Valdimiro Pellicanò, Neuropsichiatra infantile, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e socio del Centro di Psicoanalisi Romano, è noto per aver fondato l’associazione RIPA che riunisce psicoterapeuti di lingua italiana e russa.
Il suo libro è uno scritto ampio e complesso denso di riferimenti teorici e clinici che, si comprende, hanno accompagnato l’evoluzione della sua formazione, del suo pensiero, della sua professione.
Il testo è dedicato ad alcuni maestri cari che lui, come molti noi, hanno avuto, ed è corredato di una bella prefazione di Antonello Correale e da una postfazione di Loretta Cifone.
Come recita il sottotitolo del testo, esso riguarda “l’uso del mito con la psicoanalisi” Bene, questo con, insieme, mette immediatamente in una posizione centrale il mito in un dialogo, potremmo dire simmetrico, con l’esperienza psicoanalitica che del mito, per l’autore, si è nutrita e può nutrirsi costantemente. Tanto sembra indicare una direzione, un riferimento preciso il sottotitolo e cioè l’importanza, la centralità nell’uso del mito, tanto, nel titolo, il “sussulto”, “il moto di stupore”, “l’improvviso” paiono invece descrivere una qualità fenomenica, estemporanea, l’epifania del funzionamento inconscio catturato nello scambio emotivo dei protagonisti dell’esperienza d’analisi. Questa procede attraverso un congetturare, un errare dell’analista prima di tutto al suo interno, (il riferimento è a Edipo a Colono e quindi, potremmo dire il mito è nel metodo), … errare, fluttuare al suo interno per tragitti sui quali il suo paziente pare condurlo o ricondurlo costringendolo alla sua responsabilità controtransferale, alla sua insopprimibile autoanalisi. Ciò che prima appariva indistinto, indifferenziato, talvolta confuso, ora quindi potrà apparire, con stupore improvviso, appunto.
Dicevamo di un volume complesso perché sono trattati temi di carattere antropologico, di poesia, di teoria e clinica psicoanalitica.
Il mito innanzitutto come attrattore, “strano attrattore” lo definisce l’Autore, il mito come opzione di senso, storia, fantasia, sogno cui attingere alla ricerca di verità, di ossigeno direbbe Armando Ferrari, dove di ossigeno sembra non essercene più, a volte, nella stanza d’analisi.
Il mito non spiega ma interroga, può illuminare, traccia in assenza di segni non ancora condivisibili, abita l’esperienza preconscia dell’analista sulle cui immagini si prova ad articolare un discorso, ci si approssima al testo del paziente.
Il mito è descritto, sin dalle sue origini che giace nella cosmogonia, appare con Fanes, divinità primigenia della creazione e, dal potere creante della cosmogonia, procede la teogonia ossia la generazione degli dei e quindi dei miti. Viene ricordato Levi Strauss che parlava di mitemi intendendo che da essi, dai miti, consegue il sapere comune di una civiltà, quella miniera di storie, è ancora Levi Strauss a dirlo, ci ricorda Valdimiro, da cui trarre gli insegnamenti per la vita quotidiana.
È molto bello il primo capitolo, a me è tra quelli piaciuti di più senza dubbio, in cui si parla dell’arte rupestre che vede negli animali raffigurati di 15-20-30 mila anni fa nelle grotte di Lascaux ma non solo, anche la loro iniziale interazione con l’umano, raffiguranti il vivente sconosciuto che ri-guarda l’uomo, pare interrogarlo, iniziale oggetto del suo sapere, che di certo lo spaventa, non ancora dominato (l’animale) e sfruttato come avverrà molto più tardi. Quegli animali raffigurati nelle grotte sono forse allora l’eco di un inconscio già là, potremmo inferire, con cui confrontarsi, primo oggetto abbozzo di una riflessività, di una dialettica soggetto/oggetto, o intersoggettività, se preferite, di una storia, scenario vivente del mito divenente, un mito che si incide e fonda il processo del sapere nell’uomo.
Su queste premesse si sviluppano e articolano i primi sei capitoli, con ricostruzioni in dettaglio e molte riflessioni. Descrivono le vicissitudini di Eros, Thanatos, Anteros, Psiche, Ade Hypnos, Mnemosine e Lete ma anche Orfeo, Euridice, Aion, Medea e Giasone, su cui sarebbe bello soffermarci, lasciandocene magari un po' ammaliare.
In questi stessi capitoli l’autore ci mostra come il ricorso al mito si intersechi con la clinica dei tanti casi di cui ci parla, di adulti, bambini, coppie, famiglie ma anche si integri con la teoria e la storia della teoria della psicoanalisi, la memoria e la ripetizione del transfert.
Nel capitolo 2 il riferimento a Bion è già presente, agli elementi beta, al campo e alla rêverie. L’autore non fa semplici accostamenti, giustapposizioni, ma offre l’esempio di come campi del sapere confinante lavorino in modo sinergico e possano illuminare. E l’esempio del resto parte da Freud, dai suoi studi di neurofisiologo, e poi di antropologia, storia, religione, gruppi sociali.
Arriviamo così al mito di Edipo a cui Pellicanò dedica ampio spazio nel capitolo 7 e 8 dove lo troviamo confrontato alla Sfinge e all’oracolo. Troviamo qui l’angoscia che provoca l’interrogativo e la verità.
Il capitolo 9 invece parla del sogno e del mito. Nell’uno Freud trova l’altro, il desiderio rimosso, il compromesso, la nevrosi, il terrore ma anche, ancora, lo stupore, la scoperta.
Bello anche il capitolo 10 ancora su Bion, sul sogno (nella veglia) da lui concepito, e il mito utilizzabile come un fertilizzante naturale nella sua evocazione, per apprendere un’esperienza emotiva o apprendere da essa, mito come tramite associativo, ci dice Bion.
Siamo in chiusura, del testo. Prima però un capitolo che parla di Racamier e del suo “Genio delle origini”, l’antedipo e l’incestuale, quindi il ruolo del diniego del lutto e lo stato narcisistico frutto di una seduzione incoercibile che con l’incestuale (che dell’incesto pur non agito mantiene le caratteristiche dell’indifferenziazione e dell’autogenerazione) ricopre sempre un’amalgama depressivo come lo definisce l’autore francese.
L’ultimo ultimo capitolo del libro è dedicato al “Tramonto del complesso edipico” in Freud e Loewald, alla concezione di quest’ultimo del mito di Edipo, come riletto da Ogden, quale confronto tra generazioni, battaglia per l’autonomia, l’autorità e la responsabilità.
In coda al testo troviamo in Appendice qualcosa di prezioso, e cioè la cura e traduzione da parte dell’autore di “Edipo e la Sfinge” nella variante di Josephin Peladan, rappresentata nel 1903. Ne abbiamo pertanto ora la prima versione esistente in italiano.
Va da sé che alla Sfinge l’autore dà, come Bion, un risalto maggiore a discapito della lettura freudiana invece più concentrata sul parricidio e l’incesto.
Insomma un testo che vi invitiamo senz’altro a leggere.
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