psicoanalitica e contemporaneamente centrato su elementi assolutamente specifici del gruppo, che viene visto come «una vera e propria entità psicologica» (Foulkes, 1964, p. 77), «un organismo vivente [... che] ha umori e reazioni, uno spirito, un’atmosfera, un clima» (Foulkes, 1948, p. 131). Il concetto chiave dell’approccio foulkesiano è rappresentato dall’idea di rete, intesa in senso relazionale e sociale, di cui l’individuo rappresenta un nodo; qualsiasi comunicazione o evento all’interno della rete di un gruppo assume il suo significato grazie ad un sostrato comune, che Foulkes definisce matrice. La matrice costituisce il quadro di riferimento, «un fondo di comprensione inconscia, in cui si producono delle reazioni e delle comunicazioni molto complesse» (Foulkes, 1964). Neanche Wilfred R. Bion (1961) utilizza il termine campo, ma le sue ipotesi sulla mentalità di gruppo, sul gruppo di lavoro e sugli assunti di base descrivono un insieme di forze, affetti, rappresentazioni e comportamenti collettivi in cui le produzioni ed i vissuti dei singoli prendono distanza dalla fonte individuale che li ha originati, confluendo in una sorta di medium comune, dotato di autonomia rispetto ai singoli individui. In aggiunta ai contributi contenuti in Esperienze nei gruppi (1961), è utile l’idea di “spazio beta” avanzata in Cogitations (1992), che – come segnala López-Corvo (2006) – completa l’elaborazione teorica di Bion. Lo spazio beta è uno “spazio” di pensieri “non pensati” ed “impensabili”, in rapporto con una sfera che include “costellazioni di elementi alfa” (Bion, 1992, p. 314). Il contributo di Enrique Pichon-Rivière (1955-1972) consiste soprattutto nei concetti di “campo psicologico” e di “gruppo operativo”. Il campo psicologico rappresenta una complessa totalità, che include cinque classi di elementi: il contesto interpersonale (l’entourage o contorno di situazioni e fattori, umani e fisici, che interagiscono continuamente); il comportamento osservabile, spontaneo o provocato, che comprende le varie forme di comunicazione; l’esperienza vissuta, che può essere trasmessa attraverso la condotta esteriore o attraverso comunicazioni verbali; le modificazioni somatiche oggettive ed infine i prodotti dell’attività del soggetto. Pichon-Rivière sottolinea come queste dimensioni siano state tradizionalmente prese in considerazione una per volta, stabilendo divisioni arbitrarie e poco realistiche, come se questi elementi «non formassero un tutto in un determinato momento, nel “qui ed ora” di una qualsiasi situazione» (Pichon-Rivière, 1979). L’oggetto principale della ricerca psicologica – e psicoanalitica – è appunto il «“qui ed ora” di una determinata situazione, ciò che sta accadendo ». Il gruppo operativo è definito come «un insieme di persone riunite da costanti spazio-temporali, che si integrano tra loro attraverso una mutua rappresentazione interna e che si propongono implicitamente o esplicitamente un compito, che costituisce la qualità del gruppo» (Pichon-Rivière, 1955-1972). Il compito, sia a livello manifesto che a livello profondo, è l’elemento che trasforma un insieme di persone in un gruppo ed ha, nella visione di Pichon-Rivière, una potenzialità evolutiva (dal passato al futuro, dalla regressione alla progressione).

 Sommario

 L’operazione tentata con questo articolo è quella di riproporre i termini per un rinnovato confronto su un tema importante ed attuale: l’impiego clinico della nozione di campo. Nella prima parte del contributo distinguo il concetto di campo da altri concetti prossimi, ma non coincidenti: atmosfera, legame, relazione, setting, transfert. Nella seconda parte propongo la nozione allargata di campo, che nasce dalla confluenza dell’idea di campo con i concetti di Rêverie e di capacità di sciogliere le emozioni in narrazioni.

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  Il campo analitico2

 

"La nozione allargata di campo in psicoanalisi", scritto dal prof. Claudio Neri, tratto da  "Il campo analitico. Un concetto clinico" a cura di Antonino Ferro e Roberto Basile, pagg. 51-86 . Edito dalle Edizioni Borla, settembre 2011 - 25,00€ - ISBN 978-88-263-1821-9.
Traduzione del libro  FERRO A. AND BASILE R.. (Eds.). The Analytic Field: A Clinical Concept. p. 45-80, LONDON: KARNAK BOOKS, ISBN/ISSN: 978-1-85575-781-3


 

 

 

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