Venerdì, Maggio 03, 2024

Papuzza E., Bambini e adolescenti iperconnessi in epoca di pandemia. 2020

 

C’è - nella condizione umana - da essere spaventati, ma c’è anche da sapersi legare al timone del vascello sotto la tempesta delle onde del nuovo - sconosciuto che incombe”. Antonino Ferro (2013)[1]

 

Chi l’avrebbe mai immaginato che questo “nuovo – sconosciuto che incombe” (incipit), diventasse così pervasivo e attuale in questo periodo di pandemia? Mi riferisco in primis alla dimensione onlife (secondo la geniale espressione del filosofo Luciano Floridi - 2015), ovvero alla centralità e trasversalità che il digitale e le tecnologie hanno ormai assunto nelle nostre vite, nel nostro modello di società e socialità (assai prima che arrivasse il Covid) e, di conseguenza, a quell’ansia che pervade gli adulti (genitori, insegnanti, educatori, caregivers in generale) davanti all’iperconnessione dei propri bambini e adolescenti.

In secundis alludo proprio a questo virus, alla sua minacciosità, al modo in cui abbia copernicamente trasformato le nostre esistenze, ma soprattutto a quella dimensione fantasmatica per cui l’altro da sè, il fuori, sia pericoloso e vada pertanto tenuto a distanza, un virus invisibile agli occhi che tuttavia è veicolato dal contatto umano, a tal punto da costringere i governanti a imporre misure coatte di distanziamento sociale, ormai interiorizzate endemicamente (credo sia capitato a molti di noi di stranirsi sensorialmente davanti ad immagini pre – pandemiche in cui banalmente ci si salutava o presentava stringendosi la mano, o baciandosi, o ci si assembrava in luoghi pubblici, tipo stadio, cinema, locali, ecc.).

Le tecnologie sembra allora ci abbiano soccorso, grandi e piccoli, dalla vita privata a quella lavorativa, nel commutare il vicino in lontano, nel rendere possibile incontri che altrimenti non sarebbero avvenuti, anche se ne ha trasformato i tratti, forse snaturandoli, chissà. Sono arrivati i webinar, le riunioni su Zoom, la didattica a distanza, lo smart working, le psicoterapie on line, le feste di compleanno su Skype, gli acquisti su Amazon, i concerti musicali su streaming, lo sport in rete, ecc., in aggiunta a tutte quelle forme di iperconnessione già in essere, soprattutto nel mondo giovanile.

Internet, il digitale, il mondo virtuale, hanno da tempo ormai cambiato profondamente le nostre vite, di adulti, bambini e adolescenti, le nostre relazioni sociali, familiari, il rapporto con noi stessi, con il tempo e con lo spazio, il modo di comunicare, il nostro stesso senso identitario, cioè chi pensiamo e sentiamo di essere, perfino il modo di stare al mondo, il nostro principio di realtà. E’ inutile e fuorviante contrapporre mondo reale e realtà virtuale, la seconda è ormai parte integrante della prima e l’ha profondamente cambiata, ma soprattutto la rete non è più semplicemente un mezzo, bensì un generatore di realtà (Pellizzari, 2018), un tessuto connettivo. Era già così prima della pandemia, oggi più che mai: siamo tutti continuamente connessi, mentalmente in contatto costante con gli altri, una condizione esistenziale per cui, per esempio, i social network offrono un pubblico sempre presente, una piazza di relazioni che consente di non sentirsi mai veramente soli, in nessun luogo e in nessun momento della giornata e della vita. Mentre fino a qualche anno fa, ogni tanto ci si connetteva e la costante era la disconnessione, oggi sembra esattamente il contrario; anzi, in realtà, si è direttamente onlife, una partecipazione istantanea e ubiquitaria che assorbe ogni storicità e ogni spazialità, una nuova condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo che il filosofo Floridi descrive come la quarta rivoluzione (dopo Cartesio, Darwin e Freud).

Mi chiedo, tuttavia, quanto l’iperconnessione ci abbia avvicinato o piuttosto ulteriormente distanziato, quanto la connessione corrisponda ad una effettiva capacità e possibilità di entrare in relazione; per certo si è intensificata la dimensione onlife, cioè la pervasività del digitale e la labilità dei confini, ponendo forse nuove questioni ed accentuando le vecchie. Quali nuove problematiche e criticità tutto questo comporta, pensando nello specifico allo sviluppo di bambini e adolescenti? Quali nuove attenzioni e responsabilità si presentano agli adulti caregiver, genitori, insegnanti, operatori di varia natura (pediatri, psicologi, psicoterapeuti, educatori, ecc.), cui spetta l’accudimento, la cura, l’educazione delle nuove generazioni?

I giovani di oggi (definiti appunto Internet Generation[2]) trascorrono il tempo e vivono esperienze quotidiane in modo del tutto diverso dai fratelli maggiori o dai propri genitori: in media un adolescente contemporaneo controlla il cellulare più di 80 volte al giorno, dorme con lo smarthphone sotto il cuscino, pronto a controllare messaggi e i likes sui Social. Il tempo passato sui nuovi media (scrivere, messaggiare, condividere, guardare i social, navigare, giocare, flirtare, ascoltare musica, ecc.) è praticamente tutto quello che gli rimane come tempo libero al netto delle ore di sonno, di scuola, di studio, di sport; il totale del tempo supera ampiamente le 24 ore, ma ciò si spiega con un’esperienza multitasking.

Bambini e adolescenti passano senza soluzione di continuità da Tik Tok ad Instagram, a videogiochi on line, a videochat, WhatsApp, a You Tube, Facebook, Spotify, Twich, e applicazioni di ogni sorta, tutto per seguire le vite altrui e informare gli altri della propria, con una strategia specifica di auto rappresentazione che per lo più deve mostrare il lato bello di sè, della propria vita, e ricevere immediata gratificazione e consensi, monitorando e accumulando I like e follower in modo compulsivo, come lo psicoanalista francesce Serge Tisseron (2016) ben descrive con il concetto, da lui coniato, di extimitè (versus intimitè), per cui un individuo fonda il senso di sè identitario sull’immagine in rete del proprio profilo on line, assai più che attraverso la propria interiorità.

Il successo dei reality e dei social network dimostra proprio quanto, più che la riservatezza, sia in fondo la condivisione il modello vincente; non tanto la condivisione intesa come socialità, ma come notorietà, la possibilità che il proprio nome e il proprio volto siano conosciuti dal numero maggiore di persone, indipendentemente dal motivo per cui ciò accada. Gli adulti dipingono se stessi come “inesperti” o comunque non sufficientemente preparati a familiarizzare con il digitale, vissuto più come appannaggio dei propri figli, o studenti, che di loro competenza, come a sottolineare un forte gap generazionale (“nativi digitali” versus “immigrants”). E’ pur vero tuttavia che, come è normale che sia, i giovani tendano a vivere il mondo digitale, ammesso che abbia ancora senso distinguerlo da quello reale, come uno spazio proprio, da cui l’adulto deve rimanere fuori. Per bambini e adolescenti, l’adulto è presunto non sapere, cioè percepito come all’oscuro, inesperto, incompetente, in una parola molto distante, dall’esperienza onlife della nuova generazione. La difficoltà ad avvicinarsi a questo fenomeno, riguarda il singolo genitore quanto l’insegnante; ma anche, sebbene in modo diverso, molti operatori e studiosi, appartenenti a varie branche del sapere (filosofi, psicologi, psicoanalisti, psicoterapeuti, pedagogisti, antropologi, sociologi, pediatri, neuroscienziati, psichiatri, linguisti, ecc. ), in qualità di rappresentanti delle loro discipline, portavoce delle specifiche culture professionali, quando esprimono gli arroccamenti difensivi e ideologici di ogni settore dello scibile alle prese con il nuovo e sconosciuto, tra la curiosità verso la scoperta e la paura di perdere identità e specificità.

Questo concerne in primo luogo, nell’esperienza a me più vicina, il mio mestiere di psicoanalista, nello specifico lavoro con bambini e adolescenti, e l’ampio dibattito interno fra colleghi, sul ruolo che le nuove tecnologie possano svolgere, concretamente e simbolicamente, nella stanza d’analisi, nella relazione con i giovani pazienti. Non ho mai disdegnato, sebbene con una certa ambivalenza, l’ingresso nella mia stanza di terapia degli strumenti tecnologici con bambini e adolescenti (videogiochi, musica, video, cellulare, ecc.) al contrario, ho cercato di coglierne il ruolo centrale nelle loro vite e l’importanza del loro utilizzo nella clinica come via d’accesso, talvolta anche privilegiata, al loro mondo interno. Ho accolti questi dispositivi, talvolta tollerati, anche quando li ho vivamente percepiti come un’evasione, una difesa del mio giovane paziente rispetto alla relazione con me. In fondo una comunicazione anche quella, sulla quale e attraverso cui lavorare. Per non parlare della centralità che hanno assunto durante il lockdown, quando la stessa relazione analitica passava attraverso una comunicazione tecnomediata, che fungeva al contempo da strumento e da ambiente, da tessuto connettivo, da generatore di realtà. Ricordo bene con quanto piacere e soddisfazione una mia piccola paziente di 6 anni durante le videochiamate, in periodo di lockdown, mi spegneva e riaccendeva sullo schermo, a mò di nascondino, ridendo e giocando, come a controllare lei magicamente la relazione con me, la realtà della separatezza e della lontananza fisica.

Del resto anche da prima, spesso, nel mio usuale (pre - Covid) lavoro analitico con bambini piccoli, alla fine delle sedute, al momento di salutarsi compariva un cellulare, di plastica, di carta, o simulato, pronto all’uso, per esprimere la fantasia di un contatto prolungato, il bisogno di una connessione, a fronte di un’ansia o angoscia di separazione.

Penso inoltre al difficile e nevralgico lavoro degli insegnanti in questo periodo, catapultati, chi più chi meno preparato, nella didattica a distanza (DAD), per entrare in ciò che per definizione era stato finora appannaggio dei giovani, il mondo del digitale e dell’iperconnessione, e attraverso Internet, gestire una relazione educativa, affettiva e di apprendimento, dove ogni comportamento online richiede un nuovo pensiero (per esempio l’obbligatorietà della webcam accesa come forma di controllo della presenza degli alunni, ma forse in fondo come possibilità di uno sguardo, di un contatto che attraversi lo schermo), in un periodo in cui il pensiero è quanto mai necessario per dare voce ad esperienze e vissuti importanti, spesso relativi ad angosce di morte e malattia.

Penso ai pediatri, riferimento principale, spesso unico, per tanti genitori e famiglie, oggi sovraccaricati di richieste, non solo quelle relative alle certificazioni per le scuole secondo i nuovi protocolli Covid, ma soprattutto quelle che riguardano i segni di disagio psicologico dei giovani pazienti, spesso manifestato a livello sintomatico attraverso comportamenti di dipendenza dal digitale, cui gli stessi pediatri fanno fatica ad offrire adeguata lettura e risposta.

Penso ai genitori, sempre più soli davanti a ciò che il digitale rappresenta per i propri figli, fin dalla primissima infanzia, dai videogiochi al primo cellulare, che ormai sembra rappresentare la prima vera esperienza di passaggio, a mò di rito di iniziazione in senso antropologico, attraverso cui ogni bambino o bambina (di solito arriva con la prima comunione - per chi la fa – intorno ai 9-10 anni) può sperimentare una nuova forma di partecipazione e autonomia, sviluppare un formidabile senso di appartenenza, la possibilità di sentirsi parte di un mondo, anzi del mondo, ma è anche improvvisamente esposto a contatti e contenuti di ogni sorta, spesso inadatti a quell’età, alle proprie capacità di comprensione, elaborazione e gestione. Sempre più diffusamente, inoltre, il cellulare funge da cordone ombelicale e più in generale da splendido antidoto contro la solitudine e l’angoscia di separazione, cui può corrispondere, specularmente, da parte dei genitori stessi, il bisogno di mantenere con i figli un rapporto improntato sulla dipendenza ed il controllo. I genitori sono sempre più preoccupati che i figli “incappino” in esperienze potenzialmente traumatiche, di cui i fatti di cronaca sono pieni, quali episodi di cyberbullismo, di pedopornografia, di adescamenti online, di truffe e giochi d’azzardo in rete, e più in generale che sviluppino forme di vera e propria dipendenza da iperconnessione[3]. Del resto la generazione attuale non è più passivamente esposta a contenuti specifici (come un tempo davanti alla Tv o ai giornali), bensì coinvolta attivamente nella gestione di relazioni, contatti e contenuti on line, con un livello di partecipazione e interazione molto elevato ed un confine tra realtà e virtualità sempre più labile, per cui esperienze di vita fondamentali, relative alla socialità, l’affettività, l’apprendimento, la sessualità, il divertimento, la creatività e lo stesso processo di soggettivazione, sono in fondo tecnomediati. L’utente non è più fruitore passivo della rete ma attivo e reattivo produttore a sua volta di contenuti, chiunque può realizzare un video, un canale You Tube, un blog, un contributo mediatico, e condividerlo, facendolo circolare in rete.

Internet diventa così una formidabile occasione di democrazia e di partecipazione, oltre che di creatività, sul piano per esempio artistico, letterario, musicale: questo vale per gli adulti e più che mai per i giovani, cui difficilmente sono accessibili altri canali di partecipazione sociale (vi ricordate, per esempio, il “fenomeno” Greta Tumberg?), in un mondo attuale in cui gli adolescenti sono marginalizzati dalla società e vi è un grande scarto fra le loro potenzialità, le loro risorse e la loro effettiva possibilità di partecipare in modo attivo e creativo. Il digitale consente di sperimentare forme di partecipazione, di libertà, di creatività intellettuale e artistica, di espressione che difficilmente il mondo adulto garantisce ai giovani negli spazi reali del vivere quotidiano.

La dimensione onlife implica inoltre l’esperienza della costante connessione, dell’essere mentalmente in contatto continuo con gli altri, una condizione esistenziale per cui i Social offrono un pubblico sempre presente, una piazza di relazioni che consente di non sentirsi mai veramente soli, in nessun luogo e in nessun momento della giornata e della vita. La rete risponde al bisogno di ottenere tutto e subito, di vivere nel principio di piacere in cui non esiste l’assente, la perdita, la frustrazione, l’attesa. Gli inventori di Spotify affermano di avere inventato la popolare app per procurare musica istantanea a chiunque lo desiderasse, senza dovere attendere, cercare, scambiare, perdere nemmeno un secondo per scaricarla. L’instant messaging si impone sulle mail, ormai utilizzate solo in ambito lavorativo e per lo più dagli adulti, perchè ormai tra una mail e l’altra, per quanto sia una corrispondenza che viaggia velocemente in quanto elettronica, implica, come nelle lettere di un tempo, uno scarto di tempo tra una comunicazione e l’altra e ciò spesso diventa intollerabile (bastano pochi secondi di attesa di una spunta blu su WhatsApp, di una risposta al proprio messaggio, per agitarsi e fremere); sembra difficile o impossibile fermarsi a riflettere, ad ascoltare l’emozione, prevale l’impulso, l’azione, l’evacuazione.

L’iperconnessione sembra lenire l’angoscia di vacuità, il senso di inesistenza e di fisiologica precarietà della vita: su Internet, grazie ai social, ai likes di conferma e aprezzamento, al continuo scambio di immagini e fotografie, si è costantemente presenti, addirittura immortali (in senso stretto e reale, la vita on line sopravvive alla propria morte, come numerosi fatti di cronaca hanno ampiamente raccontato); al tempo stesso, in modo apparentemente contraddittorio, si passa velocemente dalla permanenza alla dissolvenza, quando l’attualità dura un secondo e, per esempio, su Instagram (nella sezione “Stories”), che ormai è tra i social più diffusi tra i giovani, alcune immagini scompaiono automaticamente dopo 24 ore. La “ rete diventa come lo sguardo della madre, se gli altri sui social ti vedono, ti taggano, ti rispondono con un like, ti cercano, ecc. Allora vuol dire che esisti. Fragili esistenze di adolescenti possono trarre da questi riscontri rinforzi necessari al loro senso di esistere e valere, per se stessi e per gli altri ... “ (Ruggero, 2012). Internet consente, proprio in virtù della sua rapidità, del suo annullare le distanze, del suo anonimato, di sperimentare la compresenza trasversale e frenetica di più contesti (sia dentro che fuori la rete), uno spazio senza soglie e una temporalità simultanea priva di sfumature, una condizione virtuale di onnipotenza legata al superamento illusorio di ogni normale vincolo e limite spazio-temporali. Ripenso, a tal proposito, a quando, durante le sedute svolte attraverso videochiamate o telefonate nel periodo del lockdown pandemico, i miei pazienti fremessero ad ogni disturbo o interruzione di connessione, come in balìa di un vissuto di perdita abbandonico e, di contro, provassero invece un intenso piacere illusorio nel connettersi a ogni inizio seduta al tempo di un click, annullando ogni tragitto, tempo e l’attesa necessari per raggiungere concretamente lo studio.

Il digitale sta modificando proprio la qualità della socialità, il rapporto con gli altri, all’insegna della liquidità relazionale (Bauman, 2011): le relazioni online sono numerose, spesso superficiali, talvolta nemmeno corrispondenti a legami reali, e vengono coltivate all’insegna della debolezza del legame. Nell’epoca di Tik Tok, di Instagram, di Twitter, l’identità si virtualizza, come anche le emozioni, l’amore e l’amicizia, tutto è rapido, fugace, deresponsabilizzante, necessariamente divertente, ci si espone senza mettervi la “faccia”, alla ricerca di riscontri positivi, di seguaci e di likes, di contatti e di post, dove il superamento di vincoli e di confronti, apre a dimensioni narcisistiche imperiose e prepotenti e l’altro viene spesso vissuto in funzione di se stessi. Il fatto di non vedersi e di non sentirsi direttamente, o di non entrare in contatto visivo, abbassa timidezze e inibizioni, per cui spesso nella comunicazione in rete si raggiungono elevati livelli di apparente confidenza e intimità, a volte di seduttività, proprio perché l’altro può essere uno sconosciuto e come tale, liberamente immaginato e idealizzato. Anche di se stessi si possono facilmente esprimere ed esplorare differenti aspetti della propria personalità, quelli di cui si è meno o per nulla consapevoli, aspetti dissociati di sè che vengono più facilmente rappresentati in un contesto fluido e poco responsabilizzante come quello virtuale.

Può tuttavia avvenire anche il contrario, cioè che il cyberspace possa rappresentare un luogo e un modo per sperimentarsi dal punto di vista identitario, proponendo di sè profili diversi e verificando come gli altri si rapportano ad essi. Il distanziamento sociale imposto dalla attuale pandemia rende l’iperconnessione ancora più pervasiva, indispensabile a garantire le forme primarie di comunicazione (basti pensare, una fra tutte, alla didattica a distanza che ha permesso la continuità di un’esperienza fondamentale come quella scolastica per i bambini e gli adolescenti), ma al contempo ne sottolinea la sussidiarietà, l’incompletezza, i limiti, i rischi, quando il cybercontatto si allontana sempre più dalla relazione umana.

Queste considerazioni aiutano a comprendere meglio i motivi per cui la cosiddetta “Internet addiction” stia aumentando: di dipendenza fino a qualche tempo fa si parlava esclusivamente riferendosi alla tossicomania, cioe’ al consumo di stupefacenti; oggi invece il concetto, dall’abuso di sostanze, si e’ esteso all’assunzione di comportamenti e fra essi compare a pieno titolo l’utilizzo eccessivo e inadeguato di Internet[4], alla base di un’ansia crescente da parte di genitori, insegnanti, operatori, che si chiedono quando e quanto ci sia da preoccuparsi per i comportamenti di dipendenza da iperconnessione delle nuove generazioni.

La relazione on line con persone sconosciute, di cui nemmeno si conosce la voce, crea spesso forte dipendenza perche’ il rapporto che si sviluppa, svincolato dalle limitazioni della conoscenza diretta, permette la liberazione della fantasia, un diretto appagamento dei propri desideri, si sperimenta il rapporto ideale come nelle cotte adolescenziali, in cui basta un dettaglio per innamorarsi, ma in realta’ una persona vale l’altra, l’importante e’ trovare qualcuno su cui proiettare il proprio desiderio e la propria fantasia. Il bisogno profondo di sperimentare qualcosa di bello con l’immaginazione, di evadere, di provare sentimenti intensi, all’interno di una relazione dove l’altro non si incontra mai veramente, dove il nickname può servire sia a celare che a svelare aspetti di sè, dove l’anonimato e la non visibilità fanno dell’identità in rete un foglio bianco. Il cyberspace permette di vivere in una sorta di delirio di onnipotenza, per cui ti immagini l’altro come vorresti che fosse e proponi te stesso per come ti piacerebbe essere, senza che mai nulla ti tradisca (uno sguardo, un rossore, un battito accelerato, il tono della voce, un silenzio, ecc.).

Anche lo smartphone assolve ad una medesima funzione d’onnipotenza e, soprattutto, di gestione del legame con l’altro, in quanto rappresenta il possesso illusorio che serve per negare la separazione e la consistenza reale dell’altro. Annulla il tempo e lo spazio dell’attesa, facilita un’ esperienza magica di contiguità relazionale, come una volta mi ha ben spiegato un mio paziente di 12 anni, quando raggiante mi comunica di avere finalmente sconfitto il suo terrore di prendere l’ascensore da solo (“ parlo con mio padre al cellulare dal piano terra fin su a casa ”).

Bambini e adolescenti la cui esperienza onlife si rivela troppo pervasiva nelle sue varie forme, sembra cerchino nel cyberspace, attraverso ciò che esso offre, dai videogiochi ai social network, alle scommesse, al sesso, una risposta facile, accessibile e socialmente accettata a bisogni profondi, a desideri autentici di relazione e affettivita’, di ricerca di senso e di contenimento.

Non credo sia l’iperconnessione da temere, o criticare, insomma da demonizzare come espressione dello sconosciuto che incombe, piuttosto da considerare come una cartina di tornasole di una nuova condizione esistenziale che tuttavia s’intreccia con lo strumento stesso, che a sua volta diventa ambiente, e ne viene trasformata all’interno di una relazione circolare, dove è difficile distinguere le cause dagli effetti, le opportunità dalle criticità, l’estraneo dal familiare.

Elisabetta Papuzza è psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista, specializzanda in psicoanalisi dell’infanzia e dell’adolescenza presso l’Istituto Nazionale del Training - Società Psicoanalitica Italiana, Corso di Pefezionamento Bambini e Adolescenti.

Questo è un testo originale, interamente scritto e pensato da Elisabetta Papuzza per il sito del Centro di Psicoanalisi Romano; alcune sue parti sono sono state riprese e rielaborate dal libro di A. Pellai ed E. Papuzza, Cyber Generation, Franco Angeli (2019).


 

Bibliografia

ALBERTO PELLAI, ELISABETTA.PAPUZZA, Cyber Generation, Franco Angeli (2019).

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BION WILFRED, Apprendere dall’esperienza, Armando, 1996.

BIONDO DANIELE, Mondo digitale e dolore evolutivo, Rivista di Psicoanalisi 2017/1, Raffaello Cortina Editore, Società Psicoanalitica Italiana, 2017.

CANTELMI TONINO, Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di Internet: la mente tecnoliquida, Edizioni San Paolo, 2013.

FLORIDI LUCIANO, La quarta rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo.

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WINNICOTT DONALD, Gioco e Realtà, Armando, 1974.

WINNICOTT DONALD, Sviluppo Affettivo e ambiente, Armando, 1974.

Convegno “La psicoanalisi all’epoca della rete: identità, soggetto e cura tra illimitate connessioni e ritiri narcisistici”, Milano 14 aprile 2018, Centro Milanese di Psicoanalisi.



[1] Psicoanalisi, identità e Internet, (a cura di) Andrea Manzi, Prefazione di Antonino Ferro, Franco Angeli (2013).

[2] Baby Boomer (1950-1960), Generazione X (nati tra il 1960 -1980), Millennial (1980 – 1990), I (Internet) Gen (1995-2012), da Iperconnessi, Jean Twenge, 2017.

[3] Il termine Internet Addiction Disease (IAD) è stato coniato da Ivan Goldberg, M.D. nel 1995 e sta riscuotendo sempre più attenzione da parte della comunità scientifica, sebbene ancora non compaia a pieno titolo nel DSM – V.

[4] Il termine Internet Addiction Disease (IAD) è stato coniato da Ivan Goldberg, M.D. nel 1995 e ha riscosso una certa attenzione da parte della comunità scientifica, sebbene ancora non compaia a pieno titolo nel DSM – V.

Vedi anche

Incontro con l'Autore, Elisabetta Papuzza presenta Cyber Generation. Sabato 24 aprile 2021 ore 17.00-19,00

De Intinis G., Crescere nel tempo di Internet: le nuove forme comunicative e i giochi virtuali cambiano l’analisi? 2015

 

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