Domenica, Ottobre 13, 2024

Valdimiro Pellicanò, Improvvisamente in un sussulto, in un moto di stupore. Sull'uso del mito con la Psicoanalisi. Invito alla lettura di Loretta Cifone

Il mito ha una potenza psicologica straordinaria. Per la bellezza che sempre lo accompagna, letteraria, iconografica, musicale; per la capacità di raggiungere in modo poetico le questioni di fondo dell’umanità; per l’opportunità di farci entrare in contatto con il mondo dei nostri antenati. Per l’apporto che può dare all’immaginazione, alla pensabilità, alla comunicazione. Il mito genera pensiero, emozioni, curiosità. Sbalordisce, cattura. Molte altre storie si possono narrare, sì, ma il mito è fatto di una sostanza particolare. Non è scienza, non è fede. Non ha un autore a cui si deve fedeltà. Per questo permette una sconfinata libertà d’immaginazione e d’interpretazione, richiedendo nel contempo un esercizio di tolleranza per le interpretazioni che non convincono e che si vorrebbero respingere. Il più alto coinvolgimento col mito si raggiunge più che ascoltandolo, narrandolo. Per godere di tutta la potenza del mito servono un narratore e un uditorio, come per il teatro, come per l’analisi. L’ascolto di Alcinoo e dei Feaci fu fondamentale perché Odisseo raccontasse le sue avventure; l’ascolto di Didone e dei Cartaginesi lo fu per Enea; quello di Desdemona e di Brabanzio per Otello. Se si ama il mito, in verità, raccontarlo ne è una conseguenza, un bisogno anche, e si soffre se non si ha un pubblico che ascolti quando si è maturi per raccontare. Per questo anche si può scriverne in un libro, per rivolgersi a un pubblico immaginario. Ma se si ama il mito, si sente anche il dovere di prendere in mano il testimone di quella staffetta che continua lungo la storia millenaria dell’umanità, permettendo al racconto di non bloccarsi ma di proseguire, da una generazione all’altra, da una latitudine all’altra. Narrare il mito è infatti necessario per godere appieno degli effetti della sua potenza psicologica, ma anche per mantenerlo vivo e svilupparlo. L’atto stesso del narrare, infatti, richiede una scelta espressiva che può rivelarsi originale e creativa per nuove interessanti congetture. Come, ad esempio, Valdimiro Pellicanò ha saputo raccontare liricamente il mito di Orfeo! Chi dei suoi lettori potrà più dimenticare quegli uccelli che, distratti dal canto dell’artista, per paura di cadere cessavano di volare? Il canto di Orfeo, veniamo a sapere da Pellicanò, era così seducente e travolgente che gli uccelli, notoriamente inclini alle gioie musicali, non semplicemente ne erano attirati e si fermavano per meglio goderne ma, di più, si trovavano nella necessità di fermare il loro volo per non rischiare di precipitare a terra, tanto quel canto poteva far loro dimenticare la connaturale, meccanica, automatica capacità di volare! Quella poesia che troviamo nel testo, Avesti fiducia Orfeo, illustra bene, a mio avviso, quel processo di vivificazione di un mito che passa compiutamente attraverso lo studio delle fonti, la rielaborazione personale, la narrazione. Pellicanò, in questo volume, ha fatto una narrazione metodica e strutturata di alcuni miti coi quali ha intrecciato la sua mente di psicoanalista che pensa e associa dietro al lettino durante e dopo la seduta col paziente. Ma certo non solo a uno psicoanalista il mito consegna un patrimonio di cultura, di bellezza, di profondità psicologiche cui attingere per pensare, capire, comunicare e creare. È una fonte alla quale, in verità, tutti possono abbeverarsi. Riccardo Romano disse una volta che "un mito non va spiegato, ma va interpretato, come un musicista interpreta Bach o un attore interpreta Shakespeare". C’è uno stile nel racconto, cioè, che è determinante e interviene a dare senso, mettendo in luce parti lasciate in ombra da autori o studiosi precedenti che spinge a ricostruire o anche a immaginare cosa in quelle ombre potrebbe celarsi. Ed è proprio per le potenzialità di un’interpretazione personale che il racconto del mito si giova di essere rivisitato, proposto e ascoltato da un pubblico attento. Con i miti, bisogna saperlo, si diventa ben presto insaziabili. Perché ci sono sempre altre versioni da conoscere, antiche o nuove, altri elementi, altri significati, impliciti, nascosti, profondi, magari inventati. Inutile e sbagliato è anelare a un mito originario garanzia di verità. All’inizio dello studio dei miti questa consapevolezza può forse rattristare, ma poi si comprende che proprio in questo risiedono la grandezza, il fascino, l’unicità del mito, caratteristiche e destini che son poi quelle di tutti i prodotti artistici. Gli stessi Eschilo, Sofocle e Euripide nel V secolo a.C. rivisitavano miti già esistenti da secoli, inventando nuovi personaggi o nuove dinamiche nelle stesse storie, illuminando i possibili aspetti di sé dei personaggi, con nascita di nuove costruzioni, mai definitive per quanto intriganti e convincenti. Un esempio: Marguerite Yourcenar, 2500 anni dopo Sofocle ed Euripide, ebbe l’ardire di scoprire che Elettra bruciava d’amore per Egisto e che per questo Clitemestra l’allontanò dal palazzo reale, perché temeva il desiderio della ragazza per il proprio amante, non il suo odio per lui! Certo, se oggi emergesse dal passato un racconto più antico di quelli che allo stato attuale possediamo (che dolore continuare ad assistere al bombardamento delle terre di origine di tanti miti che distruggono ogni possibilità di ritrovare nuovi reperti…), sarebbe una festa per l’umanità, ma sarebbe solo un racconto più antico, non un racconto più vero.

 

Vedi anche: Valdimiro Pellicanò, Improvvisamente in un sussulto, in un moto di stupore. Sull'uso del mito con la psicoanalisi. Nems, 2024

 

 

 

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