Sabato, Aprile 20, 2024

Report di Giuseppe Riefolo sul 62° Festival di Spoleto (2019)

I classici del cinema: intrecci tra immagini e psicoanalisi

  13 luglio 2019

 

"Ma allora cosa posso fare?

Il curioso!

… L'avvenire è dei curiosi!” 

(Jim)

 

Un film classico?

Nella bella sala Pegasus di Spoleto, una chiesa dismessa, ora consacrata ad una nuova divinità che produce visioni, mi trovo a partecipare alla proiezione di tre film “classici”: De Sica, Truffaut e Hitchcock. Film visti già tante volte, ma considero che è la prima volta che accade in un cinema, grande schermo. La rassegna curata per il Festival di Spoleto da Claudia Spadazzi e Elisabetta Marchiori chiede cosa sia un “classico” nel cinema. Penso a che cosa sia “un classico” durante tutta la giornata in cui mi sono piantato nella sala sin dalla mattina fino alle dieci di sera, per rivedere Ladri di Biciclette (1948), Jules e Jim (1961) e Gli Uccelli (1963). So bene che, come nella vita e nel mio lavoro di analista, non si tratta di rivedere film già visti, ma l’attesa che possa “…emergere qualcosa di nuovo da qualcosa di vecchio... e non più ripetizioni" (Mitchell, 1993, 64 e 66). Infatti l’attesa è premiata. Tutti i film mi suggeriscono che un oggetto “classico” ha soprattutto due caratteristiche: tocca emozioni di base (neurobiologi ed analisti ne hanno elencate diverse: paura, gioia, tristezza, disgusto, sorpresa…; le hanno anche suddivise in primarie e secondarie…) che ti permettono, attraverso la visione del film, di associare tue esperienze che con il film hanno in comune quella emozione. Una sorta di minimo comune multiplo che, a differenti livelli di intensità, tocca ciascuno di noi. Attraverso queste associazioni, ciascuno di noi, mentre è di fronte allo schermo, rende proprio e personale quel film. Un secondo elemento è l’intersezione fra il tempo presente e il tempo in cui hai già visto quel film oppure, se lo vedi per la prima volta, il film può riconnetterti ad una dimensione temporale che è potenziale in un film “classico” (penso ad una lettera a Fliess, 6 dicembre 1886, in cui, immaginando l’inconscio sostanzialmente come un immenso archivio, Freud intuisce che, perché si realizzi una traccia mnesica, – e che, quindi, possa essere rintracciata dal sogno - bisogna che avvenga una trascrizione iconica, casuale, in cui un evento viene depositato come immagine nell’inconscio ed una trascrizione temporale, ordinata secondo relazioni causali di ordine temporale in cui quella immagine dell’evento viene organizzata nell’inconscio in relazione ad altri eventi contigui nel tempo). Ovvero: un film “classico”, soprattutto per un’analista, non è necessariamente “vecchio”, ma, a vari livelli di intensità concerne necessariamente la dimensione inconscia e può restituirti, durante la visione, dimensioni temporali sospese, magari rimosse, ma soprattutto potenziali che, attraverso il film è possibile recuperare e far procedere. Un film classico i permette di ritornare ai momenti connessi alla visione di quel film: nel mio caso la TV in bianco e nero… i film rigorosamente il lunedì sera sul primo canale e l’eccitamento dell’incredibile privilegio dei film in televisione la mattina a settembre, prima dell’inizio della scuola, durante i giorni della “Fiera di Levante”. Penso che soprattutto Ladri di Biciclette appartenga a quegli eventi. Non importa se sia corretto o meno, ma come analista so che un oggetto è vivo se ti permetterà di avere associazioni a partire da un evento concreto.

1.         De Sica.

La visione di Ladri di Biciclette, il primo film proiettato nella mattina mi permette ricordi emozionanti perché l’emozione che viene da un oggetto “classico” è quella di trovarsi particolarmente sempre di fronte a un percorso nuovo che non conoscevi partendo da emozioni di fondo che ti appartengono da sempre. Di Ladri di Biciclette, mentre Paolo Boccara ne discuteva con Anna Pennella e Lisa Marchiori, mi ha sorpreso la “esagerazione” della presenza della “bicicletta”: una sensazione che non conoscevo del film. Nel film ce ne sono infinite e non l’avevo mai notato: le strade piene; tutti ne hanno una! Ho pensato al paradosso che, per essere comunicato come “reale”, soprattutto nel cinema, un oggetto debba essere anche sottolineato in modo esagerato. Eppure si tratta del manifesto del Neorealismo italiano! Una bella emozione sentire che la realtà vera e cruda passi attraverso una operazione di “esagerazione”. Forse (anzi, sicuramente….) è un fatto tecnico, ma mentre si avvicinava l’evento che tutti noi conosciamo come l’icona del film (Antonio che ruba a sua volta la bici e viene preso e insultato dalla folla…) sullo schermo – grande come non mai nella mia esperienza di quel film – si infittivano le biciclette: persino un gruppo di ciclisti che passano dalle parti dello stadio Olimpico dove la Roma incontra il Modena (“com’è il Modena?... sono forti?” Chiede Antonio a Bruno dopo che gli ha dato uno schiaffo e cerca di recuperare la sintonia complice ed intima col figlio…). Le biciclette nella loro intensità creano un effetto di crescendo fino alla scena della fuga triste di Antonio. Il resto lo conosciamo da sempre. Nella pausa mi era rimasto un tono affettivo di semplice e leggera tristezza. Ho pensato che il film era classico perché toccava la vergogna, la tenerezza, la precarietà su cui, per fortuna, poggiamo la nostra vita.

2.         Truffaut.

Poi viene Jules e Jim (è a colori? Non lo ricordo: eppure l’ho appena visto! Penso che il dubbio sia perché in qualche modo voglio tenerlo in una esperienza che riguarda la mia vita dove quel film l’ho visto molti anni fa e, confesso, lo ricordavo appena. Allora, nonostante la pulsione a chiarire il dubbio, decido di tenermi il dubbio e mantenere il film in un crinale di antico e di attuale: è a colori?). Le donne di Truffaut sono belle e sensuali come Catherine. Sappiamo che hanno la sostanza biografica della madre e di un padre inconsistente del regista. Non mi interessa (mi interessa molto poco…) che un film mi rimandi alla biografia dell’autore (è un problema suo e lui non mi chiede di fargli da analista, ma semplicemente offre a me una speciale occasione per occuparmi della mia vita): mi basta che le donne di Truffaut mi portino sensualità e in quei film ti trovi adolescente. Nella discussione tra Manuela Fraire, Fabio Ferzetti e Claudia Spadazzi, mi colpisce che soprattutto il pubblico e i critici cinematografici parlino particolarmente di Catherine e del suo potere seduttivo che ti porta a lanciarti con Jules dal ponte perché Jim possa trovare libero finalmente il proprio posto e il proprio passo. Catherine, anche nel mio ricordo, era la protagonista del film, ma questa volta, forse un po’ irritato dalla discussione che si concentra sulle assonanze biografiche del film col regista e soprattutto sul potere fatale della femme e persino su una possibile lettura di tratti omosessuali nella relazione fra Jules e Jim, mi concentro sul titolo che, in realtà semplicemente tralascia Catherine e si concentra sui due amanti. Anch’io ricordavo una storia fra il potere di una femme fatale e due (anzi tre, perché c’è anche Albert….) amanti che, senza tragedia si alternano ad aderire a ciò di cui Catherine ha bisogno in quel momento della propria vita. Appunto: i tre uomini non hanno conflitti, ma, secondo dimensioni parallele, ciascuno aderisce al bisogno contingente di Catherine in quel momento. Mi colpisce una frase di Jim (o di Jules? Per me, ora, non ha importanza…) verso la fine del film: “come si fa ad amare comunque?”. Ho sentito la dimensione umana che, nella sua singolare precarietà, si insinuava nella storia introducendo il risentimento per qualcosa che ti può essere tolto dolorosamente. Ho quindi rivisto all’indietro il film e notavo che ogni volta che ci si lasciava, per Catherine e per il suo uomo del momento, sembrava essere finita definitivamente: un nuovo percorso senza che rimanesse nulla del precedente. Gli uomini lasciati sanno accettare benevolmente la perdita. A questo punto ho rivisto il titolo che lo stesso regista ci proponeva e, quindi che i protagonisti del film erano Jules e Jim e non – secondo l’ennesima seduzione agita dalla potenza della passione – Catherine. Per questo nel mio film è Catherine che deve “amare comunque”, mentre Jules e Jim cercano continuamente di adattarsi e modificarsi cercando di “amare possibilmente”. Catherine domina le relazioni, teatro della propria necessità di esistere in un modo potente ed oggettivante: , “non ho cuore, ed è per questo che non ti amo, e non amerò mai nessuno”. Catherine non conosce i processi modulati dal bisogno di reciprocità, rispecchiamento, sintonizzazione con il mondo vivo che ti circonda. Mentre Jules e Jim vivono e si modulano continuamente cercando di procurarsi amore facendo i conti con il mondo che ti accoglie. Il problema per entrambi è che il mondo esterno è concentrato (collassato) in un unico oggetto. Ho pensato che Catherine è, per entrambi, una esperienza di trauma, quando il trauma ti segna e ti impedisce di occuparti del futuro perché il passato, nel trauma, ti si impone ad occupare lo spazio potenziale di ogni nuova esperienza perché “il collasso fra passato, presente e futuro che è il carattere distintivo del trauma…” (Bromberg, 1998, 97). Infatti Jim non potrà amare la sua Gilberte con cui vive a Parigi, perché, se convocato da Catherine lui non può che aderire. Jules non riuscirà ad scrivere alcun romanzo e medita che se dovesse scrivere un romanzo d’amore “…i personaggi saranno gli insetti!”. In questa linea ho letto i dialoghi fra Jules e Jim e di ciascuno di loro con Catherine. Jules e Jim riflettono insieme e si scambiano emozioni, parlano di come si sentono nella faticosa relazione con Catherine, parlano della propria vita, mentre con Catherine il dialogo si compone di affermazioni e di fatti; “Tu hai avuto poche donne, io ho avuto molti uomini, facciamo una buona media, faremo una discreta coppia!”. Nel breve intervallo fra la discussione e il prossimo film, mi resta di fondo il fascino non tanto di Catherine, che questa volta ho colto nella sua sterilità violenta, ma soprattutto di Jeanne Moreau così bella in quel film. Mi resta la solidarietà, complicità e in parte identificazione con Jules e Jim che questa volta ho scoperto nella loro fatica a portare avanti i processi di sintonia e adattamento a contesti faticosi che ti accolgono. Loro conoscono la precarietà fertile della vita, Catherine cerca solo di negare questa felice fatica. Forse la bellezza di Jeanne Moreau questa volta prevale al potere oggettivante di Catherine perché ne è la felice espressione di caducità che Catherine continuamente nega.

3.         Hitchcock

Gli Uccelli forse lo rivedevo per la quarta volta. Ricordo esattamente le altre tre volte precedenti. L’ultima all’aula magna in un cineforum quando eri all’università. In realtà, anche questo è un film che non ricordo bene: ogni volta il tema della tensione e della paura che viene dal quotidiano, ovvero dal nulla, deve aver prevalso su ogni altro contenuto che ricordo appena e non ricordo neanche la precisa sequenza della trama. Ho ritrovato netto il piacere delle “scene finte”: sono le scene che mi fanno sentire contemporaneamente da questa parte dello schermo, ma al tempo stesso dentro la storia. La sensazione che già conoscevo e che collego soprattutto ai film di Hitchcock, è di sentire di essere lì, in quel posto, in quella situazione, a godere di qualcosa che sta per accadere: la felice posizione dello spettatore. E’ il regista che gioca e fa il baro con lo spettatore. Ho ritrovato le scene di Melanie che va in macchina a portare i love birds a Katy (ovvio: a Mitch, ma a pensarci bene anche a Kety…), ma non ricordavo che in quella scena finta c’è n’è un’altra finta: i due pappagallini in macchina che si muovono assecondando le curve!. Poi forse anche quando i due si allontanano sulla collina per un brindisi prima dell’attacco degli uccelli alla festa di Katy. La storia è nota (è pur sempre un film “classico!...), peraltro estremamente lineare secondo i modelli di un film pop, ma il rivederlo nella cornice intensa del festival di Spoleto, in una giornata che ho deciso di dedicare interamente a tre film “classici” della mia vita, mi permette di andare oltre ciò che viene evidente. Non seguo più la storia, ma mi scopro a fare domande al regista. Soprattutto: perché la particolare organizzazione di alcune inquadrature? Ovvio che Anne, sin da quando apre la porta a Melanie che vuole sapere il nome della sorellina di Mitch, capiamo subito che ha avuto una storia con Mitch. Il personaggio e l’inquadratura ci dicono anche che è una storia finita in modo doloroso: tutto secondo i canoni! Scopro questa volta la bellezza implicita e potente di alcune scene dove la comunicazione è nel silenzio di un personaggio, mentre nel sottofondo un altro sta parlando dicendo nulla. Le inquadrature ti dicono di quello che è stato, mentre ascolti quello che accade ora! La prima di queste scene è nella telefonata che Melanie riceve da Mitch mentre è a casa di Anne: Anne, in una posizione distesa sulla sedia, in silenzio mentre ascolta la telefonata. L’inquadratura ci dice che non sta ascoltando, ma sta ricordando. Gli analisti conoscono questo tipo di ascolto perché li riguarda profondamente: il paziente che parla e il discorso che diventa la colonna sonora di un altro discorso, profondamente intersoggettivo, e sceneggiato che l’analista compone nella sua mente (nei suoi occhi…). L’altra scena della stessa intensità riguarda Melanie che aspetta fuori della scuola. Sullo sfondo si odono gli esercizi di canto dei bambini mentre, in un crescendo che insinua il dramma che si sta componendo, i corvi si posano sui fili della corrente elettrica e si affollano sulle strutture sottili intorno alla scuola. Tutti sappiamo cosa sta per accadere (sicuramente lo sai anche quando vedi il film per la prima volta…), ma evidentemente la comunicazione va ben oltre l’evidenza. Anche qui un analista si concentra su come Melanie si sente in una particolare dissociazione che si organizza fra Melanie che nega l’evidenza e lo spettatore che conosce il percorso di quei segnali. Infatti la dissociazione si compone quando ti fai una domanda ovvia: ma perché Melanie e Anne portano via i bambini fuori della scuola? Perché non si rinchiudono nella scuola? Un analista potrebbe trovare a questo punto tante risposte secondo quale sia, delle tante psicoanalisi, quella di cui si occupa. Io ho pensato che, oltre la violenza della scena, il film ci dice che tante volte non è possibile la dissociazione difensiva e il tranquillo evitamento, ma hai diritto che nella ripetizione accada qualcosa di nuovo. Ho pensato che nella scena le due donne sono finalmente unite nella stessa tragedia e non più in competizione edipica. Ho pensato che se fosse stato il sogno di un mio paziente, mi sarei concentrato sulla difficoltà e il coraggio dei percorsi di cambiamento evolutivo, quando la serena ripetizione non è più economica per la nostra vita. A questo punto mi ha fatto riflettere il suggerimento di Roberto Lazzerini, il critico cinematografico chiamato a commentare, con me e Graziella Bildesheim il film: “in questo film la psicoanalisi è molto importante!”. Non l’ho detto nella discussione che si è sviluppata dopo il film, ma l’ho pensato dopo, il giorno dopo. C’è una psicoanalisi che piace ai registi e sicuramente ad Hitchcock di Io ti salverò e di Psycho: la psicoanalisi del trauma da abreagire, perché la psicoanalisi sarebbe nella stessa linea del segreto da svelare nella trama di un film giallo. Ecco, quindi, sin dall’inizio Mitch che svela il gioco che Melanie mette in scena nel negozio e lui la mette a nudo: “ancora nella sua gabbia dorata, Mrs Daniel?”. Poi Lydia, tutta costruita sulla madre, a sua volta ferita, che riversa il suo trauma nel figlio chiamato a sostituire il marito il cui ritratto campeggia, persecutorio, sulla parete del salone. Infine Mitch che sulla collina “spara” l’ennesima interpretazione psicoanalitica a Melanie, proprio quando i due si sono appartati, sotto lo sguardo addolorato di Anne, che giustamente teme un percorso di intimità: “Lei ha bisogno di una madre!”. L’altra psicoanalisi, quella a cui sono più interessato, che, forse senza che il regista lo volesse, è nel film, non riguarda il rimosso, ma i percorsi di continua trasformazione che chiedono il sostegno di interlocutori che si incuriosiscano della tua storia, che vengono laddove tu ti sei rinchiuso e, secondo modalità leggere di gioco, ti portino il dono dei love birds. La psicoanalisi può aiutarti a sentire che vivi continuamente – e per fortuna – in una dimensione di cambiamenti dove necessariamente incombe l’Unheimlich e questa dimensione ti sollecita alla ripetizione sterile della logica della negazione (Lazzerini, nella discussione, riporta che l’ornitologa del bar – dove tutto e spiegabile con la logica - dovesse rappresentare per Hitchcock, una posizione reazionaria come anche la madre dei bimbi che schiaffeggia, sempre nel bar, Melanie: “da quando sei arrivata tu, gli uccelli sono impazziti: è colpa tua”…). Forse il film è un classico, perché coglie le agonie primitive della nostra vita psichica (Winnicott, 1963) e, quindi, ci riguarda tutti. Ci porta intimi alla possibile tragedia, sempre incombente perché la psicoanalisi da qualche tempo si occupa dell’uomo tragico e non più dell’uomo colpevole. Per questo mi ha fatto molto riflettere il finale. Ho pensato che il film si aprisse a tre possibili percorsi, non alternativi, ma simultanei. L’Unheimlich non è solo una posizione che ci deve paralizzare, ma chiede rispetto e può portarci altrove e più avanti nella nostra esperienza: Mitch ora non cerca di sbarrare ogni finestra o porta, ma si muove lentamente e rispettosamente fra uccelli quieti, facendo attenzione a non calpestarli. Non è più la fuga, ma il darsi tempo perché gradualmente si ricostituisca una nuova dimensione familiare da nuove esperienze. In secondo luogo, ho pensato che Mitch che si muove con cautela fra gli uccelli in agguato usa una sufficiente - e finalmente sana - dissociazione dell’evento: c’è la minaccia paralizzante, ma puoi muoverti se a quella minaccia puoi associare la tua capacità di saperti muovere e di saper vivere. Questa volta significa saper tenere separate, ma parallele e simultanee, il terrore e la vita. La sana dissociazione che ti permette di muoverti fra gli uccelli in agguato è che per ora non devi capire cosa sta accadendo, ma devi solo fare operazioni che ti tengano vivo. Per “capire” c’é tempo. Infine, la macchina che si allontana sempre più in fretta fuori di Bodega Bay mi ha fatto pensare al sollievo non dello scampato pericolo (che sollievo è se, nella tua vita, gli uccelli, possono sempre impazzire se intanto non hai imparato come dialogarci?...) ma al sollievo della giusta distanza che impariamo a sondare continuamente tra noi e gli uccelli che per fortuna ci seguiranno sempre quando cerchiamo l’amore e vogliamo portare due love birds a Bodega Bay, un posto che non conosciamo e dove non siamo mai stati, dove invece Lydia è rimasta drammaticamente sola e dove Anne si è rinchiusa in una scuola da cui è impossibile uscire.

Tornando in piazza.

Alla fine dei tre film mi verrà in mente una considerazione che lega la mia esperienza di oggi dei tre film: forse il tema sono le donne: In Ladri di biciclette, la moglie di Antonio è un personaggio molto marginale, ma alla fine è lei che trova la soluzione di come procurarsi la bicicletta vendendo le lenzuola. E’ di lei che Antonio teme il giudizio mentre con il figlio, in una inversione di ruoli dove Bruno è lì a giudicare la fragilità del padre, si aggirano per le periferie di Roma alla ricerca inutile del ladro e della bicicletta. Catherine di Truffaut è il potere delle donne, regine in un mondo di uomini che a fatica cercano di vivere. Infine le donne di Hitchcock, Melanie, Annie, Lydia, persino la ornitologa, sono tutte le possibili passioni della nostra vita e dove lo stesso Mitch, è la forza maschile che sa intervenire, ed è chiamato solo ad esserci e ad avere un ruolo solo se le donne hanno un problema. Alla fine, è Melanie che lo sa cercare, Lydia che teme di perderlo ed è Annie che lo sa lasciare.

“Chacun pour soi est reparti,

dans l’tourbillon de la vie”

(Serge Rezvani, 1962 -Catherine)

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