Sabato, Maggio 18, 2024

Paola Marion (2017), Il disagio del desiderio, Donzelli. Recensione di Laura Porzio Giusto

Se la psicoanalisi, ormai più di cento anni fa, ha avuto il coraggio di addentrarsi in mondi allora ritenuti tabù (pensiamo alla sessualità infantile!), può oggi avere lo stesso coraggio di esplorare, ascoltare, problematizzare, comprendere, interrogarsi su temi attualmente considerati spinosi, se non a volte, veri e propri oggetti di pesanti giudizi aprioristici?

La citazione freudiana (1908) scelta da Paola Marion in esergo alla seconda parte del testo (“Il fatto è che siamo sempre pronti a disprezzare quello che non capiamo; è un modo comodo per semplificare i problemi”) sembra rispondere a questa domanda e corrispondere alle pagine che si avvicendano al piacere del lettore di domandarsi, scoprire, comprendere.

Il disagio del desiderio attraversa, nella sua prima parte, i passaggi principali della storia e delle riflessioni psicoanalitiche in tema di sessualità, per approdare poi alla seconda parte del testo in cui Marion entra nel vivo della complessità delle diverse forme di accedere alla procreazione, disgiunte dal rapporto sessuale. Ma la sua attenzione resta viva su percorsi e destini di sessualità e desiderio: quali strade prendono? Come possono continuare a far parte del progetto vitale della coppia? Quali specificità, risorse e difficoltà, le persone coinvolte incontrano nel loro cammino? Come si ridisegna il mistero delle origini? E, come l’analista può accompagnare i propri pazienti in questo viaggio?

Già dalle prime pagine l’Autrice parla di “psicosessualità come una nuova forma di pensiero”, sostenendo che occorre ammettere, a partire dal riconoscimento della sessualità infantile, l’esistenza di “una sessualità che non è né genitale, né procreativa” (p.45). Dunque, si viene a configurare una doppia possibilità: una sessualità non procreativa e una procreazione senza sessualità. È quest’ultima “il nuovo scandalo” che interroga la psicoanalisi (e non solo) e che “mette in crisi un sistema di valori, codici, identità condivisi” (p.94). Doppia possibilità che può prender forma in diverse configurazioni familiari: coppie omo o etero, ma anche madri o padri single. La ricerca a tal proposito ci ha mostrato che una buona genitorialità e il benessere dei figli non dipendono dalle forme familiari (sesso, orientamento sessuale, numero dei genitori), né dalle diverse modalità di concepimento (rapporto sessuale o PMA), ma dalla qualità delle relazioni che si vengono a costruire tra genitori e figli, e dalle capacità di svolgere le funzioni genitoriali. Così Marion, al termine della sua dissertazione, si domanda se il discorso sul “limite”, tanto discusso sia in ambito psicoanalitico, che all’interno del discorso sociale, si possa trasformare guardando al concetto di “responsabilità”. Trasformazione che mi pare oltre che auspicabile, necessaria alla comprensione delle articolate dinamiche in gioco e alla possibilità di sostenere il benessere delle persone coinvolte.

Mantenendo sempre una tensione dialettica tra accogliere e problematizzare, Marion raccoglie e porta avanti le sfide che emergono dai diversi modi di venire al mondo, anche attraverso la messa in gioco di riflessioni che aprono ad altre possibilità di senso su modelli psicoanalitici che rischiano invece, a volte, di essere saturanti e a-contestuali. L’esempio classico è il mito di Edipo, non più unicamente interpretabile, e che oggi sollecita molti interrogativi: “quanto la storia di Edipo, che ha costituito il nucleo del pensiero psicoanalitico, rappresenta una variante inconscia? Oppure ci troviamo di fronte a cambiamenti strutturali che modificano la nostra stessa natura? Quanto lo stesso nucleo familiare è ridisegnato dalle biotecnologie? E in che modo dobbiamo immaginare le sue trasformazioni alla luce di ciò che sta avvenendo? E come influisce tutto ciò nel percorso di soggettivazione?” (pp. 117-118).

Qualche anno fa, presso il Centro di Psicoanalisi Romano, H.B. Levine, parlando delle “verità” in psicoanalisi, disse qualcosa che mi pare in linea con il modo di procedere di Marion: ai tempi in cui lui era un candidato i supervisori chiedevano agli allievi: “dov’è qui il complesso di Edipo?”, una domanda che egli oggi considera assolutamente mal posta e che preferisce trasformare in: “dov’è qui il paziente?”

Mi pare questo lo spirito che anima Paola Marion quando ad esempio approfondisce alcuni temi clinici legati alle PMA, primo fra tutti la sterilità, l’impatto traumatizzante che tale diagnosi può avere sull’individuo e sulla coppia, la ferita narcisistica che il soggetto/la coppia si trova ad affrontare, l’angoscia per un paventato fallimento di un progetto vitale a lungo e intensamente desiderato. L’approccio volto a capire le cause, mettendo in relazione lineare stati psicologici e funzionamento fisiologico, è messo fortemente in discussione, sia perché oggi sappiamo che esiste un intreccio multifattoriale molto complesso, sia perché il rischio è quello di colpevolizzare le persone coinvolte, spesso già sofferenti anche in virtù di vissuti e convinzioni auto-colpevolizzanti. L’Autrice invece, rivolge il proprio sguardo ed ascolto psicoanalitici alle conseguenze di una tale situazione traumatica, quindi al dolore, all’ansia, alle angosce, ai dubbi, alla rabbia, allo sconforto e, non ultimo, al sentimento di vergogna che porta molte coppie a tenere il segreto sulle pratiche di PMA intraprese. Mettere l’accento sui vissuti emotivi che connotano l’esperienza della sterilità e di un eventuale percorso di procreazione medicalmente assistita, significa porci in un assetto emotivo e mentale (analitico, potremmo dire) atto ad accogliere, comprendere, aiutare nell’elaborazione di esperienze molto complesse che, come ci ricorda Marion, coinvolgono a tutto tondo il corpo e la psiche e dove la maternità, o direi più in generale la genitorialità, non è solo un fatto privato, ma “in relazione con l’esterno (sociale, politico, giuridico)”, “un crocevia di relazioni, reali e fantasticate, che si muovono lungo una duplice direzione sulle coordinate spazio-tempo: dall’esterno all’interno, dal prima al dopo e viceversa” (p. 98).

Sono inoltre esplorati vissuti, dubbi, fantasie, speranze che possono ruotare intorno alle donazioni di gameti, nonché alla fecondazione in vitro omologa, all’impegno emotivo e fisico, quest’ultimo richiesto in particolar modo alla donna, che si sottopone ad assunzioni farmacologiche, prelievo ovocitario e trasferimento di embrioni, e all’intero processo di medicalizzazione in cui la coppia viene a volte catapultata senza avere tempo e spazio sufficienti per pensare. La possibilità di pensare è altresì importante nell’affrontare questioni che si pongono anche nel rapporto con i figli nati. Un tema toccato da Marion è, a tal proposito, il “segreto” che molte coppie scelgono di mantenere con il proprio figlio rispetto alla modalità del suo concepimento. Di estrema importanza, ritengo, le considerazioni dell’Autrice sui possibili motivi che spingono i genitori a mantenere il silenzio e le possibili conseguenze, sulla crescita del bambino, di “non detti” o bugie.

Questo spazio di pensiero, se non intralciato e precipitato in “categorie e concetti precedentemente elaborati [e sovrapposti] al nuovo, per controllarlo e ricondurlo all’interno del proprio ordine […], può essere offerto da un ascolto analitico profondo che “ci chiama a una problematizzazione del nostro sapere per poter svolgere ancora la funzione di «oggetti trasformativi» (Bollas, 1987) rispetto alle domande dei nostri pazienti” (p. 113).

Come non pensare, allora, alla descrizione di “vastità” di Canetti (1977), citata da Marion: “Il poter contenere in sé moltissime cose anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito e questo sentirlo, senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo col suo nome e meditarci sopra”.

 

 

Paola Marion (2017), Il disagio del desiderio, Donzelli.

 

София plus.google.com/102831918332158008841 EMSIEN-3

Login