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Infanzia e adolescenza

Guido Berdini, La ricerca di un contenitore capace e flessibile: il rapporto tra genitori e figli nell'adozione. 2022

 

Incontrare il trauma

 

Mario, 5 anni e mezzo, da sei mesi è stato collocato in famiglia. Sta giocando sul letto con sua madre Antonietta. Il bambino le prende il braccio e inizia a tirarla a sé e spingerla via, ritmicamente e sempre più velocemente. Lei è stupita di quanto fa suo figlio, sente dolore al braccio per la sua presa sempre più serrata; prova a dirgli qualcosa, ma lui, come fosse in trance, non le risponde e prosegue a tirarla e a spingerla, tirarla e spingerla, tirarla e spingerla. Fino a che Mario non erompe in un urlo lancinante e la madre, abbracciandolo, sente nell’ urlo il dolore del figlio, ma anche l’acuto risuonare dentro di sé di situazioni della vita in cui si è sentita abbandonata.

Nei termini di Bion, lanciando un urlo il bambino “nomina” la “congiunzione costante” e dà senso a quella sorta di “Fort-Da” del suo gioco, facendo sì che la madre riempia la sua “per-concezione” (era stata informata delle esperienze di abbandono vissute dal figlio e poteva immaginarne la sofferenza) con una “realizzazione” che viene a unire due storie, quella di Mario e la sua, entrambe gravide di un dolore che riesce, con fatica, a sopportare. Antonietta viene inserita nel gioco come oggetto senza valore da lanciare e tirare, e maltrattare. Non si oppone al gioco¹, prende il posto di Mario sperimentando quello che lui a suo tempo ha sperimentato: essere prima preso e poi abbandonato, come un rifiuto di cui disfarsi. Quando mi racconta l’accaduto, a qualche giorno di distanza, appare ancora provata.

J. Grotstein scrive di come “l’infante o la parte infantile della personalità” inducano uno stato corrispettivo nella madre “vulnerabile perché ben disposta” ad accogliere, in modo da farle risperimentare esperienze pregresse che, se elaborate, preludono a una comprensione empatica (Grotstein, 2007). La ricettività di Antonietta dà quindi spessore emotivo alla comunicazione di Mario, a una configurazione centrata su un’”invariante” al tempo stesso astratta (lo schema “Tira e Spingi”), sensoriale ed emotiva (dolore, abbandono, rabbia): un’invariante in cerca di nuovo Autore, di traducibilità, di risignificazione. Sempre utilizzando la terminologia di Bion, quello che si è prodotto è un passaggio dal “senso” (lo schema ludico messo in atto da Mario) al “significato” dell’evento², e il significato può essere solo emotivo e relazionale assieme (Civitarese, 2018).³

Sappiamo che i bambini che vengono indirizzati all’adozione hanno vissuto esperienze traumatiche nelle relazioni con gli oggetti primari, trascuranti, “morti” (nel senso di A. Green), confondenti, intrusivi, violenti, abusanti, e che un trauma successivo è derivato dalla perdita della relazione con gli oggetti stessi, perdita che il bambino tenderà a imputare a se stesso. Scrive al riguardo C. Artoni: “Per le persone adottate le memorie, a volte parzialmente recuperabili, hanno a che fare quasi sempre con la memoria implicita e quindi col mondo sensoriale e sono legate a cambiamenti traumatici di allontanamenti catastrofici dagli oggetti primari, dall’ambiente e dai luoghi di origine” (Artoni Schlesinger, 2006, p.56).

L’ ingresso nella nuova famiglia, se da un lato dà corpo alla speranza del bambino che nuove relazioni si possano stabilire, dall’altro arriva a sancire la perdita del legame con la famiglia d’origine. Sempre C. Artoni scrive di come  la cesura tra la vecchia e la nuova vita venga   a interrompere per il bambino la “continuità dell’essere” di cui ci ha parlato D. Winnicott ⁴. Potremmo aggiungere che molto probabilmente anche durante la vita all’interno del nucleo familiare originario il bambino potrà aver sperimentato interruzioni della continuità dell’essere. In questo caso nella sua mente si potrebbe esser sviluppato un sistema dissociato di memorie  in cui i vissuti dell’esperienza di sé non sono registrati sotto forma di pensieri, sentimenti, sensazioni provenienti dal passato. Di conseguenza, il bambino si può trovare a sperimentare una condizione nella quale gli eventi traumatici verificatisi non sono stati pienamente vissuti, con una sospensione del tempo dove il presente non ha passato e il passato non ha presente.  

Spesso in preda a stati di solitudine e di disperazione, il bambino adottato si potrebbe trovare in mezzo a un guado, con il terrore, davvero “senza nome” (per riprendere la nota formulazione di Bion), di perdere il legame sia con la vecchia sia con la nuova famiglia, di perdere appunto la continuità del suo essere nel mondo e l’integrità della sua mente.

Nel lavoro “La paura del crollo”, D. Winnicott individua alcune “agonie primitive” e le difese del bambino contro di esse (Winnicott, 1974).   Le reazioni difensive che il bambino mette in atto agiscono nel senso di contrastare le linee di frattura, la perdita di coesione del Sé e della psiche-soma, oppure di accelerare la rottura scissionale-dissociativa al fine di evitare l’angoscia e la sofferenza.

Nell’ articolo in cui commenta questo lavoro di Winnicott, T. Ogden scrive che: “Quando è disconnesso dalla madre, il bambino, invece che esperire l’agonia, cortocircuita l’esperienza e la sostituisce con un’organizzazione difensiva psicotica” (Ogden, 2016, p. 59). Ogden sottolinea però come la relazione col genitore possa permettere al bambino di attraversare in modo affatto diverso le situazioni traumatiche. Il ricorso a difese estreme si verifica quando viene a mancare una relazione: “…. quelle sensazioni che sono tollerabili nel contesto del legame madre-bambino diventano agonie primitive quando il bambino è costretto a farne esperienza da solo” (ibidem).

Nella relazione con il genitore adottivo, il bambino può trovare l’opportunità di riattraversare in après-coup   le esperienze traumatiche verificatesi. Abbiamo visto come Mario, sostenuto da una veemente intenzionalità inconscia, sia riuscito a coinvolgere la madre all’interno della sua traiettoria emozionale e a reinserire in una cornice temporale condivisa le passate esperienze non metabolizzate.

Ma passiamo adesso a esaminare alcuni aspetti del modo in cui le coppie giungono all’ adozione.

 

Il ciclo vitale della nuova famiglia e il riciclo delle “scorie” passate

Anna Guerrieri, madre adottiva ed ex-presidente dell’associazione di genitori adottivi “Genitori si Diventa”, individua nitidamente alcune caratteristiche della situazione di partenza delle famiglie adottive:”…. sono famiglie costituite per decisione giuridica, dopo valutazione da parte dei Servizi e del Tribunale, dopo lunghe attese e percorsi impegnativi emotivamente e fisicamente. Sono famiglie pubbliche, immerse nelle necessità sociali (come quelle della scuola) quando la costruzione delle appartenenze reciproche è appena iniziata. Sono famiglie natein assenza di una dimensione fisica e sessuale nell’attesa e nell’incontro col figlio; nate da un incontro di biografiee impegnate nel lavoro di accoglienza delle storie reciproche” (Guerrieri, 2021).

Ricorderei inoltre che gran parte delle coppie proviene da periodi di utilizzo di metodiche di PMA (procreazione medicalmente assistita) senza esito. Per entrambi i partner alla condizione di infertilità si aggiungono così le esperienze derivate dal sottoporsi a tali pratiche; questi eventi, sommandosi, possono rappresentare un fattore traumatico che richiama a sé, in après-coup, i loci minoris resistentiae della vita precedente⁵.

Considerato il carico di esperienze dolorose che molti genitori adottivi portano con sé quando intraprendono un’adozione, verrebbe da chiedersi in quale modo, in prospettiva, potranno occuparsi di un bambino che presenta vissuti traumatici.

La difficoltà insita nell’incontro adottivo è innegabile. La storia del bambino, con i suoi strappi, i suoi segreti, entra in risonanza con quella dei genitori e la frequenza delle onde minaccia di far saltare il contenitore familiare che si sta costruendo. Non stupisce che troppo spesso si assista a un tentativo di assimilare e “normalizzare” il bambino. Questo si traduce fattualmente in  battesimi, comunioni, check-up sanitari, inserimenti scolastici prematuri, presentazioni a innumerevoli parenti o chiusura a riccio del nucleo familiare. Atteggiamenti in una certa misura comprensibili, ma sottesi in generale dalla fretta e da un’ansia di controllo che inevitabilmente si veicola al bambino. Di frequente, poi, nell’adozione nazionale, le visite alla casa famiglia dove il bambino ha vissuto si diradano, come si diradano i contatti con i fratelli nel caso di inserimenti multifamiliari. Per non dire del fatto che alcune coppie optano per l’adozione internazionale per frapporre una distanza geografica rispetto alla famiglia d’origine.

Nel lavoro con le coppie, si registra frequentemente la difficoltà a rapportarsi con la storia passata del bambino. Questa difficoltà è immediatamente percepita dallo stesso, che si può adeguare prontamente smettendo di fare alcun riferimento alla vita precedente.

Peraltro, le storie delle origini con cui i genitori adottivi si confrontano sono inevitabilmente lacunose, raccontate loro in maniera sommaria, sono spesso impressionanti se non raccapriccianti: contenuti questi che cimentano le capacità recettive delle coppie. La storia pregressa può inoltre suscitare nei genitori un doloroso senso di vuoto, in quanto ripropone la parte di vita del bambino non vissuta con lui e in quanto richiama i vissuti relativi alla mancata genitorialità biologica.

Se da un lato riannodare i fili della storia del bambino è un compito che i genitori si debbono assumere al fine di aiutarlo a metabolizzare le “scorie” passate, dall’altro questo compito può essere dagli stessi sperimentato come confronto con una realtà incombente, tale da indurre vissuti depressivi e persecutori. La famiglia originaria del bambino è spesso presente in controluce nelle fantasie dei genitori adottivi come sporca, violenta, promiscua, iperprolifica e pronta a riprendersi il bambino che le è stato tolto: pensiamo ad esempio all’immaginario riguardo alle famiglie Rom. Fatti salvi gli aspetti di realtà, il timore spesso francamente esagerato che la famiglia originaria venga a riprendersi il bambino è da collegarsi alla fantasia corrispettiva di averlo sottratto: una legge del taglione, un senso di colpa persecutorio o, ritengo, una vergogna persecutoria. In qualche caso in cui si creino le condizioni per accedere a un piano fantasmatico più profondo, si può rintracciare in uno o in entrambi i genitori adottivi la fantasia di una coppia genitoriale interna che non autorizza l’accesso alla dimensione procreativa e che vendicativamente si riprende il bambino che la coppia, trasgredendo una sorta di interdetto, ha accolto con sé.

Adelia, 6 anni, proviene da un contesto familiare assai degradato, unica figlia di genitori con rilevanti problematiche di vario genere. Sono elementi che hanno fin dall’inizio preoccupato i suoi genitori adottivi. Finalmente viene dichiarata l’adozione definitiva. Adelia non vedeva l’ora di avere il cognome paterno, che per altro ha già usato fin dall’ingresso a scuola. Un pomeriggio sta giocando a disegnare con un’amichetta, termina un disegno e lo firma con il suo vecchio cognome, la madre se ne avvede e le fa notare che adesso lei si chiama in un altro modo. Adelia si ammutolisce e smette di giocare; Giulia, la madre, le chiede più volte che cosa abbia, ma la bambina non risponde. Giorni dopo, Giulia mi racconta da subito quanto accaduto; mi colpisce come individui l’evento come significativo, ma fatichi a sviluppare un pensiero sull’ evento. ⁶ Le costerebbe pena pensare che quanto ha detto ad Adelia ha inibito la bambina, dandole il segnale che sopra il suo passato è stata messa una pietra. Rendersi gradualmente consapevole, nel prosieguo del colloquio, della sua implicazione emotiva, del rapporto conflittuale con la famiglia d’origine, la farà sentire in colpa, poco adeguata, e farà riaprire la dolorosa vicenda della mancata genitorialità. Però, diventerà per lei una nuova possibilità di sentirsi ancor “più” madre di sua figlia. Potrà ritornare da Adelia con un atteggiamento più disponibile ad affrontarne la storia.

Il significato degli accadimenti passati, non può esser “ricostruito” ma deve essere piuttosto “costruito” nella relazione tra genitori adottivi e bambino, al fine di cominciare a tessere una rete di significati e di memorie condivise. Scrive L. Luzzatto in un lavoro sulla ricerca delle radici familiari: “La memoria in realtà è costruttiva, ogni volta, sulla base del presente ricostruisce gli episodi del passato. Una delle cose che figli adottivi e genitori adottivi possono fare insieme, quando non si hanno notizie per raccontare una storia reale, è costruire storie possibili o verosimili, creare insieme qualcosa che serva al bambino per costruire un’identità possibile man mano che cresce. Questa storia può essere cambiata, costruita, riproposta, reinventata a seconda dei bisogni che ha il bambino crescendo, o che ha la famiglia, per dialogare con il bambino che cresce” (Luzzatto, 2011).

Anche se non esatto, o talora persino improbabile, come sono certi racconti fatti dai bambini, quello che viene immaginato insieme può costituire il precursore di un contenitore che favorisca la crescita mentale.

Luigi, adottato a 10 anni, è cresciuto in un campo di baracche. In occasione della festa di Halloween si è travestito; vuole andare in giro con gli amichetti a bussare alle porte dicendo: “Dolcetto o scherzetto?”. Pamela, sua madre, lo trova in ginocchio per il corridoio, le mani giunte: “Fate la carità, bella signora!”. A Pamela si stringe il cuore, le viene in mente il girovagare di Luigi per il campo, in cerca di soldi o di qualcosa da mangiare, compito a cui la fredda e aggressiva madre originaria lo aveva destinato (esentando invece le sorelle, con cui si dimostrava affettuosa). Pamela lo abbraccia e si può far carico dell’emozione che Luigi le trasmette. Da quel giorno il dialogo tra di loro va incontro a un’accelerazione. Pamela inizia a parlare a Luigi di quel che sa del suo passato. Luigi ne è contento, si coinvolge nella storia, racconta a sua volta con dovizia di particolari. Non importa quanto sia corrispondente alla realtà quanto lui riferisce; vere o presunte che siano, le cose dette acquisiscono un significato nuovo. Anche in questo caso, la conoscenza che Pamela aveva della storia passata può diventare un presente emotivamente condiviso, con un passaggio dal senso al significato.

Frammenti che possono diventare fra-menti.

 

Contenere ed Esser Contenuto

Talvolta penso che ci vorrebbe una perifrastica progressiva per render conto in modo più efficace del rapporto tra contenente e contenuto (concedendosi una licenza grammaticale, una sorta di “star essendo contenente” e “star essendo contenuto”). Il rapporto contenitore-contenuto si declina in un incessante gioco di allineamenti e disallineamenti emotivi e relazionali: un succedersi di sintonizzazioni che permettono il contenimento di stati emotivi e il sopraggiungere di situazioni di crisi che scompaginano gli equilibri raggiunti e richiedono lo strutturarsi di nuovi contenitori. Se le cose procedono nel senso di una crescita psicologica, di sintonizzazione in sintonizzazione il contenitore si sviluppa e le crisi, una volta superate, non si ripetono più nello stesso modo.

Immagino un processo a due sensi dove “contenitore” e “contenuto” si possano anche invertire le parti. Fatta salva, naturalmente, l’asimmetria di posizione tra genitore e figlio, penso che anche il bambino, nel gioco degli scambi e spinto da una intenzionalità più o meno consapevole, contenga la madre, in primo luogo regalandole la desiderata identità di genitore e poi rassicurandola attraverso i suoi comportamenti: sorridendo, mangiando, dormendo, andando a scuola, al catechismo, dimostrandosi affettuoso coi nonni….; questo è particolarmente significativo perché in generale la coppia adottiva sperimenta una situazione di precarietà, come a non sentirsi sufficientemente legittimata nella sua posizione genitoriale (e se non sperimenta incertezza, a volte, è sulla base di un atteggiamento reattivo, segnale di un’insicurezza ancora maggiore).

Le reazioni del bambino al genitore adottivo possono non solo farlo sentire un cattivo genitore, ma addirittura possono disconfermarlo nella sua identità di genitore.

Combinando i due termini, contenitore e contenuto, potremmo dire che il bambino può porsi come contenuto accomodante e disponibile a farsi contenere, contenendo in questo modo le ansie dei genitori, oppure, al contrario, può porsi come contenuto indigeribile rifiutandosi di contenere le ansie suddette.

Simone, 5 anni, è arrivato in famiglia a un anno. È un bel bambino, intelligente e affettuoso. Ma un giorno si arrabbia di brutto per un divieto datogli dalla madre, e prorompe nel classico “Non mi puoi comandare, che ti credi, tu non sei mia madre!!”. Aurora, la madre, ha perso la propria madre in tenerissima età, ed è stata tirata su da nonni e zii. Sta cercando con fatica di creare con Simone quel rapporto materno che non ha mai conosciuto. “L’impatto su di me è stato molto duro –racconta- non lo avevo mai visto così arrabbiato e determinato. Non so pescando in quale luogo dentro di me, gli ho risposto: “Io non sarò tua madre, se vuoi, ma tu sei mio figlio!”. Simone si è tranquillizzato immediatamente e la frase “Non sei mia madre” non si è più sentita nella loro casa. Senza entrare in scontro sul fatto di essere o non esser la “vera” madre (questione nella quale, purtroppo, altri genitori adottivi si impelagano), Aurora riformula la frase del figlio e conferma a Simone la tenuta del loro rapporto e la disponibilità a contenere i suoi stati mentali. Si è disposta a perdere consistenza, a decentralizzarsi dalla posizione di madre, ma, obliquamente⁷, riesce a comunicare a Simone il suo esserci. Si pone come un contenitore lasco, pur se vulnerabile (se Simone, in preda a un’emozione ancora più violenta le avesse detto “Cosa dici? Io non sono tuo figlio!”?)

L’emergere di situazioni di crisi sul versante dei figli si accompagna, oltre che a loro fasi di crescita, a difficoltà transitorie o durature nel ciclo di vita dei genitori adottivi (malattie dei nonni, difficoltà lavorative, problemi di coppia) che si traducono in una minor capacità contenitiva degli stessi. A meno che non si ritiri in una identità compiacente (un rischio da tenere sempre presente⁸), il bambino tenderà a cimentare il funzionamento del contenitore genitoriale per saggiarne la tenuta, animato comunque, anche nei peggiori momenti di crisi, dalla speranza che esso sia un contenitore “capace” (nel senso di capiente, oltre che di abile), resistente, flessibile.

In misura maggiore che nelle famiglie biologiche, nelle famiglie adottive, specie in adolescenza, sono presenti situazioni conflittuali, talvolta esplosive, che possono anche concludersi con l’espulsione del bambino dal nucleo. Situazioni sottese in maniera preponderante da sentimenti di rabbia, colpa, angoscia, persecuzione. Spesso tra i membri della famiglia si sviluppano dinamiche collusive così forti da indurre una sorta di cecità reciproca, ed è necessario un lavoro psicoterapeutico perché si possa ristabilire un atteggiamento di conoscenza. Per capire emotivamente l’altro, e stabilire un legame K (knowledge), scrive Bion, ci vuole anche L (love), un legame di amore. Ma come fare se l’altro ci fa soffrire, ci colpisce dove siamo vulnerabili, sicché la pena rimbomba dentro di noi, si diffonde lungo linee di frattura profonde e dolenti, linee di frattura che magari nel corso della vita erano state ricucite, si erano rimarginate, eppure adesso riappaiono?

Mentre suo figlio di 7 anni ha l’ennesima crisi pantoclastica, Annalisa prova sensazioni di angoscia così forti da farle rivivere l’esperienza del suo secondo aborto che, anni prima, aveva concluso una gravidanza (dopo PMA) di alcuni mesi. Il contenitore-utero mentale si sfascia e non contiene più, come l’utero fisico. Ma ciò che non permette ad Annalisa di contenere non è solo l’impeto di suo figlio, ma anche il vissuto di angoscia, rabbia, colpa, che la pervade. Le due vicende di maternità della sua vita si ripetono in modo isomorfico, ma il collegamento che le sue emozioni stabiliscono permette di riparlarne, di riprendere la narrazione interrotta di due storie che si sono intrecciate, la sua e quella di suo figlio. Nel tempo, le crisi del figlio si ridurranno per frequenza e intensità, col contributo di un lavoro psicoterapeutico.

Scrive D. Winnicott di una sua paziente: “L’ambiente della sua infanzia non sembrava capace di permetterle di essere senza forma ma doveva, così come lei lo aveva percepito, modellarla e tagliarla nelle fogge concepite dagli altri” (Winnicott, 1971, p. 66). Nessuno aveva capito che lei doveva incominciare dall’informe. Il lavoro terapeutico con Winnicott permette alla paziente di trovare nuove forme, sue forme.

Ecco, ritengo che l’esigenza profonda del bambino adottato sia di ricominciare dall’informe, con un’auspicabile regressione al servizio dell’Io. Esistere in modo informe può significare per il bambino sperimentare fasi di non organizzazione, di confusione, può significare mostrare atteggiamenti contraddittori e intense emozioni ambivalenti, che si possono tradurre in una gamma di comportamenti, anche oppositivi e aggressivi, difficili da tollerare. Riconoscere al bambino questa necessità basilare può però portarlo (non necessariamente in tempi biblici) a liberare nuove possibilità di esistere nelle declinazioni della propria personalità, e magari, a tempo debito, di sperimentare persino il piacere di identificarsi con i suoi genitori.

Permettere di essere fluidi ai propri bambini implica per i genitori diventare anche se stessi meno definiti. Sospendere, mettere in discussione propri elementi identitari, modi d’essere, stili cognitivi, abitudini consolidate. Diventare più vulnerabili, e più recettivi.

 

 

Note

1)      Se Antonietta si fosse sottratta, si fosse rifiutata di andare avanti, avesse rimproverato Mario, l’esito della sequenza relazionale sarebbe stato tutt’ affatto diverso.

2)      Per esempio, descrivendo il funzionamento della Griglia, Bion scrive che si può pensare che tutte le categorie della griglia abbiano un “senso” ma non un “significato” fino a che l’esperienza non le investa di esso (Bion, 1963).

3)      Scrive G. Civitarese, dopo aver ricordato come per Bion l’emozione sia inseparabile dalla relazione: “Emozione qui è un sinonimo di significato (anche se di ordine estetico, semiotico, corporeo, preverbale: una prima sintesi intersoggettiva di molteplici elementi proto-emotivi e proto-sensoriali) e significato è un sinonimo di relazione”. Ne derivano schemi emotivi e procedurali che iniziano a ordinare l’esperienza che il bambino fa del mondo (Civitarese, 2018).

4)      Per esempio, in “Gioco e realtà”: “Il trauma implica che il bambino ha vissuto una frattura nella continuità di vita, cosicché le primitive difese ora divengono organizzate per difendere da un ripetersi di “impensabile angoscia” o da un ritorno dell’acuto stato confusionale che è proprio della disintegrazione della nascente struttura dell’Io” (Winnicott, 1971, p.159).

5)      Tra i contributi psicoanalitici in materia di procreazione medicalmente assistita, cito i due articoli di   M. Vigneri (2011) sulla Rivista di Psicoanalisi e il lavoro del gruppo sulla PMA nato in seno all’AIPPI (Bruno et al., 2014).

6)      Utilizzando la Griglia di Bion, si tratterebbe di un processo di Notazione che, sull’asse degli Usi, non procede verso l’Attenzione e l’Indagine.

7)      Traggo da una relazione di G. Civitarese (2019) il riferimento a una poesia di E. Dickinson: “Tell all the truth but tell it slant”. “Slant” si può tradurre con “obliquo, sbieco”. Una verità troppo diretta non è sostenibile, la verità deve abbagliare gradualmente.

8)      Molti bambini adottati possono vivere paure di abbandono tali da venire a sviluppare un falso sé ipertrofico che viene a soffocare la loro spontaneità e vitalità. Come ricorda Luzzatto il “fallimento” adottivo non è solo o tanto l’espulsione del minore dalla famiglia, quanto piuttosto il permanere all’ interno di essa strutturando un’identità compiacente. La paura di essere abbandonati può essere presente anche nei genitori e questi vissuti, se non affrontati ed elaborati, rischiano di condizionare pesantemente la vita familiare. Un esito possibile è quello di un nucleo nel quale le emozioni più profonde non trovano espressione. Traslandolo dal contesto in cui ne parla e fatte le debite proporzioni, trovo utile riprendere quanto scrive A. Ferro che fa un elenco di meccanismi di difesa contro ansie e angosce primitive: individua alcune modalità di “tamponamento e gestione senza evacuazione massiccia” come la “laterizzazione” (“ovvero quella modalità con la quale il campo viene addormentato, sedato, ad esempio con la noia. È come se in un circo in cui mancassero i domatori, gli animali, specie quelli feroci, venissero addormentati”) e la “bonsaizzazione” [“consiste nel miniaturizzare le emozioni, trasformandole in miniemozioni senza forza (…) si creano così mondi di microemozioni che prendono narrazione in storie calmierate e spente in cui tutto sembra dolcificato senza conflittualità e passionalità alcuna”] (Ferro,2016, p.21). A volte, poi, accade che questo clima dominato dall’inibizione venga meno e si inneschino situazioni conflittuali tanto più intense quanto meno previste.

 

 

Il presente lavoro nasce dall’esperienza dello scrivente in seno al Gruppo Integrato di Lavoro Adozioni (GILA) della ASL Roma 6, gruppo costituito da psicologi e assistenti sociali della ASL e dei Comuni del Territorio del quale svolge la funzione di coordinatore.

In maniera più libera rispetto alla fase preadottiva (centrata sul compito di valutazione), dopo l’abbinamento della coppia al bambino, gli operatori possono svolgere una funzione di “accompagnamento” del nucleo familiare neocostituito, agendo per facilitare le dinamiche relazionali e cercando di individuare situazioni di possibile “crisi” per poter intervenire sulle difficoltà.

 

 

Bibliografia

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Civitarese G. (2019). Dì tutta la verità ma dilla sbieca: l’interpretazione nella teoria del campo analitico. Relazione letta in una giornata di studio presso l’Associazione Psicoanalitica Abruzzese, Chieti, 19 ottobre 2019.

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