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Report di Chiara Benedetti e Veronica Nicoletti sul Convegno Nazionale "Dalla consultazione alla costruzione della relazione analitica" (Roma 23-25 Novembre 2018)

 

Abbiamo scelto, per questo convegno, di redigere due report: una versione più completa e approfondita e una più sintetica. Di seguito la versione completa e approfondita.

 

 

 

Si entra nel vivo dei lavori, con il Segretario Scientifico della SPI, Massimo Vigna- Taglianti che propone il lavoro I primi colloqui come avant-coup del futuro percorso analitico. Alcune note teorico-cliniche. L’autore propone alcune riflessioni circa il perché sia oggi importante pensare la consultazione, per quanto sin dalle origini la questione dei primi colloqui si sia intrecciata con quella della realizzabilità di un percorso analitico. Sempre più la consultazione viene pensata ponendo come vertice osservativo la coppia analitica nel contesto del campo, esplorando l’accessibilità/permeabilità dell’analista e la sua plasticità. Questi elementi, infatti, creano le condizioni inter-psichiche che fanno emergere la cimentabilità, che va valutata già dai primi incontri. Questi ultimi costituiscono un’unità funzionale e il campo uno spazio intermedio, condiviso da analista e paziente, nel quale potrà o meno svilupparsi il gioco serio dell’analisi.

Un altro tema è quello che riguarda, già nella consultazione, la funzione di becoming dell’analista, ossia la sua capacità di diventare transitoriamente l’analizzando all’interno del setting; l’intrapsichico riprende vita nell’intersoggettivo e pertanto la neutralità va riconsiderata come la risultante di una continua attività tra identificazione e disidentificazione. Ciò è tanto più vero quanto più il paziente presenti un deficit delle capacità rappresentative o un disturbo identitario connesso alla perturbazione dei processi di soggettivazione. È così che la consultazione si configura come avant coup della ripetizione che porterà alla rappresentatività condivisa.

La consultazione è un incontro al buio tra identificazioni inconsce di paziente e analista, che muoveranno i primi passi in un lavoro di decodifica, che porterà ad un abbozzo di raffigurabilità di una domanda e una sofferenza sino ad allora impensabili e impensate. Tale processo viene esemplificato nella presentazione di un caso clinico che vede una paziente arrivare all’analisi in modo progressivo, grazie al rapporto con un’analista (“il vecchio nonno”) capace di accoglierla e accompagnarla all’avvio di un lavoro analitico profondo. La paziente può così crearsi progressivamente una sorta di cassetta degli attrezzi per pensare e trovare, nella relazione con l’analista, un “grembo psichico” dove possano finalmente annidarsi emozioni in grado di trasformare il suo mondo psichico interno nella direzione di una maggiore umanità e intersoggettività.

A conclusione del lavoro, l’autore si chiede se, già dalla consultazione, astinenza e neutralità, tenuto conto delle capacità simboliche di ciascun paziente, siano posizioni realmente sostenibili e sottolinea l’importanza di sviluppare, sin dai primi incontri, modi di osservazione ed ascolto nuovi, descritti nel concetto di osservatore partecipante di Sullivan. È inoltre importante individuare, durante la consultazione, quelle condizioni minime di sviluppo atte a garantire un ambiente facilitante.

Segue un interessante dibattito con la sala, mediato da Giovanni Meterangelis in cui emergono interessanti suggestioni a partire da un sogno della paziente. Viene inoltre proposta l’importanza della restituzione come momento molto significativo della consultazione, in quanto ciò che il paziente ha comunicato al nostro inconscio viene restituito come qualcosa di nuovo, che apre uno spazio. È proprio questo uno dei compiti dello psicoanalista in consultazione: veicolare al paziente l’idea di aver fatto un’esperienza creativa. La neutralità, infatti, non significa tout court che non si possa essere creativi con i pazienti, pena la perdita di fiducia nella psicoanalisi e il rintanarsi nella paura, come lo stesso Bollas ha ricordato nell’incontro della mattina con i candidati.

Il tema della diagnosi si fa strada già dal primo pomeriggio, quando viene rilevata una certa tensione contraddittoria tra l’etica della diagnosi e l’etica della psicoanalisi, quasi una dicotomia, pur riconoscendo l’importanza di una possibile comunicazione tra le due etiche, al fine di commisurare la brevità dei tempi richiesti per la diagnosi con i tempi lunghi e il dubbio insisto nell’essere psicoanalisti.

I partecipanti ai lavori, si dividono a questo punto, prendendo parte ai Workshop Paralleli dei Servizi di Consultazione dei vari Centri psicoanalitici. Affrontando diversi temi e confrontando esperienze differenti, i lavori procedono con grande partecipazione e interesse, sino alla Tavola Rotonda conclusiva sul lavoro dei workshop. Nell’interessante formula proposta, un relatore per unità riferisce di quanto accaduto nei singoli gruppi, così che diviene possibile condividere le esperienze e le riflessioni di tutti. Colpisce sicuramente la metafora del ponte, proposta, seppure con due immagini diverse, dai due Centri che si sono occupati della consultazione con adulti ed adolescenti. Altri gruppi hanno centrato il loro lavoro sugli aspetti transferali nella consultazione, per poi fare emergere la necessità di una riflessione allargata, sul metodo della consultazione analitica. Altri gruppi ancora si sono confrontati sulle proprie esperienze e sulla strutturazione dei servizi di consultazione, condividendo pensieri e metodi, che sembrano convergere sulla imprescindibilità di un lavoro di gruppo, affinché emerga un pensiero terzo. Si riflette anche sulle questioni che riguardano l’invio, l’uso dell’interpretazione e del transfert, sollecitando diversi interrogativi che lasciano i temi aperti. Tante le metafore sulla consultazione che ci piace ricordare: il cantiere, lo scompartimento del treno, uno spazio intermedio di ricerca sul campo.

 

 

 

Sabato

Inizia la parte di convegno aperta a tutti. È incredibile la sala gremita di psicoanalisti e candidati, ma anche di tanti altri colleghi di formazioni affini o meno.

Stefano Bolognini introduce l’intervento di Christopher Bollas, sottolineando come questa sia una preziosa opportunità di ascolto e dialogo con chi è portatore di un modello, risultato della personale combinazione di conoscenza della psicoanalisi e cultura. Bollas è un esploratore della mente e della cultura dell’umanità, un osservatore delle vicende storico-politiche del pianeta.

Inizia così la relazione dell’autore e, come dirà lo stesso Chair, commentandone l’intervento, veniamo calati nell’esperienza presentata, riscaldati dalla parola umanizzata, affrontando un viaggio nella traduzione inimmaginabile della quotidianità e di un evento drammatico.

Ripensando alla fiducia nella psicoanalisi, di cui si è parlato nella giornata di venerdì, ci piace sottolineare che quello che avviene nel momento in cui un ragazzo arriva in ospedale, con un primo esordio psicotico, sia presentato come un evento speciale, una esperienza importante, il momento in cui dovrebbe iniziare la psicoanalisi, quando il Sé del paziente porta alla luce il suo problema. Nella realtà attuale invece arriva il ricovero e spesso una terapia neurolettica.

Nell’occuparsi del paziente che ha un esordio psicotico si deve ricercare l’evento precipitante, così come Freud ci indica di ricercare l’evento stimolante del sogno: entrambi, infatti, hanno la forza di scatenare una reazione. Nel fare l’anamnesi quindi, è necessario guardare al giorno stesso e ai precedenti per individuare gli eventi precipitanti che hanno creato quell’incubo che è la psicosi; l’esperienza schizofrenica è l’incubo del giorno, ci si sveglia e non si è nella coscienza normale, tanto che si potrebbe definire come il sonno della coscienza normale.

Nella sua esperienza a Londra, Bollas visitava i giovani qualche giorno dopo il ricovero, esperienza raccontata nel suo Quando il sole esplode. Ha così scoperto l’importanza di farsi raccontare gli eventi scatenanti la crisi. La schizofrenia è un processo che dura molto tempo e inizia molto tempo prima di quanto non si pensi, con uno shock; occorrono anni o mesi prima che si inizino a sentire le voci e se riusciamo a vedere il paziente tempestivamente rispetto all’evento precipitante sarà possibile intervenire e fermare il corso della malattia. Portando un caso estremamente interessante di un giocatore di football, Bollas ci rende possibile vedere-immaginare che nella realtà accade qualcosa, viviamo l’esperienza del mondo circostante che diviene piccolo e del soggetto che si allontana dalla realtà, del ritiro che questo comporta, della sensazione di uscire dal proprio corpo e fermarsi, sospesi in aria. In quel momento siamo noi ad aver fatto il lancio troppo forte perché ciò che dovevamo raggiungere ci appariva estremamente lontano, ed è necessaria tutta la forza del mondo per raggiungere una realtà così lontana. Siamo così nell’esperienza che diviene conoscenza: la prima indicazione di un crollo è sempre a livello percettivo.

Bollas prosegue affermando come la perdita di tempo e spazio sia il vero problema della schizofrenia, ciò che va recuperato con un intervento sollecito; il significato viene dopo, prima è necessario recuperare il Sé nello spazio e nel tempo. L’autore ci mostra, riferendoci le lunghe conversazioni telefoniche avute con il suo paziente, come sia possibile far tornare il paziente nello spazio e nel tempo - esperienza persa durante la crisi psicotica - attraverso domande semplici che lo aiutino ad orientarsi. Solo allora avrà la capacità mentale per iniziare a lavorare sui contenuti del pensiero.

Per Bollas “esser fuori di testa” e “perdere la testa” sono due espressioni comuni. Nel caso della psicosi indicano qualcosa di più grave, in quanto vuol dire che il paziente ha perso la capacità di pensare perché è la sua mente ad aver distrutto la fiducia nella mente stessa. Il Sé, diverso dalla mente, è tradito dalla mente. La mente è la madre interna che accudisce il Sé; alla nascita è la madre reale la mente, prosegue l’autore. Noi parliamo continuamente con la nostra mente, si è sempre in due, noi e la nostra mente. Risulta evidente quindi come sia necessario fare recuperare al paziente la fiducia nella sua mente, attraverso domande semplici, cui sappia rispondere.

Assieme al tempo, allo spazio, alla fiducia nella mente, nella crisi psicotica scompaiono anche gli affetti e le emozioni. Quest’ultimi si recuperano attraverso commenti empatici su come il paziente debba essersi sentito nel momento dell’evento precipitante. Impersonando le emozioni dell’altro, l’analista aiuta il paziente a reintrodurre la funzione degli affetti, che ha momentaneamente perso. Accade spesso con pazienti giovani che, dopo questo intervento, emerga il “desiderio di tornare al processo di maturazione” come proposto da Winnicott, che esita frequentemente nella scelta del paziente di interrompere il trattamento.

La storia del modello proposto è affascinante e ancora una volta siamo lì, seduti con Bollas, a osservare un reparto psichiatrico di Londra, dove è riuscito ad accedere, semplicemente entrando, dopo una serie di tentativi di essere accolto. Nell’immaginare di mandare lì i suoi pazienti, crea il suo setting interno, composto anche da tutto ciò che ha appreso dai suoi supervisori e colleghi. Il lavoro che Bollas svolge con i pazienti psicotici è un lavoro che lo vede collaborare con un gruppo: uno psichiatra, che segue il paziente generalmente con un incontro mensile; il medico di base; i servizi sociali; una persona cara al paziente, che sia un amico o un familiare e un tassista, pronto a portarlo alle sedute o in ospedale se occorre. In questo modo, oltre a poter gestire le difficoltà quotidiane del paziente e garantire un accesso alla terapia costante, viene creata una holding interna per l’analista stesso. I pazienti sono informati della partecipazione di queste figure che sono impegnate, a vario titolo, nel progetto di cura, ciò allo scopo di preparare il paziente stesso a un intervento che non sarà magico e che potrà essere impegnativo. È importante segnalare, inoltre, come lo psichiatra somministri farmaci con il fine di garantire il sonno del paziente ma che, qualora individui segni di malessere acuto, indirizzi il paziente al ricovero, evenienza comunque molto rara. Se il paziente è in grado di farlo e ha un lavoro, è importante che continui la propria attività, questo per non favorire in lui una regressione. Infatti, tutti noi dipendiamo dal nostro Io per la sua capacità di farci sentire integri.

In definitiva, il modello proposto da Bollas prevede un intervento nelle fasi precoci della prima crisi, attraverso un lavoro che lo aiuti a recuperare il tempo, lo spazio, gli affetti fino al recupero del funzionamento dell’Io.

L’intervento di Bollas attiva un serie di riflessioni e interrogativi nei partecipanti che intessono un ricco e stimolante dibattito con il relatore. Già con il primo scambio, si delinea una possibile “estensione” del metodo non solo in una situazione di breakdown concreto, come proposto da Bollas, ma anche quando, in un percorso analitico, ci si trova di fronte a un crollo del Sé del paziente, ad esempio un “crollo” depressivo. L’esperienza che ci offre in questo caso il relatore è quella del proprio setting: mantenere libera l’ultima ora della giornata per poter garantire più tempo ad un determinato paziente secondo le sue esigenze cliniche. Ciò non significa, sottolinea, cambiare il processo, ma offrire uno spazio e un tempo per affrontare la crisi.

Viene proposta una riflessione sull’importanza del sognare, sia di notte che di giorno, attraverso il pensiero onirico della veglia e le “fantasie ad occhi aperti” che, secondo recenti studi, occupano il 47% della nostra veglia. I sogni ad occhi aperti sono il proletariato della psicoanalisi, se ne parla pochissimo mentre meriterebbero una maggiore attenzione. La psicosi rappresenta un incubo perché interrompe la nostra capacità di sognare.

Rispetto al coinvolgimento dei familiari nella cura del paziente in crisi psicotica, Bollas ricorda l’importanza sia di rispettare il naturale bisogno di riservatezza dell’adolescente, sia la necessità di riconoscere l’impatto emotivo che la crisi psicotica ha avuto sui familiari e consentire loro un ascolto per elaborarlo.

Riguardo all’accessibilità all’analisi, su richiesta della sala, Bollas sottolinea che la crisi psicotica è un momento di apertura fertile perché il paziente schizofrenico in quel momento dichiara il suo stato al mondo e si rende più raggiungibile, a differenza dei pazienti schizoidi o paranoici che non arrivano al crollo e non riescono ad accedere a una relazione di cura proprio a causa della paranoia.

Interrogato, infine, in merito alla raccolta dell’anamnesi con gli adolescenti, l’autore ribadisce che la intende come ricerca dell’evento precipitante, per aiutare l’adolescente in crisi a tornare in contatto con la realtà degli oggetti e quindi in un luogo sicuro.

È la volta di Anna Nicolò, che riapre il tema della consultazione portandoci, attraverso il lavoro Aspettando Godot, le sue considerazioni sulla necessità, implicita nella consultazione, di effettuare una diagnosi e sulla natura specifica della consultazione stessa in psicoanalisi.

Chi esercita una attività clinica attiva un processo diagnostico continuo dentro di sé, che si articola nel tempo. È evidente la differenza tra una diagnosi psicoanalitica e una psichiatrica. Quest’ultima costituisce un punto di partenza che raccoglie dati di fenomenologia, riflette sui sintomi e per lo più esita in un intervento farmacologico, con il rischio di stigmatizzare il comportamento del paziente, attribuendogli una etichetta. Lo psicoanalista, dal canto suo, non è al riparo da tale rischio quando attribuisce una diagnosi “tappo” al proprio paziente, come ad esempio avviene con le diagnosi di “falso sé”, “simbiosi”, “identificazioni alienanti”, che sono state attribuite per un certo periodo e che non tenevano conto di quale fosse la persona che ne era portatrice. La peculiarità della diagnosi psicoanalitica è il fatto che essa sia un punto di arrivo, che potrebbe raggiungersi alla fine di un processo. Inoltre, la diagnosi psicoanalitica nasce in un processo che dovrebbe avere una valenza terapeutica in quanto tale: una consultazione, per il suo carattere intrinseco, può determinare delle trasformazioni ed è la turbolenza affettiva dell’incontro stesso che può indurle. Nicolò ricorda come per Winnicott uno dei principali criteri diagnostici, capace di indicare il grado di rigidità delle difese o mancanza delle stesse, fosse la risposta alla consultazione da parte del paziente. L’esistenza di parametri psicopatologici di riferimento può causare una specie di scissione interna all’analista: da una parte il tentativo di fissare l’oggetto, dall’altra quello di incontrare l’altro. Un punto essenziale che viene proposto nel lavoro è il criterio evolutivo, ovvero la valutazione degli indici prognostici o gli indici di rischio del paziente, nella attuale specifica situazione vitale.

Tale approccio relativizza molto i concetti di normalità e patologia, che vengono delimitati rispetto a tre parametri: temporale, contestuale e relazionale. L’ossimoro proposto da Winnicott secondo cui “può per un bambino essere più normale ammalarsi che rimanere in buona salute”, dice Nicolò, può spingere chi fa una diagnosi a valutarne la labilità, nei termini di espressione nosografia di un disagio; ha inoltre la valenza di restituire alla malattia una natura evolutiva, nella sua collocazione in un tempo e in una fase della vita, e un significato relazionale, perché connette il paziente agli altri e a noi che lo osserviamo. La caratteristica della consultazione, come dell’analisi, è l’incontro tra due soggetti. Per arrivare a questo dobbiamo, in quanto analisti, inevitabilmente incontrare noi stessi. È cruciale la capacità di incontrare l’idioma dell’altro, possibile solo se il destinatario è capace di essere in-formato da quella persona, ovvero essere formati e conformati dall’idioma di chi ci sta davanti, in un processo reciproco. Da questo punto di vista, l’ascolto analitico è fondamentale, come pure lo è la possibilità per il paziente di toccare, seppure per un istante, un altro livello, più profondo, del proprio funzionamento mentale. Queste riflessioni diventano immagini nel caso presentato. Così le foglie secche del vaso, un lutto comunicato di sfuggita, una perdita dell’analista, il senso di una morte che dà contezza del tempo passato e del futuro che si vorrebbe vivere in modo significativo, diventano l’esplicitazione di un desiderio di riflettere con un altro sul senso delle cose che si vivono e si vivranno: un incontro.

Se il paziente analitico si crea e non si trova su dati prestabiliti, se la coppia analitica si co- costruisce attraverso un reciproco in-formarsi, un reciproco adattamento, qualunque paziente potrebbe o deve fare l’analisi?

Arriva poi Godot, almeno nella consultazione: due persone che si incontrano, il paziente e l’analista. Aspettano un treno che forse passerà, senza la certezza di potervi salire, e si confrontano con le ansie e le paure di entrambi. Molti potranno essere gli esiti del potenziale incontro: analisi, psicoterapie, incontri di coppia, di famiglia o consultazioni prolungate. Ciò che proponiamo ai pazienti, come analisti, è l’intervento che individuiamo essere il più adatto per la situazione, includendo nella diagnosi non solo la valutazione del paziente, ma anche della strada più agibile: una terapia per arrivare ad una terapia. Ma Godot può anche essere pensato come un livello di rappresentatività che non può essere incontrato in quel momento ma, con Masud Kahn, Nicolò ci ricorda che non dobbiamo cercare di guarire un paziente al di là del suo bisogno e delle risorse psichiche di cui dispone per sostenersi e per vivere dopo quella cura.

Conclusa la presentazione del lavoro, segue un dibattito vivace che, da parte di molti vede il richiamo a Beckett e Bion, al loro incontro, ma che, continuando ad interrogarsi sulle etichette diagnostiche e la cimentabilità, fa emergere, come commenta Bolognini, uno slegamento che porta ad una riconsiderazione creativa della consultazione.

I lavori del pomeriggio di sabato vengono introdotti da Malde Vigneri che mette in luce come il primo incontro sia significativo in quanto a forza emotiva e possibilità di insight, anche quando gli inconsci “stridono” e rendono difficile ipotizzare il proseguimento del lavoro. Ci offre, inoltre, una preziosa lente storica sulla consultazione delle origini a Vienna, sottolineando come il filo comune diacronico rispetto al tema sia l’attenzione all’assetto interno.

Il lavoro scritto a due mani da Paolo Boccara e Giuseppe Riefolo, propone l’idea che, per elaborare mentalmente esperienze traumatiche, sia necessaria non solo la presenza di due persone, ma anche un particolare tipo di ascolto capace di stare su quel che si dice e di restituire un senso nuovo a quelle parole. L’esperienza del primo incontro è nuova sia per il paziente, sia per l’analista, che si deve mettere in una posizione esplorativa. Ci si incontra molto prima del momento reale, già a partire dai contatti preliminari, densi di un significato che verrà esplicitato solo in un secondo momento. Gli autori propongono tre aspetti caratterizzanti il setting del primo incontro:

1. “la funzione iconica dell’analista”, che si attiva nel primo ascolto del paziente e che precede la capacità di reverie. Attraverso la trasformazione iconica del discorso del paziente l’analista si trova ad avere un’esperienza sensoriale diretta di ciò che comunica il paziente. Gli elementi figurativi prodotti da tale funzione, andrebbero a costituire quegli elementi di base su cui viene attivata successivamente la reverie dell’analista, che porta alla comprensione emotiva profonda dei movimenti affettivi che si generano nell’incontro e la motivazione alla cura.

2. la specificità del setting del primo incontro, finalizzato a fornire un contesto nel quale il paziente possa fare l’esperienza di essere ascoltato. In questa ottica l’analista nel primo colloquio dovrebbe utilizzare restituzioni di significato che colgano le modalità relazionali del paziente, prima che quelle transferali. È importante che l’analista assuma tutte le posizioni “preventive” preliminari all’incontro (paura, bisogno di gratificazione, posizione ideologica ed etica soggettiva, ecc.) come elementi del setting, anziché contenuti della comunicazione, al fine di non falsare la possibilità di inizio di un percorso trasformativo.

3. le azioni, sia del paziente che dell’analista, sempre presenti in ogni incontro, possono veicolare significati dei mondi soggettivi di entrambi. L’analisi degli inevitabili enactments permette, secondo gli autori, di incontrare configurazioni interiori che, una volta riconosciute, consentono di risollevare il paziente da uno stato di blocco cognitivo e affettivo.

Le esemplificazioni cliniche portate da Riefolo e Boccara consentono di mettere in luce come, il campo del primo colloquio, può diventare un campo intersoggettivo potenzialmente trasformativo, nel quale le multiple configurazioni del sé dell’analista e del paziente si scompongono, per ricomporsi successivamente in nuove configurazioni, seguendo soluzioni sia difensive che creative.

A seguire Vera Bolberti, presenta l’analisi condotta con una paziente affetta da una grave forma di anoressia, portata per esemplificare gli elementi cruciali ed essenziali durante il primo incontro. Questo, infatti, può essere l’unica occasione di aiuto per un paziente che nutra poca fiducia nella possibilità di riceverlo. L’analista da oggetto-soggettivo di winnicottiana memoria, si trasforma successivamente in un elemento che prende parte alla costruzione di un’area intersoggettiva, che vede coinvolti entrambi gli attori della relazione. L’analista ha la responsabilità di decidere quale tipo di setting proporre al paziente e, in genere, mette a disposizione del paziente la sua esperienza di essere stato a sua volta accolto. L’intensità che si raggiunge nell’analisi può spaventare sia il paziente che l’analista, entrambi coinvolti in un processo trasformativo. Nel caso clinico, l’autrice esemplifica il bisogno di alcuni pazienti di un tempo lungo per decidere di iniziare l’analisi. Spesso tale possibilità è resa possibile solo dopo che anche l’analista si sia lasciato coinvolgere dal contatto col paziente, giungendo ad attivare in lui dei cambiamenti, soprattutto nei casi molto gravi.

Discutono i due lavori presentati Diomira Petrelli e Ronny Jaffè. La prima offre una rilettura del primo incontro come “incontro con lo straniero”: l’altro è sempre uno straniero e mette ciascuno a contatto con lo straniero che è in sé: l’inconscio. Spazio immobile all’interno di una corsa, l’incontro con lo sconosciuto che avviene in consultazione garantisce il paziente, per la brevità e l’anonimato che lo caratterizzano, e lo avvicina ad un incontro tra affidabilità e dipendenza.

L’intervento di Jaffè tende invece a mettere in luce i collegamenti tra i due lavori presentati. Individua quindi la parola “orlo”, dell’abisso in un caso, del baratro nell’altro, come “parola confine” importante per i primi colloqui: sono o meno da pensare come separati dall’analisi? Il concetto di dissociazione è il secondo elemento che accomuna i due lavori e viene rilevato nel commentare puntualmente i casi clinici presentati dagli autori. Il terzo elemento comune è la specularità che il discussant rileva in due elementi dei casi.

Paola Marion introduce a questo punto il Meeth The Author con Vittorio Lingiardi di cui ci piace mettere in evidenza il calore e la narrazione affettiva, anche nella presentazione della carriera lavorativa dello stesso. Il primo incontro con la densità emotiva che ritroveremo al momento del discorso di ringraziamento di Lingiardi, per il conferimento del Premio Musatti.

La propria qualità interiore, per l'essere umano, è un demone (Eraclito)

It is no use trying to sum up people (W. Wolf)

Non dirmi che tipo di malattia ha un paziente, dimmi che tipo di paziente ha quella malattia (Ippocrate)

Questi i tre “Numi Tutelari” che hanno guidato la realizzazione del PDM2, tassonomia della persona che ha come prospettiva quella della diagnosi al servizio del trattamento. Sistema diagnostico multi-assiale ha la sua utilità anche nella formulazione del caso clinico e per progettare gli interventi.

Nel corso dell’incontro l’Autore, Vittorio Lingiardi, ne illustra la fruibilità e la struttura, allargando il campo della riflessione sulla diagnosi in psicoanalisi.

 

 

 

Domenica

I lavori della domenica si aprono con una Tavola Rotonda dal tema “Dall’incontro alla relazione terapeutica: i “luoghi e le “forme” della consultazione”.

Il Chair della giornata, Marco La Scala, inizia la sua introduzione proponendo la consultazione come un micro processo in cui può avvenire la nascita di una relazione terapeutica. In particolare, pone l’accento sulla tipologia dei pazienti che si presentano nei contesti istituzionali e sulla necessità di riflettere sul metodo per la consultazione in tali realtà.

Non è il metodo psicoanalitico a dover essere esteso quanto il suo contesto di applicazione: consultazioni in contesti istituzionali con pazienti difficili e organizzazioni extra-nevrotiche, setting che includano gruppi o famiglie. Queste estensioni implicano modificazioni che riguardano appunto il setting, la neutralità, l’uso del transfert e del contro-transfert.

Riguardo al setting, l’autore sottolinea come la consultazione possa assumere le forme più diversificate, sia per il numero degli incontri, sia per il numero dei soggetti coinvolti. La consultazione è anche un atto terapeutico: tenere a mente ciò consente di arrivare non solo a una diagnosi, ma anche a ricavare gli elementi prognostici necessari per pensare un progetto di cura.

Riguardo alla neutralità evidenzia come nella consultazione l’analista non possa essere equidistante, rispetto alle istanze psichiche o alla realtà esterna, come avviene nella seduta di analisi, ma debba allearsi con l’io cosciente del paziente, al quale verrà data anche una restituzione.

Nella consultazione si creano nuovi spazi psichici, ovvero la possibilità di transiti all’interno delle soglie del doppio limite: all’interno della persona e tra la persona e la realtà esterna, sia sul versante intrapsichico che su quello interpersonale. In questi transiti entra in scena il transfert sia sul linguaggio sia sull’analista; la particolarità di quanto accade nella consultazione è che, piuttosto che interpretazioni di transfert, sono utili le associazioni nel transfert. In questo modo, l’analista rende trasferibile il transfert attraverso la capacità di associare, ovvero promuovendo nella consultazione la possibilità di fare il transfert che poi si verificherà nell’analisi.

Nella sua relazione Amalia Giuffrida esprime il sentire dell’analista al lavoro, in particolare le implicazioni emotive connesse in ogni nuovo incontro.

Generosamente offre se stessa e svela i molti interrogativi che la sostengono nell’incontro con l’altro, facendo entrare chi ascolta nella stanza di analisi con lei. Sostiene con forza che in ogni coppia analitica, fin dal primo incontro, si crea quella tessitura relazionale composta dalle trame intrecciate delle due soggettività che si scelgono vicendevolmente. In particolare, il paziente sceglie il proprio analista in quanto possiede in parte quegli elementi psichici che rievocano in lui fantasmi relazionali originari. L’incontro avviene sempre nello spazio paradossale del trovato-creato di winnicottiana memoria. Centrale per l’autrice è la realtà di una reciproca “penetrazione” tra analista e paziente, che consente loro di entrare in un contatto profondo, in una prospettiva di reciprocità speculare ma non simmetrica. Si intuisce l’importanza che l’autrice conferisce all’uso del proprio contro-transfert e della propria autoanalisi, strumenti considerati come sorta di sonde per incontrare l’altro. L’analista deve imparare a dosare la propria presenza\assenza con il paziente, al fine di costruire quella neutralità che non è data a priori ma si conquista progressivamente. In ogni consultazione è fondamentale la disponibilità dell’analista a mettere in gioco il proprio inconscio per incontrare l’inconscio del paziente, con tutti i timori connessi con l’incontro di un altro sconosciuto ed estraneo.

“L’atteggiamento è quella piccola cosa che crea grandi differenze”. Attraverso questa citazione di W. Churchill Giuseppe Pellizzari, parlando a braccio, comunica gli elementi che, a suo avviso sono fondamentali nella consultazione. Per farlo parte dall’etimologia del termine clinica, che deriva dal greco clino che vuole dire inclinare: il medico si “inclina” sul paziente che giace sul lettino, malato. Ma il temine si declina assumendo diversi significati. Dal punto di vista etico, riguarda il prendersi cura dell’altro. Dal punto di vista conoscitivo, vuole dire saper abbandonare la sicurezza delle teorie per avvicinarsi a un oggetto sconosciuto, avvicinarsi allo specifico paziente che manifesta quella specifica sofferenza. Dal punto di vista affettivo, infine, implica un coinvolgimento dell’analista nella relazione con il paziente come essere umano.

Pellizzari sostiene la fondamentale importanza dell’atteggiamento nella consultazione clinica definito come quel movimento che consente all’analista di trovare il modo giusto di porsi nei confronti dello specifico paziente che incontra. Le caratteristiche che definiscono l’atteggiamento auspicabile in una consultazione sono sostanzialmente tre: deve essere libero da ossessioni diagnostiche e anamnestiche; semplice, cioè non ingombrato da modelli teorici precostituiti; naturale, non artefatto, tale da facilitare una comunicazione vera. Ricordando il principio di indeterminazione di Heisemberg, sottolinea come non esista una realtà oggettiva: quello che rileviamo nel paziente dunque dipende anche dal dispositivo osservativo che utilizziamo nella consultazione, che consente di osservare i derivati dell’inconscio. Questo dispositivo comprende le nostre teorie, i nostri modelli e un dispositivo affettivo, ovvero la partecipazione personale dell’analista all’incontro, che si dispone con atteggiamento clinico, evitando illusorie aspirazioni alla neutralità assoluta. Per l’autore la consultazione iniziale si configura come un atto terapeutico e dovrebbe avere l’intento di creare un’alleanza terapeutica. Per fare questo sarebbe importante arrivare a raffigurarsi una “metafora inaugurale” che sia espressione di immagini che emergono dall’incontro e nella quale il paziente possa vedere espressa la sua sofferenza in modo diverso. In questo modo si suscita interesse e curiosità, che sono importanti motori propulsivi per la guarigione.

Giuseppe Saraò propone una riflessione sulla necessaria estensione del metodo psicoanalitico al fine di raggiungere quei pazienti cosiddetti difficili. Nel suo lavoro sottolinea l’importanza di distinguere il momento valutativo dalla presa in carico vera e propria, consentendo così la possibilità di mantenere un elemento terzo cui rivolgersi rispetto alla coppia paziente-analista. Fondamentale è poi la possibilità di svolgere un lavoro di riflessione in gruppo sulla consultazione, che capti l’emergere di aspetti scissi del paziente e del contesto in cui vive, soprattutto per i pazienti con funzionamento pre-simbolico. Per questi ultimi è rassicurante l’elemento istituzionale che garantisce una relazione di cura personalizzata ma non esclusiva.

L’autore paragona il setting della consultazione al sistema multistrato della pelle, in grado di favorire continui scambi tra l’interno del paziente e l’esterno, il contesto di vita ma anche tutto ciò che si deposita nei pressi della seduta, nella sala di attesa, sulla soglia dello studio. L’autore auspica che l’analista utilizzi la funzione analitica della mente al fine di decodificare la domanda di aiuto posta da pazienti difficili spesso in maniera non diretta. L’importanza di considerare l’esistenza di un gradiente di trattabilità consiste nella possibilità per l’analista di proporre modelli di intervento diversi per i diversi pazienti difficili, essendo spesso la relazione personalizzata una prospettiva di arrivo piuttosto che un punto di partenza. L’analista oltre a farsi “disturbare” dal paziente, ovvero a farsi coinvolgere a livello emotivo, deve osservare i legami prevalenti nel nucleo familiare, che sono portatori di depositi trans-generazionali significativi. Infine, l’autore auspica per il futuro che la psicoanalisi possa dialogare di più con la psichiatria, la psicopatologia, le istituzioni universitarie e ospedaliere.

È il momento della seconda, e conclusiva, Tavola Rotonda “L’assessment in psicoanalisi: un “mestiere” impossibile?”.

Chi lavora con approccio dinamico, propone Fabio Castriota nel suo intervento, si trova dinanzi a una sfida fondamentale: non possiamo tradire le nostre radici, ma neppure non tenere conto di un mondo che cambia nella sua complessità. In questa ottica è cruciale quindi pensare ai tempi dell’assessment e della valutazione. È questo il tema che occuperà l’ultima parte della giornata conclusiva del convegno. L’autore ribadisce come alcuni punti siano rimasti ai margini delle ricche discussioni e di come vadano recuperati per poter andare avanti, come istituzione, in vista della costituzione dei Centri Clinici. Andrebbe pensato a fondo, propone, quanto attuato in molti centri di consultazione, ovvero l’invio del paziente a un altro analista dopo la consultazione. D’altro canto, non si può prescindere, a partire da quanto proposto da Bollas in termini di holding interno, il ruolo che il gruppo esercita sull’analista, e dunque anche l’utilizzo di gruppi di supervisione in ambito istituzionale. Conclude il suo intervento, invitando a riflettere su quale sia l’impatto del paziente sull’analista e sulle sue parti non analizzate.

Roberta Guarnieri propone le proprie riflessioni sulla consultazione psicoanalitica, in particolare sul momento della valutazione. L’autrice descrive il presupposto, per la pratica della consultazione, della separazione tra le funzioni dell’analista trattante e dell’analista consultante, a cui va aggiunto il momento terzo della discussione in gruppo. L’analista consultante si pone sia come una presenza personale sia come rappresentante della psicoanalisi istituzionale. Nella valutazione è importante considerare un certo grado di paradossalità insita nel dover tenere presente sia la clinica della soggettività, ovvero l’attenzione ai movimenti interni di transfert/contro-transfert, sia la clinica dell’oggettività, ovvero la valutazione nosografica del paziente.

L’ascolto deve considerare ciò che si verifica da un punto di vista emotivo con il paziente, ma anche la processualità che si sviluppa all’interno del tempo definito degli incontri di consultazione. Se per il paziente l’incontro con un’analista consultante rappresenta un’esperienza traumatogena, in quanto il soggetto entra in contatto con le proprie difese, con gli stati di angoscia, di impotenza e di paura, così anche per l’analista l’incontro con il paziente può attivare movimenti inconsci fortemente difensivi. Nella memoria del paziente spesso l’analista consultante viene ricordato come una sorta di “nonno” con il quale è possibile instaurare una reazione meno conflittuale che con il proprio analista, svolgendo quella funzione di garante del progetto terapeutico che il paziente ha intrapreso. Nella valutazione di un paziente che possa accedere a un lavoro analitico si considera lo svilupparsi, all’interno di una temporalità definita, di una processualità che prende in considerazione il funzionamento psichico in apres-coup. Inoltre, si considera l’attivarsi di elementi transferali e transfero-controtransferali come il fatto che il paziente faccia emergere la presenza di un dibattito interiore, un abbozzo di lavoro psichico nel quale il soggetto teorizza su se stesso e utilizza questo lavoro psichico come autoguarigione. È significativa inoltre la presenza di movimenti affettivizzati che possono essere valutati nei termini di una capacità di sviluppare un transfert analizzabile, un investimento sulla parola, l’esistenza solo in nuce di una via sublimatoria, il riconoscimento di un senso che tale percorso di consultazione ha prodotto. Quest’ultima fase avviene nella cosiddetta restituzione, nella quale l’analista restituisce il senso emerso all’interno di tutta la valutazione.

Nel suo lavoro, Antonello Correale, ci propone come le riflessioni sul rapporto e sulle differenze tra la psichiatria e la psicoanalisi siano rimaste le stesse dei tempi di Freud: la psichiatria tende a descrivere con accuratezza i sintomi, mentre la psicoanalisi cerca di coglierne le spiegazioni. Attualmente la parola assessment rappresenta un tentativo di superare il concetto troppo definitorio di diagnosi, per cogliere l’importanza di inserire un quadro sintomatologico all’interno del contesto più generale della storia del soggetto. Nei colloqui preliminari è di fondamentale importanza condividere con il paziente non solo il progetto terapeutico pensato per lui, ma soprattutto fornirgli l’indicazione di un nucleo concettuale che sia esplicativo, a grandi linee, della sua sofferenza. Al paziente viene così restituita una comprensione del suo racconto non solo affettiva, ma contenente anche le indicazioni sulle quali si orienterà il futuro lavoro analitico. Due sono le coordinate che l’analista deve considerare nella valutazione. La prima riguarda le forme generali dell’organizzazione mentale rappresentate dai grandi quadri psicopatologici (isteria, ossessività, depressione, psicosi, tossicodipendenza e perversione). La capacità di ascolto dell’analista, la sua rilevazione del transfert, la disponibilità a indagare la vita affettiva del paziente e le sue modalità relazionali faranno emergere queste cornici di fondo, con infinite sfumature nei singoli casi.

La seconda coordinata riguarda le strutture identificatorie originarie. Le identificazioni di base derivano dal rapporto originario con i propri caregivers e, a seconda della presenza di relazioni traumatiche o di microtraumi, possono assumere i caratteri dell’identificazione primaria, quella che precede la separazione tra soggetto e oggetto e che utilizza l’incorporazione, o anche fenomeni quali l’identificazione con l’aggressore, per cui il soggetto assume il ruolo di aggressore per superare l’impotenza di essere stato lui stesso vittima.

Tali strutture identificatorie diventano rappresentazioni interne di sé e degli altri, che possono indurre alla ripetizione di schemi relazionali rigidi e\o disfunzionali. Spesso poi, diventano talmente ingombranti per il soggetto, da oscurare la sua soggettività emergente, che può ritrovarsi in piccole curiosità o gesti spontanei che è compito dell’analista cogliere nella valutazione e cui poi attribuire il giusto spazio di crescita.

Conclude il convegno il lavoro di Amedeo Falci.

L’intervento si apre con l’augurio che la psicoanalisi possa rivolgersi alla modernità scientifica, per affrancarsi dall’isolamento in cui rischia di rimanere. Muovendo da una rilettura critica della propria modalità di fare le valutazioni cliniche agli inizi della sua attività come psicoanalista, l’autore sottolinea l’importanza di poter disporre di criteri di valutazione chiari e definiti per proteggere l’analista da derive onnipotenti basate solo su conoscenze intuitive e soggettive del paziente.

Nella valutazione non è importante solo la soggettività dell’analista, l’uso del transfert e del controtransfert, ma anche l’applicazione di costrutti che fanno parte delle sue teorie e della sua formazione. Dovendo curare i pazienti, lo psicoanalista deve essere in grado di distinguere i diversi gradi della sofferenza umana ai quali dare risposte differenti, sia sul piano del metodo che della tecnica. Tutto ciò rientra anche nella deontologia della cura, che non si può sottrarre alle responsabilità diagnostiche intese come una valutazione dei significati della sofferenza, insieme alla proposta di un percorso di cura adeguato. Appare chiaro che le risposte sui funzionamenti sani o disfunzionali della mente umana potranno venire solo da un apporto multicomprensivo di modelli. Per questo è importante incentivare la ricerca in psicoanalisi secondo modelli mutuati da discipline affini. E’ in questa ottica che l’assessment in psicoanalisi comporta dei vantaggi: assunzione di responsabilità diagnostica e prognostica per il paziente; assunzione di responsabilità circa la pianificazione del trattamento profilato sulla valutazione del paziente; facilitazione delle comunicazioni scientifiche tra clinici; responsabilità teorico-concettuale sui disturbi del paziente; protezione degli allievi in formazione dall’invio di pazienti troppo gravi o non trattabili; possibilità di una valutazione dell’efficacia e degli esiti della cura, confrontandola con l’assessment iniziale, strumento essenziale di ricerca clinica.

Concludendo, Falci auspica lo sviluppo e il consolidamento di pratiche di valutazione che possano sostenere la nascita dei Centri Clinici, anche attraverso un confronto scientifico con altre realtà simili.

 

 

 

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