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Report di Valentina Li Volsi sul Convegno “Il Sè e l’altro. Sviluppo, Patogenesi, Azione terapeutica (Roma, 18 gennaio 2020)

I parte – interazioni Sè- altro: codici somatici e linguistici delle emozioni      

 

La prima parte della giornata scientifica “Interazioni Sè – altro” viene introdotta dal dottor Moccia, che pone l’accento sul concetto di corrispondenza (intercorporea, interpsichica, interdisciplinare) che ben sintetizza il campo di ricerca della giornata. Corrispondenza fra madre e bambino nella co-costruzione di una intersoggettività primaria (ricerche evolutive), corrispondenza fra corpi/cervelli attraverso consonanze intenzionali (ricerche neuroscientifiche – si vedano i sistemi Mirror). Su questa linea la filosofia contemporanea riflette sulla natura dell’uomo: si configura una mente incarnata nel corpo e nel suo funzionamento senso-motorio, mente che è sempre connessa ad altri ed in un continuo intreccio con l’ambiente. Le ricerche in tali campi limitrofi extra–clinici in parte concordano con alcuni concetti della Psicoanalisi, ma più in generale – sottolinea Moccia – rappresentano una spinta ad integrare ‘il nuovo’ ed anche a tenere viva la nostra ricerca concettuale, che è continuamente stimolata da nuove popolazioni di pazienti.

Il graduale riconoscimento dell’altro come soggetto indipendente non avviene soltanto attraverso processi di mentalizzazione, ma passa anche ad un livello più diretto e pre-riflessivo, mediato dal corpo. Sistemi multipli di memorie relazionali implicite ed esplicite sembrano in tal senso fondativi dell’esperienza di Sè (sé corporeo e sé psichico). Moccia pone una serie di quesiti che questa giornata potrebbe suggerire sul Sè in relazione con l’altro sia dal punto di vista dello sviluppo sano che dalla prospettiva, invece, della patogenesi e poi anche della cura e della azione terapeutica.        

 

 

1. V. Gallese

Il prof. Gallese apre i lavori con una presentazione su ‘Emozioni tra esperienza, corpo e cervello’. In ambito neuroscientifico le emozioni sono state rivalutate e considerate molto importanti sia per la comprensione che il soggetto ha del mondo, sia per l’organizzazione delle relazioni inter-individuali. Già Darwin sottolineava l’importanza dell’espressione corporea dell’emozione, che consentirebbe una rapida comunicazione intersoggettiva. Vari studi hanno sottolineato la forte valenza comunicativa dell’emozione – con Dumuchel potremmo dire che “essere in un determinato stato emotivo è una proprietà relazionale dell’individuo all’interno di un contesto sociale”. Viene sottolineato dunque come noi non ci rapportiamo solo a livello percettivo all’emozione altrui, ma in qualche modo tendiamo a far nostro quel contenuto emotivo “mimando” (inconsapevolmente) l’espressione altrui. Tali meccanismi di mimica facciale sembrano essere collegati all’empatia.

Gallese illustra una ricerca sull’emozione base del disgusto: pazienti che (per un danno cerebrale) perdono la capacità di provare disgusto, analogamente non sono più capaci di riconoscere tale emozione in qualcun altro. Si suppone che le due funzioni (provare disgusto/riconoscere il disgusto) abbiano una comune base neurale. Ancora più nel dettaglio, è stato possibile osservare l’attivazione di una stessa area (l’insula), ma con una differenza fra vari circuiti cerebrali in base alle diverse condizioni di provare disgusto, osservarlo in un altro, e leggere una narrazione su un personaggio che prova tale emozione. Gallese sottolinea molto che l’attivazione di un particolare stato del nostro cervello è necessaria ma non sufficiente per dare conto della nostra esperienza.        

Particolarmente interessante anche uno studio dell’insula su modelli animali (macachi): la stimolazione dell’insula produce stati motori disposizionali specifici, ma dipendenti dal contesto – nell’esperimento citato, la stessa identica stimolazione ha un effetto del tutto diverso sull’animale se esso è in una condizione di stress (è guardato negli occhi dall’osservatore) o se l’osservatore dirige lo sguardo altrove. Risulta quindi centrale la richiesta dell’ambiente/dell’altro (ad esempio aggressivo/non aggressivo).

Le stesse aree dell’insula risultano implicate come abbiamo visto nel disgusto, ma anche nell’appeasement affiliativo (studio sui macachi appena descritto – la scimmia da aggressiva diviene remissiva ed affiliativa nei confronti dell’osservatore) – vale a dire due condizioni molto diverse. Ciò sembra essere un esempio di come non esista uno specifico corredo di risposte autonomico-enterocettive per ognuna delle sei emozioni di base.

Gallese illustra poi come la embodied simulation – dunque la disposizione empatica verso l’altro – dà un accesso diretto seppur parziale allo stato emotivo dell’altro, che noi non dobbiamo necessariamente condividere… in questo senso l’empatia va distinta dall’esperienza del contagio emozionale.

Il focus si concentra ancora sulla simulazione incarnata, che rappresenta un importante meccanismo per ‘dar conto dello stato emotivo degli altri’ - e presenta grandi variabilità individuali.

Viene presentata una ricerca sull’emozione della rabbia: i soggetti con un ‘blocco’ della dopamina (tramite un antagonista) non riescono a riconoscere la rabbia, ma continuano a riconoscere le altre emozioni – come nel caso del disgusto, anche qui sembra esservi una correlazione fra la funzione di provare l’emozione (la rabbia correla con alti livelli di dopamina) e la funzione di riconoscere quella stessa emozione.

Viene poi sottolineato il fatto che azioni, emozioni e sensazioni, sono strettamente collegate durante le situazioni sociali quotidiane. Su questa linea, si è visto come osservare l’esecuzione di una azione messa in atto con rabbia tenda ad attivare molto i circuiti mirror (giro frontale inferiore, corteccia pre-motoria, lobo parietale). L’integrazione di informazioni affettive e correlate all’azione avviene a livello dei circuiti mirror/motori. Essi dunque sembrerebbero coinvolti nella codifica della intenzione emotiva di una azione osservata (Gallese sottolinea come questo sia uno dei risultati nuovi delle ultime ricerche).

Citando le forme di vitalità di Daniel Norman Stern - “una gestalt di movimento, forza, flusso temporale e intenzionalità”, Gallese sottolinea poi come i movimenti costituiscano delle prosodie emozionali. La prosodia emotiva dell’azione è fondamentale, ci dà molte informazioni su come muoverci. Elemento centrale che risulta dalla ricerca è che non possiamo separare l’azione da emozione e sensazione. Un esempio è l’esperimento sulla risata/il provare gioia, nel quale nei pazienti viene stimolata la corteccia cingolata anteriore. Non viene indotta solo la risata meccanica (la parte motoria) ma il vissuto, l’emozione dell’allegria. La stessa area cerebrale viene attivata se osserviamo qualcuno ridere. Anche in tal caso Gallese ipotizza vi siano dei neuroni con caratteristiche di rispecchiamento.

Gallese sottolinea – in conclusione – come l’esperienza che facciamo del nostro corpo sia co-determinata dalle certezze implicite che tendiamo ad avere – simultaneamente – circa la soggettività dell’altro.

Tali meccanismi di comprensione, rispecchiamento ed empatia, sono plastici e dinamici. Il trauma ha su di essi un forte impatto. L’esperienza delle nostre emozioni e delle emozioni altrui è connessa alla condivisione – in parte mimetica – delle prassi performative ed espressive che definiscono i vari contenuti emotivi. In questo senso, non è più possibile affermare che provare emozioni sia una mera attività sensoriale indipendente dall’espressione motoria dell’emozione. Autori come Dewey e Mead hanno criticato la dicotomia esperienza/espressione dell’emozione, ed hanno suggerito che il comportamento connesso a un’emozione specifica faccia parte dell’emozione stessa. L’emozione sembra quindi essere data proprio da una corrispondenza sensori-motoria. In tal senso, si presuppone un Sè/soggetto che fin dalle origini abita uno spazio pre-individuale e noi-centrico, e che evolve e si struttura interiorizzando specifici schemi affettivi che derivano dalle relazioni interpersonali.

Per un approfondimento delle ricerche e risultati presentati dal Prof. Gallese è possibile presentare le slides presentate in questa giornata cliccando QUI

 

2. J. Delafield-Butt

Il prof. Delafield - Butt presenta un lavoro dal titolo “The Development of Meaning: From simple intentions to shared narratives of feeling”. L’Autore parte dal presupposto che noi abbiamo scopi personali per realizzare una azione… Come riusciamo a condividere la conoscenza corporea quando vogliamo raggiungere una meta, un obiettivo? Ed ancora, come riusciamo a capire che intenzione ha l’altra persona?

Viene sottolineato che “noi siamo organizzati dai nostri scopi e siamo all’interno di un’organizzazione interpersonale degli scopi”. Lo scopo ha una funzione organizzatrice ed orienta i comportamenti del soggetto… Una meta comune consente di organizzare i comportamenti in modo coerente – ciò avviene anche all’interno dell’organismo/corpo. Quesito fondamentale è come si organizza il bambino per conseguire mete comportamentali?

Un elemento importante del coordinamento dei movimenti individuali ma anche inter-personali sta nel fatto che noi siamo in grado di prospettarci delle mete. Vi è quindi una progettazione dei nostri movimenti ma anche comprensione del movimento dell’altro. Sembra esservi secondo Delafield-Butt una qualità di organizzazione prospettica e dunque anche una intenzionalità, già molto precocemente. Ad un primo livello di organizzazione troviamo una intenzionalità primaria senso-motoria che – afferma l’Autore – è pre-riflessiva e pre-concettuale. Il bambino è capace di pianificazione motoria di obiettivi molto semplici e circostanziali. Tale capacità di organizzazione prospettica del movimento sembra essere presente già all’interno dell’utero[1] (si vedano anche gli studi sui gemelli alla 14 settimana di gestazione). Tali competenze precoci (organizzazione prospettica del movimento) sembrerebbero mediate a livello del tronco encefalico.

Il tronco encefalico controlla l’attività autonomica e quella muscolo-scheletrica – è “una base di esperienza fondamentale dell’essere noi stessi” – che potremmo definire anche come coscienza primaria. Delafield indica poi come da progetti molto elementari il soggetto, con lo sviluppo, passi via via a schemi progettuali molto più complessi ed estesi nel tempo. Nella interazione con l’altro, il caregiver può aiutare a migliorare il coordinamento di tali gesti intenzionali (un esempio è il neonato al seno), con soddisfazione di entrambi.

Vi è una gioia nella condivisione e nel mutuo-coordinamento e ciò sembra avvenire azione per azione – da azioni più elementari ad azioni via via più complesse. Tali frammenti di esperienza si accumulano e – afferma Delafield: “così diveniamo coscienti di noi stessi rispetto al mondo”. L’autore su questa linea afferma che dunque vi è una natura cosciente anche nelle esperienze primarie del bambino – nel senso di una “coscienza primaria di natura tronco-encefalica” (come appena illustrato). Fra la madre ed il neonato si va costruendo “una storia” (che secondo l’Autore sembra seguire un andamento di arousal sempre maggiore, fino a raggiungere un picco, per poi arrivare ad una decrescita e alla disattivazione). Fra madre e bambino si stabilisce una sorta di dialogo musicale, una condivisione del ritmo, una forma di corrispondenza fatta di espressioni facciali e tono affettivo.

Secondo Delafield i progetti intenzionali e le organizzazioni prospettiche delle nostre azioni con mete e scopi hanno sempre a che vedere con il nostro Sé. Si potrebbe dire che esiste un core-self, un tratto comune che ci accompagna per tutta la vita… nelle azioni semplici come in quelle più complesse.

 

 

3. M. Di Francesco

Il prof. Di Francesco presenta un lavoro su “La natura elusiva dell’Io: una ‘terapia’ filosofica”. Dopo aver passato in rassegna alcuni filosofi classici che si sono occupati del problema dell’identità e del soggetto, Di Francesco propone una interessante prospettiva che mette al centro una identità narrativa - possedere un’identità narrativapresuppone il possesso di una autocoscienza psicologica introspettiva, la quale a sua volta presuppone una autocoscienza corporea. Il sé consisterebbe secondo questa teoria non tanto nella narrativa in sé, ma nell’intero processoche, iniziando con l’esperienza corporea, condurrebbe all’abilità di produrre narrative. Il self va quindi identificato con un selfing process. I meccanismi di tale processo vanno oltre la dimensione cognitiva e coinvolgono la genesi di una autocoscienza corporea, l’affettività, la capacità di mentalizzazione (prima affettiva e poi cognitiva) le strutture di personalità, il linguaggio, il contesto socioculturale. Tutto ciò mette capo a un processo di auto-rappresentazione che dura per tutta la vita, e il cui scopo fondamentale è la difesa del soggetto autocosciente da una vera e propria fragilità ontologica. Secondo Di Francesco “proprio perché non esiste un Ego cartesiano, e perché la costruzione della propria identità personale è affidata a tanti fattori e a tanti livelli di interazione con il mondo e con i nostri simili, il soggetto umano soffre di una fragilità di fondo – a cui cerca di trarre rimedio fin dalle prime interazioni con il mondo”. La costruzione e ricostruzione incessante dell’identità narrativa ha quindi un ruolo fondamentale nel garantire l’equilibrio psichico e la salute mentale.

Di Francesco afferma che le azioni verso l’esterno/l’ambiente e verso l’interno hanno effetti sulla regolazione del processo di selfing, e soprattutto contribuiscono in modo essenziale alla costruzione di una identità personale ben definita e accettata come ‘valida’ e ‘buona’, e quindi all’equilibrio psichico. In tale prospettiva, potremmo dire che se il selfing process non funziona a dovere, il benessere psicologico e la salute mentale rischiano di andare persi. L’identità prodotta dal processo di selfing non è contingente o evanescente, ma (…) incarna un centro di gravità narrativo causalmente efficace. Di Francesco specifica che i narrativisti anti-realisti possono negare un ruolo causale al self autobiografico perché non prendono in considerazione l’ingrediente psicodinamico e la connessa teleologia del processo di selfing, sottovalutandone l’importanza. Gli anti-realisti si concentrano nella critica all’ego sostanzialista cartesiano, la cui esistenza non trova corrispondenze a livello neuronale ma – secondo l’Autore – questa critica non tocca un approccio (quasi)naturalista, bottom-up e relazionale del self (che è quello qui presentato).

Di Francesco prosegue approfondendo il processo di selfing (dialettica < I-ing/Me>), ed afferma che il Me non deve essere considerato come distaccato dal processo che lo genera (I-Ing). Viene anche osservato come la retroazione causale – che si esercita per un intero arco di vita - del Me sull’I rende difficile districare, nel corso degli anni, le due facce dell’io. In questo senso viene ipotizzato un Sè – qui chiamato “Me” - che diviene sempre più ‘personale’, retroagendo con il processo di selfing, così che il ruolo della componente personale nel selfing diviene sempre maggiore. In altre parole, si potrebbe dire che “quando l’organismo raggiunge lo stadio dell’identità narrativa il processo di selfing diviene consapevole di se stesso (acquisisce la capacità di intrattenere auto-rappresentazioni). E la distinzione tra l’I e il Me in qualche modo sfuma”.

Il prof. Di Francesco illustra infine, nelle sue considerazioni conclusive, come tale teoria si ponga in antitesi con gli anti-realisti[2].

 

 

Tavola rotonda dottori A. Falci – C. Riva Crugnola – G. Mattana

Il dottor Falci – commentando la presentazione del Prof. Gallese – sottolinea come gli studi e le scoperte sui sistemi mirror e sulla embodied simulation pongano una serie di questioni significative per la Psicoanalisi ed i suoi paradigmi teorici. Innanzitutto, l’importanza della sintonizzazione dei reciproci stati emotivi nella relazione analitica (e non solo) rende necessario un ripensamento ed una riflessione sullo statuto delle emozioni in Psicoanalisi, oggi non più riducibili allo schema piacere/dispiacere, ma da considerarsi come flussi emozionali variegati e complessi, che hanno un substrato neurobiologico e che hanno funzione adattiva ed evoluzionistica. Un ulteriore vertice di cambiamento paradigmatico – propone Falci – consiste in una rilettura della senso-motricità, che è centrale ed è considerata parte stessa dell’emozione nelle ricerche di Gallese (posizione ben diversa dalla motricità con funzione di “scarica” della metapsicologia freudiana). Un altro punto che viene sottolineato riguarda il costrutto di rappresentazione ed una sua disambiguazione: “di quale rappresentazione si parla per le memorie della consonanza mirror?”… La  rappresentazione sub-simbolica, iconica ed analogica[3] che nasce con i processi di simulazione incarnata è qualcosa di diverso dalla rappresentazione ideativa, astratta e simbolica della teoria freudiana. Le riflessioni su cosa si intenda per rappresentazionale versus non-rappresentazionale aprirebbero ulteriori quesiti sulla natura dell’inconscio, che non è possibile sviluppare qui. In linea con i risultati di Gallese il dottor Falci sottolinea infine la natura sociale ed intersoggettiva della mente ed anche una concezione fortemente monistica della unità corpomente – questi presupposti naturalmente hanno una ricaduta anche sulla concezione della psicopatologia.      

 

 

La Prof. Riva Crugnola, collegandosi con il lavoro di Delafield-Butt, partendo dal modello di Tronick sulla Mutua regolazione, condivide una serie di ricerche sulla relazione madre-bambino, evidenziando ad esempio come ansia e depressione materna (nel periodo perinatale) siano predittive di una minore regolazione diadica, e sottolineando anche come esperienze avverse nell’infanzia materna abbiano un forte impatto (negativo) sulla futura relazione con il bambino. Viene poi messa in luce l’importanza della riflessività (capacità di mentalizzazione e mind-mindedness) del genitore nelle prime interazioni con il bambino, come predittore di sicurezza dell’attaccamento, sensibilità e contingenza verso il figlio nei primi anni di vita. Su questa linea vengono anche presentati dei dati che evidenziano come la funzione della mind-mindedness appaia ridotta in madri adolescenti che – viene proposto – necessiterebbero di interventi di prevenzione e sostegno.    

Il dottor Mattana infine – collegandosi con le proposte del prof. Di Francesco, sottolinea come il suo approccio che è a distanza sia dal dualismo (cervello-mente) che dal riduzionismo, possa essere interessante per la Psicoanalisi. Secondo Mattana la filosofia della mente può essere di grande aiuto per fondare empiricamente e rendere più coerente la concezione (in larga parte implicita) che gli psicoanalisti hanno del rapporto mente-cervello. Su questa linea, il confronto con le neuroscienze può essere molto fecondo in quanto può mostrare correlazioni e corrispondenze a livello di aree e/o microstrutture cerebrali. Per concludere vengono posti dei quesiti relativi all’inconscio: ad esempio come poter mettere in relazione l’inconscio ‘neuro-cognitivo’ (sub-personale) con l’inconscio più propriamente psicoanalitico (inconscio personale che ha a che fare ad esempio con le fantasie).    

 

 

II parte – la cura del Sè: vie verbali e non verbali della azione terapeutica

1. G. Northoff

Il prof. Northoff presenta un lavoro dal titolo “The self and its environment: a neuroecological approach”. Il focus di Northoff è l’attività spontanea del cervello – quella attività (a riposo) che – secondo la sua ipotesi – sarebbe alla base di un senso di Sé – e che prende forma attraverso il rapporto con l’ambiente. Tale attività è costituita da una serie di onde (osservate indagando tutto il cervello) che variano per potenza e frequenza, all’interno di una dinamica spazio-temporale – vi è pertanto una struttura dinamica che è data dall’equilibrio fra le varie onde cerebrali. Tale equilibrio varia da soggetto a soggetto. All’interno di una concezione ecologica del cervello, Northoff mette poi in luce come il cervello/l’individuo condivida con il mondo/l’ambiente analoghe dinamiche – anche l’ambiente si muove secondo pattern di equilibrio fra onde: può variare la scala (da più ampia a meno ampia) ma le dinamiche sono analoghe. Ciò starebbe alla base della capacità di comprendere intuitivamente l’ambiente che ci circonda. L’immagine proposta per rappresentare il cervello in relazione agli altri ed in rapporto con il mondo è quella delle bambole russe, che variano di forma (la scala) ma al contempo sono analoghe, ovvero contengono le stesse informazioni.

Da questa prospettiva si potrebbe dire che il cervello trasforma stimoli ambientali (che sono in 3d) in onde che sono bi-dimensionali. Alcune ricerche mettono in evidenza come traumi infantili tendano a correlare con un alto livello di disequilibrio (caos) nel tracciato (che rappresenta le onde cerebrali) del soggetto.

Altri studi evidenziano come il tocco di un oggetto animato (versus un oggetto inanimato) mostri un alto grado di relazione con il tracciato (aree della corteccia e dell’insula).

Northoff illustra poi come, da tale visione che pone al centro la dinamica spazio-temporale, sia possibile considerare il disturbo mentale in termini di disequilibrio fra le onde del cervello (del soggetto) e le onde dell’ambiente (un esempio è il paziente depresso, che tende ad avere delle onde ‘troppo lente’ rispetto all’ambiente – dunque non è sintonizzato con l’ambiente). L’Autore specifica che nella sua teoria ecologica non avrebbe senso una distinzione fra mondo sociale e mondo non-sociale: per mondo – specifica – lui intende l’intero eco-sistema, che è costituito anche dalla storia (inclusa la filogenesi).

Tavola rotonda dottor M. Vigna Taglianti e prof. V. Gallese e discussione con la sala

Alla presentazione di Northoff è seguita una interessante tavola rotonda alla quale qui è possibile solo accennare. Gallese propone ad esempio la possibilità di studiare tali dinamiche spazio-temporali (i flussi di onde) al livello del neurone – dalla sua prospettiva infatti al centro della ricerca neuro-scientifica vi è proprio il funzionamento e comportamento del singolo neurone. Il dottor Vigna Taglianti sottolinea come la dinamica spazio-tempo risulti centrale anche per gli psicoanalisti (si pensi alla ripetitività e continuità del setting) e di come anche la questione del rapporto soggetto-ambiente sia al centro di alcune teorizzazioni psicoanalitiche – si pensi a Winnicott (attunement) ma anche al concetto di ambiente medio prevedibile di Hartmann. Northoff osserva come forse – collegando il suo lavoro a questi spunti – si potrebbe allora dire che i disturbi mentali sono in qualche modo “disturbi dell’attunement” – alterazioni dell’equilibrio fra soggetto ed ambiente.

Il dottor Bolognini pone a Northoff una serie di quesiti su come mettere in relazione le sue osservazioni sulle dinamiche spazio-temporali del soggetto ed alcune metafore della teoria psicoanalitica (concetti quali metabolizzazione, digestione, integrazione)… Northoff osserva come la tecnica psicoanalitica sembra condurre ad uno stato di frequenze lente (un andamento lento delle onde) che porterebbe ad un “maggiore attaccamento del soggetto al Sè” - a differenza ad esempio della meditazione, che sembra indurre frequenze alte ed una sorta di distacco dal Sè ed una maggiore connessione con il mondo.

Dal dibattito con la sala emergono varie questioni, ne cito qui solo alcune:

a) la differenza di prospettiva delle ricerche di Gallese e di Northoff – ad esempio ci si chiede se il Sè sia un ‘central core’ di rappresentazioni oppure un flusso di attività (Falci); b) il tema della azione terapeutica, specialmente nelle patologie legate al trauma: i pazienti traumatizzati tendono a rivivere il trauma nella relazione con l’analista (questo avviene a prescindere da quanto l’analista sia sensibile ed attento a non iperstimolarli con eccessive vicinanze emotive, corporee ed interpretative) – seguendo la prospettiva di Northoff, si potrebbe dire che un cervello iperstimolato (da traumi cumulativi) attraverso una nuova esperienza ed un nuovo legame con l’analista possa arrivare a ritrovare una armonia? (Moccia); c) la questione di un cervello che – secondo le ipotesi di Northoff – ha bisogno di stabilità e dunque ancora, viene sottolineata l’importanza nella pratica clinica di prestare attenzione al trauma (Pirrongelli).

Northoff sottolinea nuovamente la natura sia biologica che sociale della mente.

Gallese aggiunge una ulteriore riflessione sul Sè che – secondo lui – avrebbe la funzione adattativa di integrare informazioni e dare una coerenza. Il dottor Bolognini – ancora rispetto al costrutto del Sè – invita tutti a consultare la voce “Self” nel dizionario dell’IPA, suggerendo che tale costrutto è ancora molto dibattuto e nelle varie teorie della Psicoanalisi viene descritto in numerosi modi diversi.

Bolognini conclude infine i lavori ringraziando tutti i partecipanti ed augurando di proseguire questo confronto multi-disciplinare ed a più voci anche in futuro.



[1]          Tali comportamenti sono coordinati, organizzati e tendenti ad uno scopo – coerenza e fluidità ci fanno pensare che i comportamenti siano diretti ad una meta.

[2]     Per una spiegazione più dettagliata, si rimanda ad una lettura del lavoro del Prof. Di Francesco, attualmente in corso di pubblicazione.

[3]     Interessante anche la proposta del dottor Falci di collegare l’area di tali processi rappresentazionali sub-simbolici al concetto freudiano di Nachtraglichkeit – ciò soprattutto in relazione all’ ‘accumulo di materiali traumatici’.

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