Sono veramente molto lieto di commentare questo libro di Barbara Piovano, che affronta un tema molto rilevante per la vita di tutti noi, ma che − mi sembra − non molto trattato nella letteratura psicoanalitica.
Già nel titolo “La cura che ammala” si individua nettamente il tema centrale.
Il tema unisce tre nuclei sostanziali, che potremmo definire come il corpo, il medico e la malattia e porta molti esempi di casi in cui un errore medico ha causato gravi conseguenze, non soltanto a livello biologico, ma anche a livello mentale, con l’insorgenza di sentimenti di profonda delusione, abbandono, tradimento, rabbia e desolazione.
Per dare il più possibile risalto all’argomento portato da Barbara Piovano, vorrei trattare tutta questa tematica da due punti di vista, il primo centrato sul corpo e il secondo centrato sul transfert paziente/medico. I due temi sono collegati ma mantengono anche una relativa autonomia.
Per quanto riguarda il corpo, vorrei partire da un punto di vista che mi pare cruciale.
Il corpo − vorrei dire il nostro corpo − è in fondo quanto di più personale abbiamo, ma, al tempo stesso, quanto di più altro ed estraneo.
In fondo, molta parte della nostra vita è incentrata sul tentativo di trasformare il nostro corpo in qualcosa di nostro attraverso il rispecchiamento delle persone care, la madre innanzitutto e anche − come dice Winnicott − attraverso una continua opera di familiarizzazione col suo funzionamento, i suoi desideri, i suoi impulsi, le sue idiosincrasie. Noi siamo condizionati dal nostro corpo e − come Freud ci ha mostrato – “appoggiamo” buona parte del funzionamento mentale su parti significative di esso. Sulla bocca la dipendenza e l’avidità, sull’orifizio anale il controllo e l’espulsione, sui genitali l’esibizione e la vergogna.
Sappiamo tutti come questa continua conquista della nostra corporeità sia una delle imprese più impegnative, e anche più complesse, cui ogni soggetto si trova a confrontarsi. Conosciamo tutti l’angoscia dell’adolescenza, il tema del confronto con l’altro corpo nel tema della sessualità, l’invecchiamento. Sono tutti momenti in cui il corpo è, al tempo stesso, nostro e non nostro. In parte soltanto di se stesso, del proprio corpo in quanto tale, in parte degli altri e in parte di quello che noi vogliamo da lui.
Per quanto riguarda l’aspetto relativo all’estraneità, vorrei subito dire che il nostro corpo, in buona parte, segue leggi che non conosciamo e va incontro ad un regime temporale che non coincide sempre con il regime temporale della soggettività.
È chiaro che esiste un dialogo fortissimo tra mente e corpo, e di questo tratta una letteratura sterminata. Ma è altrettanto chiaro che, per esempio, quando il corpo invecchia, noi assistiamo, almeno in parte impotenti, a questo processo. Lo stesso avviene nell’adolescenza, in cui la trasformazione corporea avviene in certi casi in aperto contrasto coi desideri del soggetto.
È in questa dinamica che si colloca una dialettica continua tra proprietà ed estraneità.
Come Barbara Piovano ci propone in modo molto efficace, un ruolo particolarmente importante, in questa dinamica, lo assume la malattia.
Se in certi casi la malattia sembra acquistare un significato leggibile ed indiscutibile alla luce delle vicissitudini della soggettività, in molti casi, invece, la malattia può presentarsi come un corpo estraneo, che si colloca fuori dalla nostra portata e che può venire vissuta come un’ingiustizia, una punizione, un trauma, comunque qualcosa che segue leggi fuori dalla nostra portata e dal nostro controllo.
Per fare un piccolo esempio, io non so in questo momento che cosa stia facendo il mio pancreas o la mia milza o il mio cervello da un punto di vista sinaptico o vascolare o cellulare. Ci sforziamo continuamente di stabilire un ponte tra corpo e mente, ma sembra che certe volte questo possa diventare un dialogo fra sordi.
A questo punto subentra il ruolo del medico.
Potremmo affermare che il medico, in quanto conosce il funzionamento del corpo, ed è padrone, in una certa misura, dell’apprendimento delle sue vicissitudini, può svolgere col paziente non solo, come tutti si aspettano, la funzione di cura, ma anche la funzione di un ponte tra le due parti in causa.
Potremmo dire, in modo molto generale, che la medicina ha la funzione fondamentale di rendere più conoscibile quell’aspetto terribile, ma anche fondamentale, che è stato definito il corpo come “macchina” e che tanto timore suscita in tutti noi.
La medicina, quindi, non dovrebbe puntare soltanto a ristabilire una condizione di benessere nel soggetto malato, ma anche a rendere meno misterioso, meno oscuro e inaccessibile, il processo dei fenomeni corporei.
In questo senso, il medico dovrebbe essere il migliore alleato dello psicoterapeuta e dello psicoanalista, proprio perché può favorire quel dialogo tra corpo e mente il cui mal funzionamento fa tanto soffrire gli esseri umani.
Qui si inserisce il nodo centrale della proposta di Barbara Piovano, che potremmo così formulare: che cosa succede quando il medico sbaglia? E non solo sbaglia, ma si rifiuta di riconoscere il suo sbaglio?
Potremmo dire, seguendo il filo che ci propone Barbara Piovano, che il paziente non soltanto viene lasciato solo con la sua malattia, ma viene lasciato solo con l’aspetto misterioso, insondabile, inaccettabile, troppo “reale” della sua malattia e quindi può vivere un senso di spaventosa solitudine, può sentirsi in balia di un destino implacabile, senza strumenti conoscitivi per fronteggiarlo. Conoscere la propria malattia, purtroppo, non ci mette al riparo dal dolore, dalla sofferenza e dalla morte, ma almeno ci fornisce gli strumenti per affrontare una battaglia, che certe volte porta alla sconfitta, ma che comunque comporta la messa in campo di un’energia e di un’attività.
Possiamo ora affrontare il secondo punto, che è quello del transfert.
Proprio in base a quanto detto finora, potremmo definire il transfert sul medico come un transfert di fiducia, di abbandono nelle mani di una guida, e di ricerca di una lampada che faccia luce nell’oscurità.
Se il medico fallisce, questo potente investimento va incontro ad un drammatico tracollo. Il potente investimento di fiducia si capovolge e si ripercuote sul soggetto come un colpo violento che lo stordisce. I casi portati da Barbara Piovano sono molto espressivi ed efficaci per illustrare questa situazione.
I sentimenti sono quindi di delusione, solitudine, impotenza di fronte ad un destino incontrollabile, ma anche impregnati di sensazioni di tradimento: è come imbattersi in una porta che si riteneva aperta e che invece resta drammaticamente chiusa.
Come si può vedere, il transfert non riguarda soltanto la riattivazione sulla figura del medico di sentimenti infantili, legati alla inevitabile regressione che ogni malattia comporta, ma riguardano temi ancora più vasti come la perdita di controllo del nostro corpo, il divenire estraneo di esso, e la sensazione che la nostra corporeità sia la parte più oscura di noi e non più quella tanto amata e familiare, cui ognuno di noi aspirerebbe.
A Barbara Piovano va riconosciuto il grande merito di avere proposto di ampliare il tema del transfert, da un aspetto puramente storico a un aspetto che riguarda il ruolo del medico, perché − come dicevamo − la malattia è una delle più drammatiche esperienze che possano accadere all’essere umano, al pari delle grandi trasformazioni del fisico, come avviene nell’adolescenza e nell’invecchiamento e il medico ha una funzione cruciale nel trasformare il troppo reale in qualcosa con cui si può trattare, anche se, certe volte, è più forte di noi.
È inutile dire che molto spesso il medico non è consapevole di questo potente compito che il paziente gli affida. Può usare una competenza assolutamente necessaria per fronteggiare le vicissitudini del corpo “macchina”’ senza cogliere fino in fondo la trepidazione con cui il paziente vive il suo ruolo, il ruolo del medico, come colui che è capace di introdurre una certa luce in tutto un vortice di oscuri e temibili avvenimenti.
A parziale giustificazione di queste difficoltà del medico, si può citare la grande responsabilità che l’investimento del paziente induce nel medico stesso e la terribile esperienza di un contatto continuo con la sofferenza, che spesso inducono un senso di dolore e grande fatica.
Aggiungerei, in conclusione, che questo libro di Barbara Piovano costituisce una prima importante apertura verso un terreno ancora in buona parte da esplorare e può essere di grande utilità, non solo a chi ha la sfortuna di ammalarsi, ma anche al medico che lo cura e allo psicoterapeuta che ha il compito di ricostruire, almeno in parte, quel ponte tra biologico e psichico, che non sempre basta a far guarire, ma che almeno può fornire strumenti per una battaglia positiva e importante.
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In questa sua breve integrazione alla recensione di Antonello Correale, Barbara Piovano intende sviluppare il tema della iatrogenia, soffermandosi sui punti da lui focalizzati: il corpo, la malattia e il ruolo del medico e il transfert. Questi temi sono, infatti, centrali nella Sindrome Post Traumatica da Stress da trauma iatrogeno dei casi clinici presentati nel libro.
Nei pazienti che hanno subito un trauma iatrogeno, la malattia può presentarsi come un corpo estraneo che si colloca al di fuori del proprio controllo e che sprofonda il paziente in uno stato di solitudine, isolamento e abbandono e può avere un effetto devastante sul mondo affettivo e sui processi di pensiero del paziente, per la delusione delle sue aspettative di essere curato oltre che per il danno anatomico funzionale conseguente all’intervento stesso.
Una prestazione medica che non dà i risultati attesi spegne l’aspetto vitale del transfert, colorato da stima e affetto e attiva la ripetizione di relazioni precoci traumatiche. Il fallimento della prestazione medica si configura come un tradimento, una violenza abusiva che perverte la relazione medico-paziente, soprattutto se il medico non riconosce l’insuccesso del suo intervento e la sofferenza del paziente.
Il corpo può diventare l’unico destinatario della memoria iatrogenica e il martire portavoce di una parola che ha perso la sua voce (cfr. Introduzione al libro di Luis Martin Cabré).
La psicoterapia psicoanalitica dei casi che descrivo assume alcune caratteristiche specifiche e presuppone un tipo di ascolto esteso a tutti i livelli di organizzazione psicofisica del paziente in quanto l’analista, oltre a doversi confrontare con sintomi e fenomeni corporei che invadono la scena analitica, deve tenere conto delle difese del paziente che lo fanno sentire un helples helper e rispettare le valenze positive autoterapeutiche che, con l’aiuto di un ambiente di sostegno, avviano il processo di uscita dal breakdown.
Secondo Correale, il ruolo del medico (e della medicina), che ha più dimestichezza con il corpo, non dovrebbe limitarsi soltanto a prestare le funzioni di cura, ma potrebbe rendere più intellegibili funzionamenti corporei misteriosi e inquietanti e svolgere una funzione di ponte, di raccordo tra corpo e mente, tra il biologico e lo psichico. Aggiungo che questa funzione dialogante tra corpo e mente, oltre che essere favorita da una personale attitudine del medico, riceverebbe un grande contributo da una effettiva collaborazione tra medico, psicoanalista, psicologo, farmacologo, fisioterapista che lavorano in team, come ho sperimentato nel trattamento dei casi clinici seguiti in psicoterapia psicoanalitica, ognuno con la propria formazione e le proprie competenze.
Il medico rende meno misterioso e oscuro e inaccessibile il processo dei fenomeni corporei, l’analistapresta un tipo di ascolto che gli consente di raggiungere il corpo del paziente con gli strumenti che ha a disposizione - vivendo la sofferenza corporea del paziente sulla propria pelle, cercando di trasformare il dolore fisico in emozioni comunicabili e, ove possibile, in pensiero. Il pazientelotta per non perdere le funzioni cognitive che hanno accusato il colpo del trauma iatrogeno per rassicurarsi di non ‘aver perso la testa’ e cercare di dare un senso a quello che è successo, per riorganizzare il suo assetto psicosomatico e integrare la nuova o diversa immagine di sé.
Mi auguro che il libro, attraverso la presentazione di casi clinici che mostrano l’evoluzione del rapporto medico-paziente dal momento della scelta del medico al momento dell’insuccesso della prestazione e la comunicazione del percorso della psicoterapia psicoanalitica, contribuisca all’avanzamento della funzione analitica nel campo della cura in senso più ampio.
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