Domenica, Marzo 23, 2025

L'Angolo Custode - Un’altra storia, di Guido Berdini

Conoscete quel detto che recita: “Del senno di poi son piene le fosse”? Molto icastico e vero. 

Prendendone spunto, vi potrei dire del lattante quando gli scappa di bocca il capezzolo materno e non riesce a riacchiapparlo, ed è frustrato e adirato e non riesce a coltivare la speranza di ritrovare il “seno di poi”. Con il capezzolo perde il futuro. Così sviluppa una furia tale da andare, letteralmente, fuor di seno. Si agita e si sbraccia, ma non modifica la sua situazione. “Guarda lì quel lottante!”, così lo appella la gente, poi passa rapida e se ne va.

Vaglielo a spiegare alle persone che magari quel neonato è uno di quelli che sono venuti alla luce da soli, poco equipaggiati, privi di quella sufficientemente buona rete di pensieri, affetti, aspettative familiari che fanno sì che, quando si nasce, non lo si faccia nel vuoto.

Purtroppo c’è chi viene al mondo a tempo “debito”, portandosi sulle spalle un coacervo di problemi che vengono da lontano, sapete, quelli che passano da una generazione all’altra e a ogni passaggio, come una frana, acquisiscono peso e virulenza.

Si parla spesso delle tre generazioni necessarie a creare una patologia, ma io posso dire con precisione assoluta che i guai di Luigi, quel lattante, rimontavano alla sua tris-tris- tris-trisavola Genoveffa, che in tempo di Belle Époque stava sempre depressa in ragione della deplorevole condotta di suo marito Eustorgio, un burbero notaio  che si era comprato il titolo di barone e che se la faceva senza pudore con Lisetta, la domestica. Povera Genoveffa, però povero anche suo figlio Evaristo che crebbe respirando gli “ohimé, ohimé, ohi, me lassa! Perché Domineddio non mi prende con sé?” della madre, diuturnamente afflitta e sdilinquita su una chaise longue rococò. Non crebbe bene, naturalmente, e gli effetti sussultori-ondulatori della sua vita infelice e sregolata si ripercossero, amplificandosi a macchia d’odio, su tutte le generazioni successive.

Non vorrei passare per saputo (come quell’agronomo, noto esperto del cavolo, che discettava senza fine di misticanze e giardiniere) ma ritengo sia opportuno, in casi come questo, parlare di “trance-generazionale”, che sarebbe pressappoco quando si vaga semi-incoscienti tra le nuvole di probabilità e i polveroni dell’esistenza (o del campo analitico, fate voi), facili prede del primo personaggio, oggetto, evento, picco emotivo che si trovi a transitare di là.

Nella vita di quel lattante dall’assenza della presenza si passava alla presenza dell’assenza, chiasmaticamente, senza soluzione di continuità. Questa condizione identitaria precaria diventò l’È Senza della sua vita. Da essa non era facile uscire. Nonostante accidenti, lutti e disgrazie Luigi finì per abituarcisi e trovarci dei vantaggi secondari (avrebbe detto Freud). Andando avanti con gli anni, cominciò a pensare: “ È vero che ho un sé a brandelli e praticamente quasi non esisto, però in fondo posso essere chi voglio e non debbo accettare i limiti del tempo, dello spazio, dell’Altro, della caducità”.

Sto parlando di ciò che, in un momento particolarmente ispirato, ho avuto modo di definire la “Totipotenza staminale dell’E’ Senza”, anche se poi certuni mi hanno criticato per quello che sembrava loro uno smodato elogio delle infinite possibilità dell’impregiudicato.  

Per tornare a Luigi, ad esempio a lui ormai non importava nulla che a casa, per risparmiare tempo, lo chiamassero “L”. Ci era abituato e ascoltarlo gli infondeva persino un gusto dolceamaro, perché da “L” , pensava, si dipartivano innumerevoli nomi.

Non vi sorprenderà sapere che, inevitabilmente, le cose per lui presero una brutta piega.

L’occasione si presentò quando Luigi andò a richiedere la carta di identità.

“Lei non può averla, Sig. Luigi, o forse dovrei dire “L”, lei all’anagrafe non esiste”.

Luigi iniziava a infuriarsi, ma l’impiegato, imperturbabile nella-solita-espressione–e-col–solito–tono– dell’–impiegato– dello–sportello-dell’-anagrafe, proseguì: “Le nostre carte non mentono mai; vede, lei è nato, ma, per così dire, non del tutto. Lei è stato concepito, ma non pre-concepito. Non è che si possa dire che lei non esista, ma un’identità vera e propria non ce l’ha. Tecnicamente lei è un forsenato”.

“Forsenato? Che significa? Ha voglia di scherzare? Mi sta dicendo che non posso avere la carta d’identità? A me la carta di identità serve, chiaro? Cosa dovrei fare secondo lei?”, sbottò Luigi .

“Mah, non saprei. Io sono solo un povero impiegato. Però, se mi è permesso, le suggerirei di accettare il suo destino. Risparmierà tempo ed energie accettando il suo destino”.

“Destino,destino? Perché mi parla di destino? Pure quello c’è scritto nelle sue carte?”.

“Guardi, lei non mi pare una cattiva persona, anche se si altera un po’ troppo facilmente. Le rivelo una cosa. Alla sezione “D” nei nostri archivi sono riportate le previsioni, molto affidabili, sulla vita di ognuno. Qualche volta, però, sfortunatamente, ci sono meri errori materiali, qualcuno che ha digitato male in passato, passato talora anche molto lontano, cose del genere. Nel suo caso, le previsioni sulla sua vita sono finite nella sezione “C”, quella delle pratiche da scartare.  Sostanzialmente lei è un precestinato”.

Luigi non credeva alle sue orecchie, urlò: “ Precestinato? Mi sta dicendo quindi che sono un condannato a sorte? Per uno scambio di lettere? Chi ha fatto quest’errore? Ecco perché tutto mi è sempre andato male!”.

L’ impiegato cercò di rabbonirlo: “Potrebbe compilare il modulo per richiedere la correzione della lettera, però nell’ultimo caso ci sono voluti 50 anni, e l’interessato ha ricevuto l’esito sul letto di morte”.

Luigi esplose in un urlo belluino e uscì dall’ufficio rovesciando un tavolo e alcune sedie. La notte la trascorse in dormiveglia, gli apparivano insiemi confusi di caratteri cubitali che all’improvviso diventavano parole incombenti: destino, cestino, forsenato, sorte…

Se possibile, il periodo successivo fu ancora peggiore. Luigi cercava di passare inosservato, ma tutti si accorgevano di lui. Si andava a mettere in coda alla posta e la gente gridava: “ Attenti, attenti! Un forsenato! Guardate che faccia, che ghigno che ha!”. Le mamme allontanavano i bambini, qualcuno chiamava la sicurezza, altri lo fissavano minacciosi intimandogli di andarsene.

La sua miserrima situazione gli appariva oramai nella sua abbacinante chiarezza. Come una vecchissima pendola dalle ore contate, rimase imbrigliato nel successivo lazo di tempo, preda delle sue scorie passate, non riciclabili.

Finché un giorno, in balia di un’ amareggiata, attinse a tutta la sua capacità annegativa, e toccò il fondo.


 Ora, arrivati alla fine della storia, sarebbe bello poter disporre di un finale edificante, o di una morale consolatoria.

La verità è che chi scrive non sa se ci sia stato un lieto fine e cosa sia accaduto a Luigi.

Però sarebbe bello poter dire che c’è stato qualcuno, o più di qualcuno (fidanzata, amici, analista) che non si è arreso al cestino cinico e baro e si è speso per andarlo a recuperare dal fondo.  

Forse qualcuno di voi che leggete, qualcuno che non si è arrestato al cartello indicante il “Senso-vi- è-dato”, qualcuno che è andato oltre, a cercare altri sensi.

Sarebbe bello che, sostenuto dagli altri, Luigi sia diventato gradualmente un sub conscio capace di immergersi nel mare delle emozioni senza perdere l’ orientamento.

Chi scrive non sa cosa sia accaduto a Luigi, ma non può escludere che sia andata così, che la vita gli abbia riservato una seconda occasione, lanciandogli, nel bel mezzo delle procelle, un ancòra di salvataggio.

Perché, in fondo, ricordavano gli antichi, noi fragili esseri umani stiamo tutti sulla stessa Parca. E ci possiamo aiutare.

E tutti insieme potremmo, una volta di più, intonare le parole del Poeta: “Dai diamanti non nasce niente, dal legame nascono i fior”.

 

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