Sabato, Aprile 20, 2024

“The social dilemma” di Jeff Orlowski (2020). Recensione di Roberta Leone

Questo documentario, uscito nel gennaio 2020 e diretto dal trentaseienne pluripremiato regista newyorkese Jeff Orlowski, di recente sembrerebbe aver attirato l’attenzione di molti spettatori. Rivelatore rispetto all’idea e atteggiamento con cui di base in molti si pongono indulgenti (inconsapevoli?) nei confronti delle nuove tecnologie del web, in particolare di motori di ricerca e social-media/network, attraverso cui vengono raccolte preziose informazioni personali. Strumenti che man a mano prendono il controllo del tempo di chi ne fa un uso continuativo, a discapito di cosa? una perdita di controllo del mentale, del pensiero e della creatività, che cedono spazio alle grandi industrie del mondo digitale e non solo, anche del marketing e del commercio. Certamente quella presentata potrebbe sembrare una visione drastica del dilemma, questi social hanno anche portato buone cose, i progressi della tecnologia del web sono d’aiuto all’essere umano da decenni.

Il documentario propone di scostare un telo oscurante rispetto ad aspetti solitamente poco presi in considerazione relativi ad usi, consumi, abusi di tali strumenti e conseguenze annesse; tra le quali: i bisogni non-bisogni che prendono il sopravvento insieme ad accattivanti desideri effimeri frutto dell’attuale modus vivendi. Il tutto in assenza quasi totale di una legislazione che si occupi del rispetto dei principi etici da parte dei vari social rischia di creare un vuoto abissale che in alcuni casi, i peggiori, lascia i più indifesi sprofondare in un reale baratro.

Parlarne fa respirare, come dopo una giornata buia in cui il cielo è stato a lungo oscurato dalle nuvole, e poi d’improvviso uno spiraglio di luce e il cielo si fa terso grazie al vento che soffiando via le nuvole mette fine all’ombra e muove un’aria leggiadra. Respiriamo e ci godiamo un po’ di verità disvelate, smascheramenti e con sguardo di autentica conquista ci appropriamo delle nuove conoscenze acquisite e della responsabilità di elaborarle per poi scegliere se difenderle o meno.

Un dilemma sociale, oggetto del documentario, quello cui siamo sottoposti nel quotidiano e che subdolo entra nelle nostre case, nei nostri spazi più intimi, nelle nostre menti. Il dilemma avrebbe a che fare con il controllo che queste Intelligenze Artificiali hanno già imposto su di noi.

La parola “manipolazione” è usata svariate volte nel documentario: inquieta. Si tratta di una manipolazione nascosta che crescendo esponenzialmente accresce rapidamente il potere di pochi, gravando su una involuzione e impasse intellettuale per molti.

Subdole invasioni cui siamo sottoposti e cui attivamente partecipiamo giornalmente consentendo a delle “ombre” di acquisire, senza sforzo alcuno, informazioni su: chi siamo, cosa desideriamo, cosa attira o meno la nostra attenzione, chi ci coinvolge maggiormente sentimentalmente, in amore e odio. Permettendo ad altri di aumentare così vendite e guadagni a proprio favore, di ottenere informazioni che se ci venissero chieste “da umano a umano” negli stessi momenti in cui le concediamo attraverso questi strumenti, momenti quali la mattina appena svegli, quando ci occupiamo della nostra cura quotidiana, quando stiamo cucinando tra una torta e un po’ di sale da aggiungere nella minestra non concederemmo. Sarebbe alquanto fuori luogo, ci sentiremmo irritati e infastiditi e chiuderemmo semplicemente la porta per avere un po’ di privacy; eppure lì, attraverso quello strumento che ci fa sentire face to face e a tu per tu con noi stessi e con le nostre “preferenze” concediamo tutto, quasi avessimo il dominio noi su di lui, è questa l’illusione che vince: “è il nostro telefonino, nostro! fa parte delle nostre cose e dunque non c’è pericolo e soprattutto non ci sono altri di mezzo” eppure quello specchio dall’altro lato ha milioni di algoritmi, come lo specchio-spia usato per gli interrogatori nei film polizieschi. Ecco la cosiddetta I.A. che proprio in quel momento senza cautele o leggi che proteggano gli “users” approfitta come meglio possibile di loro, favorita dalla di loro stessa ingenuità.

Il mea culpa dei principali promoter e inventori di tali piattaforme virtuali, protagonisti nonché fautori di questo documentario, impone una riflessione. Non prevedendo la rapidità con cui il loro lavoro gli sarebbe sfuggito di mano, si sono trovati ad essere loro stessi vittima delle proprie creazioni e anziché affogare nel lago in cui riflettevano un proprio Vero Sé disperso hanno deciso di uscire allo scoperto e parlare cercando una soluzione da contrappore a un dilagare narcisistico, che a tratti può sembrare senza via d’uscita. Seppure nello stesso documentario chiaramente utilizzino sofisticate tecniche per sollecitare e catturare l’attenzione degli spettatori, invitandoli a un nuovo pensiero comune e soprattutto aiutando sé stessi a sollevarsi dalla colpa, quello che propongono sembra essere una sana riparazione.

Ormai dare il consenso alle fastidiose icone sulla privacy che ci avvertono prima di aprire una pagina è automatico. Siamo assetati, vogliosi di leggere l’informazione nascosta, oscurata da quella pagina se prima non accettiamo di dare il consenso, vogliamo andare avanti e in fretta anche perché abbiamo altro da fare o in altri casi perché chissà quale altra chicca ci sarà nascosta dietro il prossimo giro di slot machine e questo non è casuale, una chicca dietro il prossimo giro ci sta ed è lì appositamente per lo user del momento. Spacciatori raffinati gli algoritmi matematici che dominano il sistema delle più grandi piattaforme al mondo. Così, in modo abbastanza semplice, viene spiegato il sistema di algoritmi che domina i social network, su cui una grande fetta del sistema pubblicitario e quindi di marketing imprenditoriale si fonda e grazie al quale lucra, aggiungerei. Il punto è che non si tratta semplicemente del guadagno economico ma del fatto che questo sistema fluisce senza arrivare mai a sazietà, permettendo a un bulimico buco nero di continuare a cibarsi di informazioni private. Con conseguenze funeste: l’aumento di disagio mentale dilagante tra i pre-adolescenti e/o la nascita di gruppi carichi di aggressività pronti a sfogare e convertire i propri disagi intrapsichici in agiti (manifestazioni rissose) seguendo un ideale interno plastico (strumentalizzato tra le altre cose da fake news) nel cercare di svegliarsi dal torpore dettato dalla carenza di legami nutritivi, per poi scontrarsi con la nuda realtà che delude in modo dissacrante, conducendo a un crollo narcisistico tanto banale da aspettarsi, quanto crudele nei suoi effetti.

La tristezza che il ragazzino prova nel leggere i commenti negativi su di sé, nel subire il cyber bullismo è reale e purtroppo amplificata, a seconda del giovane e delle proprie pre-condizioni mentali, dall’isolamento cui l’abuso di questi strumenti -come se fossero dei reali amici in carne ed ossa- conduce. Stiamo parlando di Addiction.

Al centro del documentario si espongono alcuni tra i vari giovani “ingegneri della tecnologia” che per primi hanno dato avvio alla trappola che una volta avviata ha preso il sopravvento anche su loro stessi. Solo così il risveglio delle coscienze sembrerebbe essere stato possibile. Il desiderio di proteggere sé stessi, i propri figli e le generazioni attuali più che future, dalla dipendenza invasiva e ottundente da questi mezzi di telecomunicazione che sono diventati dei mezzi attraverso cui, erroneamente, fondare la propria autostima e cercare il piacere ogni qualvolta una piccola, anche minima, frustrazione fa capolino dalla finestra della vita reale, della vita enigmatica e tortuosa in cui tutti siamo dentro, ma anche della vita che ti sorprende positivamente.

Nessuno nel documentario parla esplicitamente di pensiero. Eppure di fatto è questo che passa e a cui ho pensato: l’utilizzo sfrenato di questi social porta a perdere di vista la propria capacità di critica e di giudizio e quindi la possibilità sacrosanta di pensare autonomamente, permettendosi di sbagliare, di riflettere più di un istante prima di dire o fare soprattutto qualcosa, prima di commentare o di cliccare su “mi piace” o “non mi piace”. Le generazioni dei più giovani sembrerebbero quindi le più vulnerabili a questo enorme fenomeno; in difficoltà nel dare una risposta adeguata, per potere porre il giusto limite personale alle invasioni del quotidiano. Tutti siamo comunque esposti a questa nuova realtà.

Alla fine del documentario gli interpreti, non attori ma reali protagonisti del dilemma, ci lasciano un monito e anche una speranza. Questo però non ve lo svelo, a voi la visione.

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