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Commento di Giulio Cesare Zavattini su “More than one can Live” (Incontro con Jessica Benjamin. Centro di Psicoanalisi Romano, 13 giugno, 2019)

Sono molto onorato di discutere il lavoro di Jessica Benjamin “More than one can Live”: reconceiving Harm and Reparation in the Intersubjective World” che affronta molti temi che sono ampiamente affrontati nel suo ultimo libro, “Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo” (Benjamin, 2017). Uno dei punti centrali del suo saggio è che le basi dell’etica abbiano le loro radici nella natura sociale dell’essere umano a meno che – come nel libro di Primo Levi “I sommersi e i salvati” - che la Benjamin cita all’inizio dell ‘ultimo capitolo “Al di là di “solo uno può vivere” -, non ci sia la brutale e terribile dicotomia “amico-nemico” in cui solo uno può sopravvivere facendo scomparire il “mondo giusto”.

L’approfondita analisi rispetto a come intendere “la riparazione” che Jessica Benjamin fa del lavoro di Melaine Klein (1935, 1940) riguarda la contrapposizione tra quanto ancora rimase nel pensiero della Klein del “Drives Model” di Freud e della pulsione di morte da contrapporre alla modellistica successiva, ossia le varie teorie delle relazioni oggettuali, con riferimento sia a Winnicott che a Fairbairn che hanno trovato una diversa risposta sulle origini dell’odio.

L’aspetto più rilevante che Jessica Benjamin mette in luce è come siano cambiati i paradigmi interpretativi dello sviluppo infantile dopo i contributi dell’infant research e dell’attaccamento e come ciò abbia influenzato positivamente, a mio avviso, il movimento psicoanalitico.

Se facciamo riferimento al lavoro pioneristico di Lou Sander sull’emergere della persona attraverso la consapevolezza (Sander, 1987), al concetto di “affect attunenement” nell’opera di Daniel Stern (Stern, 1989), al “still face experiment” presentato da Edward Thronick nel 1975 al ‘The biennial meeting of the Society for Research in Child Development’ e più recentemente ai contributo di Beebe e Lachman, soprattutto il saggio del 2014 “The Origins of Attachment. Infant research and adult treatment”, ci si rende conto che in quasi tutte le spiegazioni avanzate dai modelli recenti l'organismo umano viene inteso come intrinsecamente sociale, inserito in una matrice di relazioni e portato a stabilire legami con gli altri in modo primario e fondamentale come illustrato nella neurobiologia dello sviluppo da Daniel Siegel (Siegel, 1999) e dalla teoria della regolazione degli affetti di Schore (Schore, 2003).

Vi è, cioè, una maggiore consapevolezza dell’interconnessione di ogni essere umano con tutti gli altri esseri umani come già ci veniva annunciato da Stephen Mitchell (2000) e dalla scoperta dei neuroni specchio da parte dei ricercatori italiani dell’Università di Parma guidati da Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese.

Questi aspetti hanno aiutata la Psicoanalisi a “disincagliarsi” dalle secche non solo della metapsicologia delle pulsioni, ma anche da ciò che rappresenta il bersaglio della Benjamin sul piano dell’intervento clinico, ossia l’attacco al legame come un aspetto che potrebbe apparire un “tratto istintuale” o legato alla forza della costituzione.

La “prospettiva relazionale” sostiene, infatti, che i maggiori problemi psicopatologici anche se fenomenologicamente diversi (come ad esempio la dis-regolazione emotiva o la carenza del sense of agency, o l’impulsività incontrollata, oppure il difetto della stima di sé) sono da comprendere come conseguenti ad un mancato sviluppo della capacità di stare in relazione che dipendono da un fallimento della capacità parentale di sostegno e sensitivity (Benjamin, Atlas, 2015).

Come osserva la Benjamin “lo sfacelo” della madre non va visto come il risultato disastroso di un sadismo primario, ma come una reazione all’insufficienza dell’oggetto che nasce nel mondo interpersonale in cui il processo di rottura e riparazione non ha potuto essere portato a termine.

Ciò ha concorso a determinare una nuova etica per la psicoanalisi quella che si potrebbe chiamare un’etica della reciprocità che ha le base nell’idea che la mente emerge da uno scambio comunicativo biunivoco in cui avvengono, inevitabilmente, momenti di riconoscimento e rottura.

Come ha osservato, infatti, Thronick in un suo famoso saggio, “Why is connection with others so critical? The formation of dyadic states of consciousness” (Thronick, 2004), é normale che lo sviluppo proceda attraverso una tensione tra rotture e riparazioni.

Come osserva la Benjamin nel capitolo “Il nostro appuntamento a Tebe. Riconoscimento, testimonianza fallita e timore di ferire” nel libro già citato, il senso di un mondo giusto inizia con pattern intersoggettivi co-creati e il principio secondo cui questi pattern rappresentano il Terzo, l’esperienza di interagire in accordo a loro, è la terzietà.

Quando questi patti vengono violati e devono essere corretti, c’é bisogno di una forma di riconoscimento che ripristini l’esperienza della terzietà e stabilisca il Terzo come un principio che ci sostiene e ci contiene rispetto alle interruzioni (Benjamin, 2017, pag. 71).

Il riferimento alla ricerca di Beebe e Lachmann ci fa capire bene come questa oscillazione tra rotture e riparazioni dei pattern interattivi che sorgono a livello procedurale, sia alla base del senso della intrinseca socialità umana creando una piattaforma comunicativa di fondo – il Terzo ritmico – espressione dell’adattamento reciproco che determina il senso dell’unione e della sincronia da cui potrà svilupparsi il Terzo differenziato.

I processi evolutivi si evolvono, cioè, tramite cicli di contatto/perdita del contatto/ ripristino del contatto, il problema è quando si innesca una sorta di “reciprocità negativa” che apre a cascata una prolungata e durevole dissintonia.

La Benjamin è chiarissima: “Possiamo vedere il trauma evolutivo come principalmente un trauma di mancato riconoscimento, in cui la paura e la sofferenza non sono state riconosciute, in cui il bisogno di tenerezza e di calma è stato negato e ignorato, le violazioni non sono state corrette o sono state ulteriormente negate.”

E’ anche quello che Karlen Ruth Lyons (Ruth-Lyons et Al., 2006) mette in evidenza rispetto alle radici della disorganizzazione e della futura dissociazione. In realtà i bambini, nonostante i traumi che possono innescarsi nella prima infanzia hanno una capacità di resilience, ossia di recupero, se non intervengono nuove situazioni avverse. Ma tra i predittori più negativi va visto soprattutto l’aspetto reiterativo della non disponibilità materna e la sua insentivity. In altri termini il fattore più rilevante è la qualità dell’accudimento nell’infanzia.

L’eziologia di tale reazione psicopatologica alla base della disorganizzazione e della dissociazione non sarebbe quindi meramente di natura individuale o intrapsichica, ma un processo interpersonale e dinamico che ha origine nello scambio tra sé e l’altro e che solo successivamente sarà interiorizzato.

Ma la psicoanalisi può dire di più ed andare oltre il pur importante studio delle interazioni.

E’ qui che diventa prezioso il lavoro di Jessica Benjamin che, facendo riferimento al modello di Fairbairn si chiede come si possa andare oltre la “riparazione depressiva” in cui vi è l’idea che la realtà della catastrofe e della riparazione siano dissociate, siano cioè tenute in stati del sé diversi. Il quesito diventa: “Questo collegamento non è forse il lavoro della psicoanalisi? L’idea di collegare il morale e il tragico cambia la nostra comprensione della riparazione?”.

Lo spazio della terzietà è dove si affrontano le divergenze. Non è rendere semplicemente buono ciò che era stato cattivo, ma aprirsi all’imprevisto come diceva Winnicott e al cambiamento. Ciò non si raggiunge con la negoziazione del contrasto, o appianando le divergenze, incongruenze o rotture, nemmeno vedendo semplicemente l’influenza reciproca tra analista e paziente, ma accettando la possibile collisione che possa contrastare la dissociazione. Il riconoscimento va inteso rispetto a ‘quello che sta succedendo qui’ al livello intersoggettivo per creare la regolazione affettiva trasformando così gli stati d’ansia in condivisione.

In questo senso l’analisi non può non essere che una realtà esperenziale sempre in movimento. Come scriveva Bion in ‘Notes on memory and desire’: “L’osservazione psicoanalitica non si occupa né di ciò che è accaduto, né di ciò che accadrà, bensì di ciò che accade” (Bion, 1967), o come scrive Ogden (2015) quando osserva che bisogna comprendere la verità di quello che accade in seduta.

In questa prospettiva, paziente e psicoanalista possono costruire insieme una consapevolezza condivisa attraverso l'esplorazione delle reciproche cecità dissociative lavorando in uno spazio transizionale.

All’inizio la riparazione nell’area della terzietà – come nel caso di Aliza - si riferisce al recupero di un ritmo o di una connessione interrotti. Ed é particolarmente importante notare che riconoscere la violazione delle aspettative negli schemi procedurali (in seguito simbolici) è una parte fondamentale della riparazione delle rotture o interruzioni.

E’ un tema che, sul piano della raggiungibilità della sofferenza di un paziente, scandisce la differenza tra il modello della rimozione e quello della dissociazione, così come la differenza tra l’inconscio rimosso e quello non rimosso (Boccara, Meterangelis, Riefolo, 2018).

Come dice Bromberg in quel bel saggio “Mentalize This! Dissociation, Enactment and clinical process” dove parla anche di Rousanne, la mentalizzazione indica anche l’inevitabilità dello scontro fra le due soggettività nel lavoro in seduta (Bromberg, 2008).

Tale ottica considera l’analista co-partecipe, insieme al paziente, a un’integrazione transferale-controtransferale reciprocamente costruita, sottolineando la natura interpersonale del transfert e della continua dialettica tra transfert e controtransfert – non isolati o artificialmente scissi tra loro, ma considerati come processi reciprocamente ‘intenzionali’.

Come la Benjamin ci fa vedere bene nel caso di Aliza la sua prospettiva clinica si sforza di includere il livello implicito e procedurale affrontato dagli studiosi dell’Infant Research, quale Beatrice Beebe e il Boston Change Process Study Group integrando la lettura delle relazioni oggettuali con la conoscenza dei pattern impliciti dell’eccitazione e della regolazione così come si co-creano nel sistema diadico.

Rispetto al tema della dissociazione e dell ‘enactment è centrale sia nel caso di Roseanne che di Aliza l’idea degli stati del sè negoziati tramite la collisione. Potrei anche dire, con riferimento a Thronick, l’inevitabile rottura che é sempre insita nelle relazioni umane o come osserva la Benjamin: “ .. i fallimenti sono una condizione per attuare la riparazione e collegare ciò che era stato dissociato”.

Se si riesce a “stare negli spazi”, é su questo registro che la clinica del trauma e della dissociazione ‘rilancia’ il tema della ragiungibilità di un paziente difficile che si porta dietro traumi relazionali precoci.

E’ nella “azione”, ossia là dove é collocata la parte dissociata del Sè e non nel ricordare e svelare ciò che una volta era nel pensiero, ma che é stato rimosso, che un paziente come Aliza o Roseanne può essere raggiunto. Pertanto le fratture cliniche, gli enactment, sono considerate inevitabili, anzi sono necessari per mettere a fuoco i bisogni e i dilemmi con cui il paziente ha lottato invano, “servono” per riconciliarsi, per la sicurezza e la connessione, il conforto e l’eccitazione.

Non è, cioè, il disvelamento dell’enactment, è il riconoscimento di quello che sta succedendo qui a livello intersoggettivo ciò che serve a creare la regolazione affettiva, trasformando così gli stati d’ansia in una condivisione più tranquilla di emozioni specifiche, il mutuo riconoscimento.

Gli enactment sono, infatti, dal punto di vista relazionale – un mezzo per consentire un’esperienza, altrimenti dissociata e posta a livello sub-simbolico di prendere corpo sulla scena dell’interazione. Come osserva Lingiardi (Lingiardi et Al. 2011) se l’effetto del trauma implica un danneggiamento delle funzioni integrative della mente, con la produzione di ‘amnesia retroattiva’, una ‘memoria somatica’ priva di rappresentazione simbolica, quindi inaccessibile alla riflessione e al linguaggio, che Wilma Bucci (2009) definirebbe “sub-simbolica” e Donnel Stern “esperienza non formulata” (Stern, 1997), dobbiamo misurarci con la rimessa in atto (enactment) dei residui tossici delle esperienze invalidanti e di disconferma dell’infanzia che ben presto si presenteranno nella stanza d’analisi.

E’ non riconoscere e non accettare “E’ colpa del gorilla”, per dirla con Bromberg, (Bromberg, 2006) che andrebbe ricondotto l’odio che i pazienti provano verso l’analista, l’attacco al pensiero invece che essere visto come un attacco al legame come rientrava in una lettura classica del transfert negativo, implica il riconoscimento e la “testimonianza” dei momenti di fallimento della capacità dell’analista di ripristinare o trovare un contatto.

Per instaurare “un mondo giusto”. come ho già accennato, é necessario che all’inizio la riparazione nell’area della terzietà si riferisca al recupero di un ritmo. È così toccante quanto la Benjamin scrive rispetto ad Aliza che ritorna in analisi dopo la morte della sorella maggiore: “Aliza riuscì ad esprimere con forza il suo bisogno che io ascoltassi sempre invece di formulare e raccontare i miei sentimenti, invece di parlarle dall’intelletto. ….. In effetti voleva la regolazione degli affetti e spesso mi chiedeva di rallentare”.

Ma ciò che conclude un enactment con un successo e’ il riconoscimento analitico del fallimento a individuare la paura e il dolore del paziente, o il fallimento ad assecondarne i ritmi. Il riconoscimento, tuttavia, non coincide con l’idea di influenza reciproca, è necessario: “ .. un ulteriore asse di libertà vs coercizione, in cui l’altro è visto come un soggetto che partecipa anziché un oggetto da controllare” (Benjamin, 2017, pag. 71).

Parafrasando Bronberg e la Benjamin, direi che é necessario per l’analista sia saper dire, ahi!, sia sapere dire “Mi scusi”, nella direzione di riconoscere nel transfert-controtransfert la rabbia profonda e il terrore reciproco di farsi male o di non essere all’altezza dell’impegno emotivo. La liberazione avviene non solo attraverso l’essere riconosciuto, ma anche attraverso il dare riconoscimento.

 

 

Giulio Cesare Zavattini

Psychoanalyst SPI and IPA; Full Prof. in “Psychopathology of couple and parental relationships”, Sapienza, University of Rome

 

 

Bibliografia

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