Venerdì, Dicembre 13, 2024

Close. (Lukas Dhont, 2023). Note di Mariaclotilde Colucci e Laura Porzio Giusto

Scoprendo di essere state entrambe sollecitate rispettivamente da amici che ci avevano vivamente consigliato di vedere Close definendolo “imperdibile”, decidiamo di vederlo insieme.
Lukas Dhont si era già fatto apprezzare nel 2018 con la sua prima opera “Girl”, film in cui il regista belga disegna un ritratto intimo e potente di una adolescente transgender in piena transizione. Dopo quattro anni Dhont torna dietro la macchina da presa regalandoci un altro gioiello di cinema d’Autore. Presentato a Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della giuria, Close è già inserito nella papabile lista degli Oscar per il miglior film straniero.

La pellicola narra la relazione tra due tredicenni, Lèo e Rèmi.
Close ci evoca la qualità e l’intensità del loro legame, fatto di inseparabili momenti di quotidianità, familiarità, intimità, prossimità fisica, dimensioni affettive che intrecciano i due ragazzi e le rispettive famiglie, ma anche una sorta di chiusura rispetto al mondo esterno a loro, necessaria per certi aspetti, a delineare i confini di un luogo caldo e sicuro in cui fare esperienza, sentire, giocare, crescere.
Ci siamo sentite parte di questa fluida continuità esperienziale vissuta dai due ragazzi, immersi in quella che forse si potrebbe avvicinare a una sana fusionalità tipica di un’esperienza di oggetto-sé gemellare.
La delicata e potente fotografia rende questa esperienza concreta, in cui sembra anche a noi di correre a velocità sfrenata in bicicletta verso la scuola, a casa, attraverso immense campagne.
È tutto aperto, grande, la nostra stessa prospettiva ne viene ampliata. E al contempo ci troviamo ri-strette in quel piccolo segreto cunicolo in cui Lèo e Rèmi giocano, fantasticando di prepararsi a difendersi da potenziali nemici.
Viviamo un’oscillazione, presagio forse di un brusco passaggio, tra uno sguardo che si perde all’orizzonte e luoghi e spazi angusti. E li sentiamo insieme, vicini e chiusi, camminare e sostare, e forse difendere quel territorio segreto, familiare e sconosciuto.
Per buona parte del film si ha come la sensazione che il tempo scorra lento, uguale a sé stesso, non c’è azione, un susseguirsi di eventi che intrecci la storia. Ci sono Lèo e Rèmi, il loro tempo, che se fuori fluisce uguale e lento, ci fa intuire ben altro movimento interno, solo vissuto, non è tempo di pensieri e parole.
La pressione a definire, a fornire risposte a interrogativi non ancora formulati, interrompe quel fluire dell’esperienza, impone nuovi equilibri, modalità soggettive di proteggere quel luogo, di separarsene, di rimanerci attaccati, di non abitarlo più, di ritornare a correrci dentro o di correre via per allontanarsene.
Una ricerca continua che si declina tra dentro e fuori, laddove però nessuno riesce davvero a entrare in quella relazione close, a porsi in ascolto, a funzionare come terzo.
Si riesce ad essere d’aiuto nel fermare la rabbia che esplode, ma poi nessuno va oltre.
La pellicola però va avanti, e noi viviamo momenti di disorientamento e profonda commozione.
Close può essere forse definito un film di formazione, il racconto della delicata e complessa transizione dall’infanzia all’adolescenza verso l'età adulta, ma poi sentiamo che sfugge a questa o ad un’altra possibile definizione.
Usciamo dalla sala. Ci scambiamo poche parole sul film. Non ne abbiamo molte, siamo ancora immerse nelle diverse emozioni vissute fino a poco prima, e per riprendere la strada c’è bisogno di tempo. Parliamo d’altro. Solo qualche ora dopo, ciascuna tornata alle proprie cose, uno scambio di messaggi ci trova in sintonia sull’idea di scrivere qualche parola insieme.

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