“Inizio un trattamento… assicurandogli che, chiudendo gli occhi,
vedrà immagini o avrà pensieri casuali che dovrà comunicarmi”
(Freud, 1899, 562)
Storie già scritte (con finale).
Durante il film ho pensato alla sospensione delle certezze: il partito da una parte e le persone con la loro vita quotidiana dall’altra. Spesso la forma è in conflitto con la vita e il film dice che per passare dall’una all’altra si tratta di un processo perché, prese ognuna dal suo vertice, entrambe hanno buone ragioni. Se l’Ungheria nel ’56 si ribella deve essere riportata alla regola, altrimenti crolla tutto. Ma poi c’è il circo Budavari dove tutto può essere ribaltato e Vera e Paola che portano l’amore. Poi ci sono due film che devono essere girati. Uno che si risolve con le pistole, l’altro prevede che alla fine Ennio, segretario della sezione PC del Quarticciolo, debba impiccarsi. E’ tutto scritto e non si capisce perché l’Ungheria, ad un certo punto, non sia d’accordo e ponga dei seri problemi. In tutto il film il tema è l’Ungheria che pone problemi. Giovanni non capisce perché il finale dell’altro film debba essere girato in quel modo: mille altri registi - e nella notte puoi telefonare persino a Scorsese o a Renzo Piano - non accetterebbero sicuramente quel finale e tutto si blocca per otto ore, perché quell’ultima scena non è pensabile. Dura otto ore ed è all’incontrario della scena dell’alba di Ecce Bombo. In entrambi i casi dopo una faticosa sospensione si torna alla trama già scritta.
Poi Giovanni non capisce perché Paola, con la quale “parliamo di tutto, di politica, di cinema, di lavoro… io e Giovanni siamo sempre stati così: abbiamo sempre parlato di tutto…” improvvisamente, vuole che “si parli di noi!”. Eppoi: tua figlia, quelli di Netflix, e i produttori coreani: tutti vogliono che cambi il finale a cui avevi pensato!
Questo dovrebbe essere il mestiere degli analisti. Francesco che qualche seduta fa mi chiede se ho fatto una diagnosi su di lui: “se uno va da un medico, il medico gli dice che cosa ha e quale è la cura. Io e lei dottore, ci vediamo da tre anni: vuole dirmi qual’è la mia diagnosi?”. Gli analisti sanno che le risposte sono due. La prima è il riconoscimento delle giuste ragioni dei pazienti, e quindi: la diagnosi. La seconda non è la diagnosi e riguarda il motivo di fondo che spinge Francesco a venire due volte a settimana da un analista, ovvero: “non voglio sapere come si chiama il mio dolore, ma voglio sapere se conosci il mio dolore!”. Gli ho detto una diagnosi. Lui mi ha aiutato perché il giorno dopo ha scoperto da internet che quella diagnosi non era lui! E ne ha dedotto che “allora lei non mi conosce!”. Ho colto il suo aiuto e, dopo aver riconosciuto la violenza del mio gesto di classificarlo secondo un codice che non ci riguardava, ho potuto restituirgli che quella violenza, di cui io ero sicuramente responsabile, era accaduta mille volte nella sua vita e accadeva tuttora quando dolorosamente si trovava costretto in situazioni in cui non si sentiva riconosciuto. Forse era il motivo per cui ci incontravamo io e lui: non si trattava di spiegare o capire, ma di cercare di modificare un finale violento che nella sua vita era scritto da sempre!.
Le donne contro l’Ungheria.
In un altro film il protagonista Michele ribadisce (in una macchina, che torna spesso nei film di Moretti: forse è dove evidentemente sei costretto all’intimità, e dove accadono i pensieri e la musica?…) che “siamo uguali agli altri, ma siamo diversi”. I cambiamenti magari li puoi pretendere, ma nel film che ho appena visto, i cambiamenti questa volta non li pretendi ma “ti vengono a cercare”. I cambiamenti passano dalle donne che fai fatica a capire. Giovanni è messo in mezzo fra le donne e gli uomini. Gli uomini sono rassegnati e tristi, sono quelli del PCI e sono Moretti di “40 fa quando ero magro ed ero allenato”. Gli uomini sono: “aspettiamo. Vediamo qual’è la posizione del partito!”; produttori inaffidabili, registi di film improbabili, dirigenti di Netflix, tristi e grassi direttori di un circo dove lo spettacolo dovrà procedere nonostante gli elefanti siano due invece che quattro! Nella cornice del circo possono accadere eventi solo apparentemente surreali, ma nel circo è depositata la rivoluzione che sta per arrivare. Sono arrivati nel piccolo quartiere perché sono compagni comunisti? Forse. In realtà sono il cambiamento. Arrivano comunisti, ma cambieranno profondamente (cosa diventano? Sicuramente non saranno più i comunisti che sono arrivati, ma diventano diversi…). Il film non potrà andare avanti perché il produttore è come l’Ungheria: non è affidabile! Quindi arrivano quelli di Netflix che non guardano ciò che accade, ma guardano solo che loro “sono presenti in 190 paesi!”. È Paola che ti passa i produttori coreani a cui piace tanto la scena dell’impiccagione del dirigente comunista. Ho pensato che questa volta Moretti si parla attraverso le sue donne che sanno fargli il verso e quello che lui sostiene o, senza parlare comunica, questa volta è autoironico. L’autoironia non è nei contenuti, ma nei toni, soprattutto nei toni di Vera, la protagonista del suo film. Vera è contro Ennio; è contro le posizioni del partito. Vera cambia il copione introducendo costantemente l’amore al posto del tono della politica: “perché gli prende le misure in quel modo e lo abbraccia… che vuol dire?... Questo non è un film d’amore! … Che significa che fai la seduttiva… lei semplicemente non è d’accordo e basta!”. Vera, sa leggere oltre il copione sovietico e, andando su Internet, scopre che quella diagnosi e violenta perché tiene fuori l’amore (che riguarda anche gli analisti): “Ma Giovanni! è chiaro che c’è un rapporto d’amore fra me e lui… che è un gioco!”.
È Vera che si alza dal pubblico e parla ad Ennio delle buone ragioni del cambiamento. È Vera che raccoglie le firme per sostenere la rivolta ungherese: “Scusa Giovanni tu pensi di voler fare un film politico, ma chi se ne frega della politica. Questo è un film d’amore!”. Ma gli uomini non capiscono e mantengono il loro finale: “Ma questa è una scena in cui parlate di politica!” Le donne sono Paola che finalmente riesce a dire a Giovanni che lo lascerà e poi la figlia che ti presenta il suo compagno anziano che sposerà.
La musica
Il film è leggero. La citazione di Calvino mi ha fatto pensare poi alla leggerezza che deve essere continuamente cercata: “Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere!”. La leggerezza non è la qualità di un evento, ma è un processo. È nella frazione fra la severità di Giovanni e degli uomini rigidi e politicizzati e la danza proprio mentre tutto è cupo. La leggerezza viene dal rapporto (intersezione) fra queste due dimensioni. È le canzoni nella macchina proprio mentre Paola ti parla del suo film crime con i produttori coreani. È nella canzone che mette insieme tutti quelli della troupe. È nella confusione in cui tutto si mescola e ognuno parla da solo componendo una sinfonia di confusione: la prova di una orchestra prima dell’esibizione.
La leggerezza passa attraverso la musica e la rottura dello schema rigido delle scene soprattutto quando tutti ballano (accade due volte). La leggerezza è la musica di Aretha Franklin che coinvolge Giovanni e Paola nella macchina. Si tratta di superare un altro blocco tra Paola e Giovanni e Giovanni, costretto nel chiuso della macchina, cerca faticosamente di spiegare a Paola perché soffre: come per Francesco la diagnosi, per Giovanni sono i sabot di Vera: “quelle scarpe che coprono le dita dei piedi ma lasciano scoperto il tallone!” A differenza degli altri film di Moretti in questo, nella macchina, Paola e Giovanni non cantano ma ballano al ritmo di Aretha Franklin: “Think”. Io e Francesco riusciamo faticosamente ad andare oltre le parole e ci comunichiamo la violenza che ora può trovare un responsabile che non sei tu! Questa volta le parole non contano, conta la musica e la danza: “voglio vederti danzare…”. È la soluzione surreale della danza improvvisa. La danza leggera è quella dei trapezisti nel circo ungherese che per un attimo si sospende perché non ci sono più soldi, ma poi li ritroviamo tutti nella marcia finale. Ho pensato a quanto percorso c’è fra le “Le parole sono importanti!” con ciò che conta adesso: “Sono solo parole”. Anche qui la canzone nasce in macchina, quando non sai come dire che il tuo dolore non chiede la diagnosi, ma che non ti senti riconosciuto. Poi è bello che la canzone ti porta sul set dove devi iniziare le riprese di un film di cui sei certo di conoscere bene la trama che non deve essere cambiata. Per fortuna, nessuno ti risponde, ma tutti si sintonizzano e danzano lenti sulla tua canzone dove riconosci che “Il tempo che ho passato con te ha cambiato per sempre ogni parte di me… non troviamo motivo neanche per litigare”. Il doppio registro del film – le parole inutili e la musica - si impone e si parte con le riprese di un film già scritto.
E poi, Battiato, quando hai appena finito di spiegare come sarà il film che hai immaginato proprio partendo dal finale che non accadrà mai. Chiami: “azione”, ma tu per primo non ci credi e non uscirai dalla scena. Ci rimani dentro e cominci a ballare con lo sfondo le case del Quarticciolo e tutti gli attori che si sintonizzano sulla tua danza. Anche i due ragazzi che non sapevano come litigare e che si sono finalmente baciati nel cinema ora nella danza si dicono “voglio vederti danzare… mentre gira tutto intorno alla stanza, mentre si danza, mentre si danza”.
È accaduto in altri film di Moretti, e anche questa volta Giovanni insegue un pallone ed è bello sentire le cadenze ritmiche, sempre più lente, di Giovanni che palleggia. Ma è diverso. Non si tratta di riempire un’attesa in una sosta a Stromboli o perché decidano chi sarà il Papa. Questa volta, lentamente tutti vanno via dalla piazza e Giovanni rimane solo a palleggiare. A me è sembrato un altro tipo di musica, lenta e cadenzata che ti accompagna a trovarti solo. L’altra musica, l’ho sentita quando tante persone sono sulla scena dove Giovanni sente che non va bene niente. C’è confusione. Questa volta la confusione disegna un piccolo coro che compone un’armonia dissonante dove tutti parlano con nessuno e gesticolano parlando a se stessi. La musica, questa volta è il brusio di fondo che cresce. Nel film c’è spesso il passaggio dai gruppi di gente alla dimensione dell’essere soli. Questa volta sei solo perché Paola vuole lasciarti e tu ti chiedi finalmente come può essere possibile che qualcuno possa volersi separare. Sei solo sul divano perché Paola si occupa di un altro film e tua figlia ha un improbabile amante da raggiungere. Sei solo perché la solitudine è una stazione dei processi.
La rivoluzione in Ungheria (ovvero: il sogno)
L’ultima scena non si dovrà girare e Ennio non si impiccherà più nonostante “questa è la scena più importante del film: ho sempre sognato di fare un personaggio che alla fine si impicca”. L’ultima scena cambia radicalmente nonostante Giovanni abbia pensato il suo film dalla fine, ovvero da quella scena che poi non si dovrà girare perché finalmente, come nei sogni, “la storia si può fare con i se”.
Qui accade un bel passaggio che ultimamente accade spesso nei film dove, nonostante la realtà, nessuno poi muore (Bellocchio, Tarantino…). Questa volta è il film che dichiara il proprio statuto potente di sogno: “non è vero che la storia non si fa con i se e i ma! È il contrario: la storia si farà finalmente con i se!”. Qui ritorna Calvino, questa volta con la leggerezza che inverte la posizione del partito e Togliatti si affaccia ad ascoltare Vera e i circensi e poi la lunga carrellata finale dove tutti, finalmente possono essere ascoltati dal partito, da Giovanni, dal produttore inaffidabile, da tutti quelli della strada con cui, poco prima, si era creato un coro confuso e dissonante. Si può andare verso la stessa direzione, ma non c’è bisogno di essere tutti d’accordo. Basta essere nella stessa direzione.
Ovvio che un analista non scriverà mai una storia partendo dalla fine. I veri finali delle storie accadono perché “il significato evolve nel corso dell’interazione” (Boston Change Process Study Group, 2010, 151). Gli analisti sanno che i finali che i pazienti ci portano non sono quelli veri. Non sono stati sognati e, quindi, rimangono lì. Infatti per me la lunga passeggiata finale (fa venire in mente il Terzo Stato, e Novecento…) è il sogno di Calvino che nel film avrebbe voluto “lo slancio all’iniziativa dal basso in tutti i campi”; è il sogno nelle lettere che fanno sopravvivere Moro (Bellocchio) alla concretezza di chi aspetta “come si schiererà il partito” o il sogno di Polansky (Tarantino) che può accarezzare ancora la pancia di Sharon Stone. Non ricordo cosa accadeva negli altri film di Moretti, ma questa volta la musica conta e il film è musicale perché le parole dicono che in Ungheria c’è una breccia pericolosa, mentre la musica dice finalmente che Paola ti lascerà perché – come Calvino per il PCI – lei ti ama e non può accettare che vuoi suicidarti.
Negli altri film di Moretti era diverso. In questo Giovanni guarda a sè e non importano più gli altri: fuori il mondo è bloccato dai Caimani, da Dalema che non riesce a dire nulla di sinistra, dall’assenza di tua madre o da altri film che non riesci a fare. Questa volta, se cambi il finale, il film si può fare. Nel film, questa volta, ti guardi addosso e trovi che dopo otto ore gli altri potranno finalmente finire il loro film in cui uno fa giustizia con una pistola, o tua figlia va in direzioni per te improbabili o Paola ti ama ma non ti capisce o Togliatti si affaccia alla stanza e non ti parla.
Nel sogno tutto si ribalta, non perché il sogno non sia il desiderio al posto della frustrazione, ma perché è soprattutto vedere la cosa da un altro vertice che è sempre presente.
“comprendere una qualunque catena logica
di pensiero significa seguire uno zig-zag”
(Bollas, 2009, 23)
Suggerimenti bibliografici
Bollas Ch. (2009). La domanda infinita, Astrolabio, Roma.
Boston Change Process Study Group (2010). Il cambiamento in psicoterapia, Cortina, Milano, 2012.
Freud, S. (1899). L’interpretazione dei sogni, O.S.F., Vol. 3, Boringhieri, Torino.