Venerdì, Aprile 19, 2024

Emilio Masina, Si può dare di più? La guerra che non vogliamo. (2022)

 

In questi giorni la paura per lo sganciamento di una bomba atomica in Ucraina e per la ritorsione della Nato che porterebbe alla fine del genere umano spinge i nostri pazienti a sognare bunker sotterranei e territori sicuri dove rifugiarsi (Dubai? La Mongolia?), o a vivere una cupa rassegnazione: “Cerco di non pensare alla bomba per non aumentare l’angoscia e il senso di impotenza”; oppure a fare la fantasia di salvare i propri figli (la parte più preziosa e vulnerabile di Sé?), mandandoli a vivere fuori dall’Europa. Se il terapeuta si sforza di cogliere nelle parole dei pazienti le connessioni con la loro dolorosa situazione personale – attribuendo ad esempio il rifiuto di pensare all’atomica al temuto riconoscimento di un crollo mentale subìto nell’infanzia e il bunker al desiderio di reinfetarsi - egli non può non accorgersi che, come durante la pandemia, si trova a vivere le stesse angosce, in uno stato di relativa simmetrizzazione con chi gli si affida. In queste occasioni è particolarmente chiaro che la mente individuale è inserita in una trama interpersonale e transpersonale che la stimola e la orienta costantemente. Il lavoro dello psicoanalista che cerca di neutralizzare la pulsione di morte impastandola con gli aspetti libidici, affettuosi e vitali, si scontra con una dimensione di realtà che preme l’acceleratore sulla logica emozionale amico/nemico; disfacendo di notte nel buio dell’Inconscio collettivo, come una tela di Penelope, ciò che è stato faticosamente tessuto alla luce della consapevolezza. Lo scienziato Jared Diamond nel suo libro bello e inquietante[1] prende in rassegna diverse civiltà che si trovavano sull’orlo del collasso ma non hanno saputo accorgersene, votandosi così all’estinzione; mentre l’esploratore David Livingstone, attaccato e quasi sbranato da un leone durante un viaggio in Africa, racconta di aver vissuto l’esperienza in uno stato di trance paralizzante e quasi piacevole: secondo alcuni studiosi una risposta difensiva della sua mente rispetto al terrore della morte. La passività degli europei di fronte alla scelta scellerata della guerra, nonostante si moltiplichino i segnali di pericolo – messa in campo di armi sempre più potenti, sdoganamento della catastrofe nucleare con dichiarazioni e previsioni avventate, attacchi terroristici a persone e infrastrutture, sfide nei cieli fra i caccia russi e quelli della Nato – spinge a domandarsi: siamo oggi nella stessa situazione delle popolazioni descritte da Davidson, oppure viviamo come nella trance di Livingstone?

Suonano sempre attuali le parole scritte da Freud nel 1915: “La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, e ci ha portato la delusione (…) Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che è chiamato il diritto delle genti (…) Spezza tutti i legami di solidarietà che possono ancora sussistere tra i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé un rancore tale da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione”. Lo psicoanalista pacifista Franco Fornari[2] spiega che la guerra è il risultato del meccanismo di elaborazione paranoica del lutto che non riusciamo ad accettare: quello della nostra morte. In altri termini, la morte è un male che dobbiamo espellere da noi, come un boccone che ci è andato di traverso, per salvare la vita in ogni modo e a ogni costo, anche cercando un nemico da annientare. Alludeva a questo contatto con il fantasma terrificante della morte anche Bertolt Brecht, quando scrive con linguaggio poetico: “Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico”? Ha scritto padre Alex Zanotelli: “Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che il mondo è unico, e il coraggio di capire quanto sia suicida questo nostro ciclo di violenza”.

Alla luce delle parole di Fornari viene da pensare che la dottrina della deterrenza, lo schierare gli arsenali atomici per spaventare l’avversario e indurlo a non attaccare, rappresenti il dispiegamento di un meccanismo paranoico che, come è oggi evidente nella crisi ucraina, aumenta l’angoscia persecutoria del nemico, inducendolo a pericolosi passaggi all’azione. 

Cosa possiamo fare noi psicoanalisti in una situazione come questa? In primo luogo, come ha scritto Anna Ferruta, sforzarci di funzionare come contenitori delle angosce dei nostri pazienti, ponendoci come “rifugi viventi”. Forse, però, possiamo dare di più[3] e muoverci anche come movimento che svolga una funzione “politica”, in grado di aiutare cittadini e governanti a recuperare una “posizione depressiva”[4]; che consenta di elaborare scissioni e proiezioni favorendo l’avvento della Pace.

 


 

[1] “Collasso”, 2005, Einaudi editore.

[2] Psicoanalisi della guerra atomica (1964), Edizioni di Comunità; Dissacrazione della guerra (1969), Feltrinelli; Psicoanalisi della guerra (1979), Feltrinelli.

[3] La canzone di Gianni Morandi “Si può dare di più”, che ha vinto nel 1987 il festival di Sanremo segnalò che il desiderio della pace era diffuso a livello popolare: "Perché la guerra e la carestia - Non sono scene viste in Tv - E se tu dici lascia che sia - Un po' di colpa ce l'hai anche tu”. Sembrano passati secoli!

[4] La posizione depressiva, secondo la psicoanalista Melanie Klein, segue la posizione schizo-paranoide in cui il bambino scinde e proietta nella madre le emozioni che sente cattive e pericolose. Nella posizione depressiva il bambino riesce a fare una sintesi degli aspetti contrastanti buoni e cattivi nella madre e in se stesso, a rendersi conto che la madre è una sola e che quella che lo sgrida è anche la mamma che lo nutre. Questa esperienza è utile al piccolo per capire che se attacca la madre che lui considera cattiva rischia di perdere anche la mamma buona.

 

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