
Memorie dal presente.
Cento anni di omotransfobia …. per non ripetere.
Anna Cordioli e Laura Porzio Giusto
Articolo pubblicato in Cardia R., Colucci Mc. (a cura di), Gruppo: Omogeneità e differenze. Crudeltà e follia nell’epoca dell’incertezza catastrofica del tempo digitale e della intelligenza artificiale. ARGO Onlus – Associazione per la Ricerca sul Gruppo Omogeneo Roma/Milano/Padova, dicembre 2024, 10, pp. 219- 246. https://www.argo-onlus.it/la-rivista/
Abstract
Il lavoro ripercorre alcuni passaggi della storia di una minoranza, la comunità queer, colpita da pregiudizi, discriminazioni e persecuzioni ma attraversata anche dai movimenti di liberazione che hanno costruito la strada per acquisire visibilità, diritti e dignità. Interrogare la storia consente di osservare corsi e ricorsi che si sono reiterati e che continuano a ripetersi nel nostro tempo attuale, laddove sembra che a una maggiore visibilità e richiesta di diritti ha corrisposto, in passato e nel presente, l’aprirsi e l’intensificarsi di sacche omotransfobiche.
L’articolo riflette sugli effetti traumatici di tale processo, individuali e collettivi, mettendo in luce il ruolo protettivo e di sostegno di appartenere a una comunità. Il senso di appartenenza a un gruppo apre alla possibilità di riconoscere e riconoscersi, lenire il senso di solitudine e indegnità, legittimarsi il diritto di esistere e diventare promotori attivi di cambiamenti sociali e culturali.
Parole chiave: diritti, discriminazione, queer, riconoscimento, trauma
Abstract
The article traces some passages in the history of the queer community as a minority hit by prejudice, discrimination and persecution and the liberation movements that have built the way to gain visibility, rights and dignity. Interrogating history allows one to observe courses and recurrences that have repeated themselves and continue to repeat themselves in our present time, where it seems that increased visibility and demand for rights has been matched, in the past and in the present, by the opening and intensification of homotransphobic pockets.
The article reflects on the traumatic effects of this process, individually and collectively, highlighting the protective and supportive role of belonging to a community. A sense of belonging to a group opens up the possibility of recognizing and acknowledging oneself, soothing a sense of loneliness and unworthiness, legitimizing one's right to exist, and becoming active promoters of social and cultural change.
Keywords: rights, discrimination, queer, recognition, trauma
Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, negli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze,
nelle suture più delicate dei sentimenti. (P.P. Pasolini)
“La memoria non deve finire; si deve anche ricordare alle generazioni future di rimanere vigili” (Herog R., Istituzione della giornata della Memoria 27 gennaio 1994)
Fino a quel momento avevamo pensato tutti che l’omosessualità fosse un termine medico. Improvvisamente vedemmo che potevamo essere una minoranza – con dei diritti, una cultura, degli obiettivi. (E. White)
Il tempo umano non è lineare ma più spesso ciclico. Per questo risulta molto facile far dialogare elementi storici e contemporanei, storie di vite passate e presenti.
La coazione a ripetere non è un fenomeno che riguarda solo la singola psiche, ha una epifania anche a livello sociale ma essa può essere riconosciuta solo se possiamo avere memoria del prima, se riusciamo a tenere a mente gli eventi accaduti nella stessa scena, oggi come nelle quattro generazioni prima. Come sostiene Fonda (2023) l’inizio di un’elaborazione dei grandi traumi sociali è realmente possibile solo attraverso lo scorrere di almeno un secolo. Solo con il trascorrere delle generazioni possiamo valutare se il deposito traumatico abbia preso vie realmente elaborative oppure se le violenze ritorneranno pressoché identiche al passato.
Che la storia presenti dei cicli è cosa risaputa ma la questione è se, con il nostro agire quotidiano, stiamo collaborando con un moto evolutivo oppure con uno regressivo. Michel de M'Uzan (1969) distingue ciò che egli chiama il ripetersi del medesimo da ciò che invece chiama il ripetersi dell'identico. La ripetizione dell’identico esclude l'emergere del nuovo e della trasformazione. Ritrovare nel presente, elementi uguali a quelli del passato (le stesse parole, gli stessi ragionamenti, gli stessi gruppi sociali) getta l’umanità in una atemporalità del tempo circolare. La psicoanalisi ha però potuto osservare che esiste anche il ritorno del medesimo, ovvero una scena indubbiamente marcata dalla coazione distruttiva ma in cui nuove forze possono apportare trasformazioni lente ma vitali.
Per poter osservare e distinguere questi due diversi processi, serve però saper ricordare, opporsi alla forza gommosa dell’oblio, soprattutto quello che cade a coprire scene altamente violente e dunque traumatiche. In particolare basta approfondire un po’ la storia per accorgersi che le aggressioni omo-lesbo-bi-transfobica tornano ciclicamente, più o meno sempre con le stesse parole e azioni.
Riteniamo importante che gli operatori della salute mentale e gli operatori sociali sappiano accorgersi quando la storia si replichi uguale a sé stessa o quando, invece, appaiano elementi di novità. Il nostro viaggio fluttuerà, come in un processo associativo, attraverso varie generazioni di persone della comunità LGBTQIA+[i] ascoltando la storia e le storie, nel ripetersi di elementi comuni ma anche negli sforzi di promuovere un cambiamento. Questa scelta è un’occasione per approfondire eventi spesso sconosciuti alla maggioranza della società, evidenziando sia la presenza transgenerazionale del trauma nella comunità queer[ii], sia i fattori di resilienza capaci di innescare movimenti nuovi e trasformativi.
“Ci sono preconcetti che continuiamo a lasciar girare indisturbati nei discorsi e che, invece, sono frutto di quella amnesia post-persecuzione. Ad esempio l’idea che la presenza delle persone queer sia una novità legata alle “mode” è frutto di questa logica. [...] Esiste una ipocrisia di fondo nel raccontare la comunità queer come sempre giovanissima: pare sempre appena arrivata nella società. [...] questa iconografia sempre più “teen” è frutto dell’amnesia dei drammi del passato. [...] Le persone LGBTQIA+ vengono addirittura sostenute dalla società ma a patto che vivano in un tempo effimero, come i fiori recisi, durando su questa terra solo il tempo del loro transito individuale. Non devono lasciare segno, non devono riunirsi in associazioni o comunità, e soprattutto non devono entrare nel circolo delle generazioni, se non come rami secchi.” (Cordioli, 2024, pp. 310).
In questo lavoro, cercheremo invece di portare l’attenzione sull’importanza che ha, per una presa di coscienza della distruttività omotransfobica, la memoria.
1. Fuori da questa casa e da questa società
“Mio padre quando ha scoperto che sono transgender mi ha messo la valigia davanti alla porta della stanza. Le scelte erano due: o la riempivo e me ne andavo o accettavo di essere curato anche farmacologicamente per la mia situazione di instabilità e malattia mentale, come la definiva lui.” Aveva 18 anni.
Bisogna immaginare la scena (corsivo nostro), pensateci un momento. Il giorno prima la cena di compleanno con gli amici e i genitori, regali e candeline da soffiare, selfie e abbracci. Il giorno dopo non rimane più nulla. La strada. Solo quella” (Alliva, 2020, pp. 48-49)[iii].
Leggiamo questa storia, una, due, tre volte. Chi scrive ci chiede di fermarci, e immaginare la scena. Sembra dire per favore non andate alla pagina successiva prima di aver provato a vedere e sentire cosa è accaduto a questo ragazzo, nella propria famiglia. È un invito a non cedere all’indifferenza, come accade invece in molte altre storie raccontate attraverso questa inchiesta, in cui chi vede o chi sa non fa nulla, passa oltre. Un’altra faccia della violenza.
Ci lasciamo convocare. Proviamo a immaginare questo ragazzo, 18 anni, non è il protagonista di una sceneggiatura di un film o di una serie televisiva. È un ragazzo in carne e ossa che racconta la propria storia dopo aver trascorso tre anni tra la strada e case di accoglienza: “Non posso raccontare troppo dei miei tre anni passati per strada, non me lo chiedere. Non mi chiedere i dettagli” (ivi, p. 49). Come si deve essere sentito? Che cosa significa essere cacciati da casa dai propri genitori, per chi si è? Come ha trascorso questi anni e quale impatto avranno sulla sua vita futura? Quali vissuti ed esperienze sono così dolorosi e traumatici da non poter essere narrati? Immaginiamo che Ale, questo il nome del ragazzo, si sia trovato dilaniato in un terribile dilemma, quello a cui l’ha messo davanti il padre: o rinunci a te stesso o perdi tutto, i tuoi affetti, un luogo sicuro dove stare, la scuola, gli amici, una prospettiva futura.
Pierre Seel aveva 18 anni. Era il giugno del 1940 e l’Alsazia-Lorena era stata appena annessa alla Germania. Erano subito cominciate le retate contro “gli indesiderati”: mendicanti, zingari e omosessuali. I delatori, al soldo dei nazisti, facevano affari. La stessa polizia francese aveva stilato una “Lista Rosa”.
Pierre fu convocato dalla Gestapo; era omosessuale, Pierre. Dalla stazione di polizia, finì quasi subito nel Campo di concentramento di Schirmeck. Triangolo rosa. La sua colpa era quella di sporcare il sangue e il buon nome della sana società per cui combattevano i tedeschi. Era stato lo stesso Himmler, nel 1933 ad impegnarsi affinché il famoso paragrafo 175, che già da secoli rendeva illegale l’omosessualità in Germania, venisse inasprito con pene esemplari e largamente crudeli (Vignolo Gargini, 2016).
Pierre si fece il campo di concentramento e scontò la pena per il suo “crimine”, ne uscì derelitto. La famiglia accettò di riprenderlo a casa a patto che non parlasse mai dei motivi della sua incarcerazione: “Il silenzio che mio padre impose rispetto alla mia omosessualità restò in vigore anche dopo il mio ritorno in famiglia dal campo di Schirmeck: nessuna confidenza da parte mia, nessuna discussione da parte loro. Tutti agivano così, come se non fosse successo nulla.
Ritornai e restai una figura incerta: evidentemente non avevo ancora capito che ero rimasto in vita. Gli incubi mi affliggevano di giorno e di notte. Io mi esercitavo al silenzio” (Seel, 1994, p.103).
Ma la guerra era in piena espansione per cui fu, ironicamente, costretto all’arruolamento e mandato sul fronte russo. Sopravvisse ma il suo incubo continuò.
Pierre, a 24 anni, distrutto dalla guerra e perseguitato senza requie per la sua omosessualità, riuscì a tornare a casa. La guerra era finita per quasi tutti. Sicuramente non lo era per quelli come lui. Pierre e le altre persone omosessuali erano, per lo stato, dei criminali.
In Italia, la repressione dell’omosessualità e delle varianze di genere non fu da meno anche se aveva da sempre scelto la strategia dell’isolamento nella vergogna.
Il primo codice penale adottato dopo l’unità d’Italia, ossia il Codice Zanardelli (1890), decriminalizzò l’omosessualità: essere persone omosessuali non costituiva più, di per sé, un reato. “L’omosessualità era un comportamento ‘ripugnante’ ma se compiuta fra adulti consenzienti, non poteva essere considerata dalla legge” (Benadussi, 1973, p.102). Tuttavia, benché non costituisse reato, la repressione delle condotte ritenute “scandalose”, come quelle omosessuali, non si placò.
L’intento del legislatore era di promuovere una sorta di baratto: nessuna repressione penale in cambio di una condotta di vita che mantenesse l’omosessualità nell’ombra. Dell’Orto (1988) afferma chiaramente che il silenzio e la censura furono le autentiche armi usate dallo Stato italiano per reprimere l’omosessualità.
Mentre nel 1937 Himmler (in Vignolo Gargini, 2016, p. 129) sosteneva che il 10 per cento degli uomini in Germania fossero omosessuali, l’onorevole Rocco, una decina di anni prima (nel 1927) affermava che, nella riforma del codice penale non era necessario introdurre pene particolari contro l’omosessualità perché “Il turpe vizio … non è così diffuso in Italia” (Manzini, 1936, p. 218). In Italia si era scelta dunque una negazione sistematica e una gestione sociale che da prima fu sociale-morale e poi fu medica.
Colpisce l’incredibile strategia di quel sistema gommoso. Colpisce anche l’utilizzo di un alto funzionamento psichico per perfezionare l’aggressione: il meccanismo repressivo, in Italia, non agisce per effetto di una scissione che esista in agiti eclatanti (come avveniva in altre nazioni) ma si insinua nel tessuto sociale chiedendo una virtuosa adesione al concetto di moralità e di sanità. Avviene cioè una seduzione (“sarai rispettato se sei eterosessuale”) e un ricatto coartato (“non c’è spazio per le persone omosessuali nella nostra Italia”).
L’omertà della legge puntava a mantenere l’ignoranza e faceva da volano ad una repressione più infiltrante e duratura rispetto ad una “semplice” pena da scontare. Lo stigma si infiltrava, diventava controllo sociale fin dentro le famiglie e rafforzava, nella mente del popolo, l’idea che omosessualità e transessualità[iv] fossero delle epifanie visibili di un male pericolosissimo.
Scoprire di avere in casa una di queste persone era la peggiore delle sorti, peggio di una malattia mortale, poiché non solo si sarebbe attivata l’attenzione di istanze morali ma anche perché ciascuno veniva educato nell' idea che questo male fosse contagioso e deteriorante.
Nel 2022 in Italia si riportano 400 casi di ragazzi e ragazze cacciati/e da casa a causa del loro orientamento non eterosessuale o della loro identità di genere non cis, di cui solo il 10 per cento riesce a trovare rifugio nelle case famiglia protette (Report Gay Helpline, 2022). E sappiamo che i dati relativi a episodi omotransfobici sono sottostimati. Molte persone non denunciano né raccontano la propria storia ad associazioni o giornali. Per le persone nascoste infatti, denunciare spesso significa confessare quello che hanno sempre cercato di mascherare per paura. Non si denuncia per vergogna, per timore, perché non esiste una legge. Perché spesso non si viene ascoltati.
La solidarietà tra esseri umani, però, trova sempre un modo per rispuntare, anche nei contesti più repressivi. Negli anni Sessanta in America, quando le leggi nazionali mantenevano la comunità queer nell’illegalità, nascevano centri spontanei in cui fare esperienza di reciproco sostegno (le “Houses”), oggi divenuti le odierne case di accoglienza per giovani LGBTQIA+, vittime di violenza e rifiutati dalle proprie famiglie.
É sulla base di questa solidarietà che è andato costruendosi il senso di comunità, che ha corrisposto e continua a corrispondere al bisogno di alleviare la solitudine, difendersi dagli attacchi, essere riconosciuti come (anche numericamente) esistenti per portare avanti lotte e rivendicazioni di diritti.
2. Silenzio, indifferenza, ripetizione.
Dominique Cupa, nel suo articolo “Indifferenza: l’“oltre” dell’odio” (2012), a proposito della distruttività crudele, sottolinea quanto essa manifesti un ‘no’ feroce verso l’esterno, un “no” all’altro e al suo diritto di esistere, “un ‘no’ senza fine, il ‘no’ della coazione a ripetere, essendo lo psichismo graffiato (narcisisticamente) come un disco rotto” (p. 33). La crudeltà si sente sempre giustificata e conduce al totale “diniego dell’alterità, che fa che l’altro non sia più concepito come un simile” (p, 34). Internamente si accende un bisogno di annientamento tale che la psiche si rifiuta addirittura di raffigurarsi questo “altro”: si rifiuta di conoscerlo, lo deforma, lo sfigura per poi distruggerlo meglio (Cordioli, 2024). È dunque un rifiuto che non permette alcun dialogo e non vi è nessuna messa in dubbio della distruttività conseguente. Per di più, questo genere di distruttività tende a tornare…
Lo strumento più potente della distruttività, secondo Cupa, è giungere ad una totale indifferenza nei confronti dell’Altro. Una indifferenza, aggiungiamo noi, che è la base dell’oblio, che a sua volta porta alla ripetizione del trauma.
All’inizio degli anni ‘60 del Novecento le vittime ebree dell’olocausto iniziavano a fatica a raccontare al mondo le atrocità che avevano subito. Il popolo tedesco e le autorità minori si trinceravano dietro il famoso “Non sapevamo”.
Nel documentario “Gli ultimi giorni” (Moll, 1998) un sopravvissuto alla Shoah ricordava il terrore e il disgusto di dover tornare negli stessi luoghi in cui i vicini di casa li avevano denunciati, tra la stessa gente che aveva applaudito alla loro spoliazione e deportazione. Si doveva tornare a vivere vicini, come se nulla fosse accaduto?
Il risveglio dalla febbre della “Peste bruna”[v] aveva, dunque, anche la forma dello stralcio di un velo che copriva la verità. Era forse un velo di falsa coscienza oppure di efficientissima forclusione, ma toccava ammettere che la società che accolse i reduci dei campi di concentramento era la stessa che aveva permesso la loro persecuzione.
Nel 1976, uno storico, Rudiger Lautmann, organizzò un lavoro di raccolta di informazioni presso l’archivio di stato, ad Arolsen. Il custode rimase sorpreso “Omosessuali nei campi di concentramento? Di questo argomento non ha mai chiesto nessuno… e poi ce n’erano così pochi! Come volete fare a trovarli?” (Lautmann, 2002). Iniziava così una delle ricerche più frustranti e ineffabili della sua carriera di storico.
Tra il 1933 e il 1944 i tribunali del Terzo Reich avevano condannato 50.000 persone nella sola Germania, in base al paragrafo 175[vi] (Le Bitoux, 2002, p.58). Dall’istituzione di campi di lavoro (poi chiamati di concentramento), nel 1937, il numero dei condannati superava le 30.ooo unità, senza contare i condannati dalle regioni non tedesche, annesse o invase dopo l'inizio della guerra. Alcuni studi ipotizzano numeri non inferiori a 300.00 tedeschi (Vignolo Gargini, 2016, p. 55)
Nella sua ricerca archivistica sui campi di concentramento, Lautmann trovò traccia però di “solo” 1.600 prigionieri “col triangolo rosa”. I motivi di questa sparizione degli individui erano molti. Ad esempio si comprese che le donne lesbiche venivano internate prevalentemente col triangolo nero: considerate “asociali”, pervertite, prostitute. Per questo il loro numero è ancora più incerto.
Questa ineffabilità dei conteggi dà la misura della potenza obliante della macchina repressiva volta a fare sparire. Parte delle vittime non sono individuabili perché all’inizio del regime, prima del perfezionamento della soluzione finale, non esisteva il simbolo del triangolo rosa e i condannati per omosessualità venivano tradotti al campo come semplici criminali, con la connivenza della società. Lautmann che si trovò a frugare in quel vuoto di informazioni, quasi in risposta a chi irrideva quei numeri esigui, scrisse: “Noi siamo stati una piccola minoranza di perseguitati, anche perché siamo ancora oggi una piccola minoranza nella società” (Lautmann, 2002, p.40).
Le persone omosessuali e transessuali che erano scampate alla persecuzione e alle atrocità naziste, si trovarono dopo il 1945 in una società, pressoché identica a quella hitleriana: sottoposti alle stesse leggi e alle stesse vessazioni. Per questo tacquero.
Lo storico Klaus Muller da trent’anni si occupa di memoria dell’olocausto omosessuale ed in particolare di raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti. La prima cosa di cui si rese conto fu che, dalla fine della guerra al 2001, era stato possibile raccogliere meno di una ventina di testimonianze.
Come scrive Muller, uno dei motivi per cui tutt’ora esistono pochissimi studi sulla persecuzione e sul massacro delle persone queer, è perché non sono riconosciuti come dei sopravvissuti. “Nel concetto di sopravvissuto […] c’è il semplice e però assolutamente necessario riconoscimento del torto sociale che toccò alle vittime del nazionalsocialismo. Gli uomini e le donne col triangolo rosa non avevano mai fatto esperienza di questo semplice riconoscimento. Lì si è esclusi da tale cultura della memoria” (Muller, 2002, p. 93).
Il 99 per cento delle persone omosessuali sopravvissute ai campi non ha mai raccontato la propria storia (ibidem). Costoro sono stati costretti a restare soli con i loro terribili ricordi e soli, con essi, sono morti.
Ma l’oblio colpisce anche ciascuno di noi, che viviamo senza poter imparare dal passato, senza poter provare solidarietà con un’intera parte dell’umanità, inconsapevolmente esposti a ripetere i drammi prodotti dall’indifferenza.
“Era una sera d’estate in piazza Bra, Verona, uscivano da una gelateria molto nota con la Gran Guardia sulla loro destra. Mano nella mano, è sera e sono pronti ad avviarsi verso casa. Da un branco di ragazzi arrivano i primi insulti: culattoni di merda, femminucce, rotti in culo. “Ho detto ad Andrea lascia stare. Lui no, si è girato e ha chiesto spiegazioni. Uno di loro si è staccato dal gruppo, ha dato una spinta a me e una sberla fortissima ad Andrea. Dietro le nostre spalle c’erano i militari. Davanti i vigili urbani. Ci dirigiamo verso di loro con questo coro che ci perseguita. Sai, io non riuscivo nemmeno a realizzare quello che stava succedendo. Poi il ragazzo che ha schiaffeggiato Andrea si è avvicinato al vigile e gli ha detto: ‘Non vedi che sono due froci di merda?’. Non un sussulto. Il vigile si è limitato a mandarlo via.” (Alliva, 2020, pp. 100-101).
La psicoanalisi si è molto interrogata sulla patologia dell'indifferenza che è, prima di tutto, indifferenza morale. Indifferenza e duplicità caratterizzano la posizione ambigua e la personalità ambigua, individuate da Josè Bleger (1967) e riprese dagli psicoanalisti argentini che hanno sofferto e pensato la violenza di stato. “Silvia Amati Sas ha trasposto sul piano della psiche collettiva e sul rapporto tra individuo e regime totalitario la concettualizzazione di Bleger relativa ai meccanismi di esportazione del nucleo ambiguo dell'Io, ovvero della parte indifferenziata o simbiotica della mente, che contiene affetti incompatibili ed opposti, senza conflitto” (Morpurgo, 2007, p.508).
Amati Sas (2000) ha descritto il lento processo attraverso cui la massa diviene dapprima acquiescente di fronte ai regimi militari per poi giungere ad una accettazione della violenza di Stato. Il nucleo ambiguo diviene stabilmente un funzionamento dello psichismo della massa e rimane in circolo anche oltre il momento di regime.
Con le parole di Freud possiamo affermare che “l'organizzazione patogena non si comporta tanto come un corpo estraneo, quanto piuttosto come un'infiltrazione” (1892, p. 426). Quando si cerca di affrontare questo genere di strutture “infiltranti”, non è sufficiente cercare di isolare e sradicare un singolo contenuto: per quanto è nei comportamenti che si agiscono le crudeltà, il nucleo ambiguo funziona come un intero sistema di tolleranza nei confronti della distruttività. Non è un caso che sia l’indifferenza alla sofferenza dell’altro uno dei suoi sintomi socialmente visibili. Agisce cioè come un apparato di resistenze volte a tacitare eventuali conflitti morali (ad esempio sulla giustezza di repressioni violente) e dunque facilita tanto la negazione cosciente dell’evento quanto la scarica crudele che rimane impunita. Ciò che serve è un lavoro sulla memoria e sul riconoscimento dell’infiltrazione perversa alla base delle crudeltà perpetrate a livello sociale.
Il 27 Gennaio del 1945 i soldati russi, aprirono i cancelli del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz, in Polonia.
Nel 1996 la Germania decise di istituire, proprio in quella data, la Giornata della Memoria, in ricordo di tutte le vittime del fanatismo nazista. L’Italia istituì una iniziativa simile, quattro anni dopo. Nel 2000 però la memoria dell’Italia era coperta troppo corta e qualcuno restò fuori…
La legge 211 del 20 luglio 2000 recita infatti: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte […]” (Gazzetta Ufficiale, Luglio 2000).
Che fine hanno fatto le persone rom, i sinti, le persone disabili, le persone omosessuali, le persone trans*, quelle affette da disturbi mentali, i testimoni di Geova, le persone senza fissa dimora?
Per quanto riguarda il rapporto con la Comunità LGBTQIA+ è bene ricordare le tensioni che ci furono proprio in quei caldi mesi tra aprile e luglio 2000.
L’anno del passaggio di Millennio, era stata scelta come sede del World Pride proprio Roma. Già all’inizio dell’anno il segretario di stato vaticano, Angelo Sodano, aveva chiesto pubblicamente che le autorità non permettessero lo svolgersi della manifestazione perché avrebbe disturbato il Giubileo (Corriere della Sera, 29 gennaio 2000). Di lì a poco Francesco Storace, esponente di Alleanza Nazionale, promise che se fosse stato eletto non avrebbe permesso la manifestazione del Pride. Sempre Alleanza Nazionale fece un’interpellanza in parlamento e l’allora Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, rispose:” Purtroppo dobbiamo adattarci ad una situazione nella quale […] vi è una Costituzione che ci impone vincoli e costituisce diritti” (Vignolo Gargini, 2016, pp. 118)[vii].
Quattro giorni dopo il Comune di Roma ritirò il patrocinio al World Pride. Il 9 luglio il Papa, Giovanni Paolo II, durante l’Angelus parlò dell’offesa recata al Giubileo e ai valori cristiani e cattolici della città.
É in questo clima che il 20 luglio, verrà varata la Giornata della Memoria all’italiana: così immemore dei fatti del ‘900 mentre li reiterava in una chiave minore a causa dell’esistenza della Costituzione…
Un'ulteriore nota amara riguarda poi il 17 maggio, Giornata contro l’Omo-lesbo-bi-transfobia: istituita nel 2004 dalle Nazioni Unite, è stata ufficialmente ratificata da 130 stati nel mondo ma non dall’Italia. Tutt’ora i siti ministeriali ne parlano “solo” come una Giornata votata dal Parlamento Europeo nel 2007.
Il ritorno di istanze omofobe e discriminatorie è ampiamente facilitato dal non aver fatto i conti con la storia nazionale e mondiale. Questo facilita la riemersione di pregiudizi.
Cordioli (2024) osserva come esista un processo di rimozione della memoria che lascia depositi molto specifici, nel percepito sociale. L’idea diffusa che l’omosessualità e la fluidità di genere siano una moda, una stranezza contagiosa, figlia del tempo attuale, è un’idea che sottende la negazione del fatto che questa parte della popolazione ci sia sempre stata.
Leggendo il bel libro storico di De Leo (2021), si scopre che la stampa di propaganda omofoba nel 1920 (come era già successo nell’800 e come succede oggi), gridava che l’omosessualità e la “confusione dei generi” non c’erano mai state in un numero così grande, che erano frutto di mode decadenti e avrebbero portato alla fine della civiltà.
Questa indifferenza omofoba, basata sul nucleo ambiguo, agisce negando due ambiti specifici: l’esistenza storicizzata delle persone queer e la loro persecuzione.
Ad oggi, se si parla anche con persone attente come i colleghi terapeuti, si assisterà facilmente ad una sottostima delle difficoltà attuali della comunità LGBTQIA+. In realtà negli ultimi anni si stanno verificando sempre più spesso aggressioni verbali e fisiche a danni di persone omosessuali, transgender e non-conforming.
Un’indagine dell’European Union Agency for Fundamental Rights (FRA) nel 2020 rileva che il 32 per cento delle persone italiane LGBTQIA+ intervistate dichiara di aver subito molestie per il proprio orientamento sessuale, la loro identità o espressione di genere. Tra le lesbiche la percentuale sale al 41 per cento, per le persone trans* al 48 per cento. L’anno successivo a questa indagine, il 27 ottobre 2021, metà aula del Senato esulta e applaude alla bocciatura del DDL Zan, approvato alla Camera nel novembre 2020.
A maggio 2024 da Bruxelles arriva la notizia che l’Italia è tra i nove paesi – con Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - che non firmano la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore della comunità LGBTQIA+, preparata in occasione della giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia.
Nel giugno 2024 i giornali riportano alcune frasi attribuite a Carmine Alfano, medico primario e candidato con la coalizione di centro destra a sindaco di Torre Annunziata: “In America vanno di moda i ricchioni, qui esistono gli uomini e le donne, i binari[viii] non esistono”,e ancora “tutti quanti là dentro, nel forno crematorio a Cava de' Tirreni e abbiamo risolto il problema”.
Secondo lo studio Rainbow Europe 2024, pubblicato ogni anno da ILGA Europe, l’Italia si colloca al 36esimo posto su 49 paesi. Subito prima di noi la Lituania e a seguire Georgia, Latvia, Bulgaria, Romania, Ucraina, fino ad arrivare all’ultimo posto occupato dalla Russia.
I diritti delle persone LGBTQIA+, a confronto con l’Italia, sono più rispettati nell’Ungheria di Orban che guadagna la 30esima posizione.
I motivi riportati per la posizione italiana sono molti e dettagliati: l’ hate speech perpetrato anche da molti politici, tra cui viene citata la Presidente del consiglio che, si legge nel report, si è impegnata a contrastare e ad attaccare la cosiddetta “lobby LGBT” e l’“ideologia gender”; la persecuzione delle famiglie omogenitoriali; i crimini d’odio in aumento (percosse, stupri, omicidi). Si registrano anche tre suicidi riconducibili all’odio omotransfobico.
L’osservatorio nazionale americano contro le discriminazioni delle persone transgender sostiene che questa fetta di popolazione ha un rischio di insicurezza abitativa del 250 per cento in più rispetto alla media nazionale. Il 19 per cento delle persone transgender viene espulso da casa a causa della sua identità di genere.
Le persone queer non solo spesso vengono cacciate da casa dai propri familiari, ma sono frequenti gli episodi in cui non vengono fatte entrare o vengono cacciate da luoghi ricettivi (locali, alberghi, stabilimenti balneari, ecc.).
Mentre scriviamo ci imbattiamo in una notizia, simile a molte altre, in cui la titolare di una struttura ricettiva nega la prenotazione di una stanza ad una coppia di uomini dicendo che la presenza di coppie omosessuali sarebbe stato un problema per gli altri ospiti[ix].
Oltre alla discriminazione in sé, ciò che colpisce è l’assenza di imbarazzo nell’esplicitare sia il comportamento discriminatorio sia la sua motivazione. Come se fosse lecito, comprensibile, legittimo. “Chi aggredisce non ha più paura né vergogna […] Un’offensiva che viene da un fronte spudorato. […] adesso chi sputa parole di odio lo fa guardando in faccia il nemico” (Alliva 2020, pp.18-19). D’altra parte perché non ritenere legittimo ciò che la politica e la legge ritengono tale?
Nella indifferenza generale e anzi, in un periodo in cui si sparge l’idea che oggi le persone queer conducano una vita di agio e di privilegio, le ricerche delle scienze sociali ci avvertono di un grave ritorno dell’omotransfobia nella società e nelle istituzioni. Sapremo vigilare affinché altrettanto non attecchisca di nuovo nelle teorie psicologiche e psicoanalitiche?
3. Dal trauma individuale al trauma di comunità
Fare parte di una comunità è qualcosa che, sin dall’inizio ha costituito e continua a essere un fattore di grande resilienza per le persone queer, così come per tutti coloro che appartengono a minoranze vessate e discriminate. Rispetto al minority stress[x], diverse ricerche concordano infatti, nel rilevare che un importante fattore protettivo è l’appartenere a una comunità da cui si può ricevere, ma anche fornire, sostegno (Lingiardi, 2016).
Nell’Ottocento, “la repressione segue l’allarme sociale generato dalla presenza di vivaci sottoculture cittadine i cui membri si incontravano in luoghi pubblici, salotti privati, pub e bordelli” (De Leo, 2021, p.7). Le zone in cui avvenivano questi ritrovi erano appartate e il più lontano possibile dalla vigilanza sociale. Tra la fine dell’Ottocento e fino agli anni ‘30 del Novecento nacquero locali in cui le persone omosessuali potevano vivere, almeno per qualche ora, una vita di relazione pseudo-comunitaria.
È in questi contesti clandestini che fioriscono delle vere e proprie sottoculture. La loro presenza sociale andava dunque intrecciandosi strettamente con la “bar culture” che diverrà, nei decenni, un cosmo anche molto variegato. La Queer Bar Culture ha una lunga e ricchissima tradizione che va dai primi spettacoli in cross-dressing clandestino del ‘700, fino alla codifica del Vogue e così via. Cordioli (2024) approfondisce il modo in cui questi luoghi di segregazione/aggregazione divennero una fucina di arte e di civiltà, al punto da diventare dei veri e propri spazi culturali, soprattutto nel ventesimo secolo.
Esattamente 100 anni fa, Berlino era un luogo di grande vitalità. Si è calcolato che ci fossero più bar queer in quel periodo a Berlino, di quanti ce ne fossero a New York negli anni ’80. Ma poi giunse il nazifascismo e le persone queer d’Europa vennero perseguitate ancora più ferocemente e mandate nei campi di concentramento. I luoghi delle loro comunità vennero dati alle fiamme (Muller, 2002).
Dopo la caduta del nazifascismo le discriminazioni e la persecuzione non si fermò. Fino alla fine degli anni ’70, l’esistenza per una persona omosessuale occidentale era ancorata al fatto di tenere nascosto il proprio orientamento, non per scelta ma per necessità. Questo isolava gli individui e rendeva la loro vita misera.
La miccia può rimanere silente se le persone rimangono nell’armadio, “se fanno ciò che vogliono, ma a casa loro” - come spesso si sente dire. Con le parole di Foucault, se due ragazzi dormono nello stesso letto “in fondo li si tollera, ma se la mattina dopo si risvegliano col sorriso sulle labbra, si tengono per mano, si abbracciano teneramente, e affermano così la loro felicità, questo non glielo si perdona. Non è la prima mossa verso il piacere a essere insopportabile, ma il risveglio felice” (Foucault, 1978). È l’istanza dichiarativa, visibile, di affetti e progetti, a essere intollerabile. Una felicità non contemplata, bensì ritenuta contro-natura.
I moti di Stonewall hanno rappresentato un punto di svolta nel coming out of the closet e nella rivendicazione di diritti negati. Occupandoci di salute mentale non possiamo dimenticare che la parola diritti va a braccetto con la parola dignità. Un binomio inscindibile.
Alcuni storici preferiscono parlare di insurrezione anziché di moti, poiché i conflitti tra i manifestanti e la polizia di New York, iniziati la notte tra il 27 e il 28 giugno 1969, continuarono per alcuni giorni.
Alla notte di Stonewall si arriva dopo un paio di decenni in cui negli Stati Uniti si creava una comunità che avrebbe poi reso possibile la nascita di un movimento di liberazione. Ai movimenti che a New York presero il nome di Gay Liberation Front (GLF), fecero seguito, nelle settimane successive, altre simili organizzazioni in altri paesi del mondo, dal Canada al Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, fino all’Australia e alla Nuova Zelanda.
In Italia si dovette aspettare il 1971, anno in cui nacque il FUORI!, primo movimento di liberazione omosessuale italiano fondato da Angelo Pezzana. Curiosa e significativa è la miccia che portò alla nascita di questo movimento, e dell’omonima rivista.
È lo stesso Pezzana a raccontarla in un’intervista (Alliva, 2021). Si trattò di un libro “Diario di un omosessuale”, edito da Feltrinelli, di Giacomo Dacquino, psicoterapeuta e psichiatra. Dacquino aveva registrato le sedute della psicoterapia con un ragazzo che la famiglia aveva costretto a “curarsi” e a cui aveva promesso di “restituirlo” eterosessuale. Il 15 aprile 1971 uscì una recensione del libro su La Stampa di Torino, “anche il titolo era orrendo. L'infelice che ama la propria immagine. […] Ricordo di aver fatto una decina di telefonate il giorno dopo aver letto la recensione. Bisognava fare qualcosa. Scrivemmo al direttore chiedendo un dibattito aperto sul tema. La risposta, firmata dalla segretaria: ‘Se ne parla fin troppo di queste cose, non riteniamo opportuno riprendere l’argomento’. Questa fu la scintilla” (pp. 17-18).
Dopo quella risposta Pezzana e il suo piccolo gruppo si riunirono, decisi a fondare un movimento sulla scia di quello americano, come avevano già fatto in alcuni paesi europei. Qualcuno suggerì FUORI che veniva da out, coming out. “F come Fronte, un Movimento può essere anche un Fronte. U stava per Unitario, fa ridere perché eravamo solo noi. La “O” stava per Omosessuale. La “I” naturalmente per Italiano. Il dubbio era sulla “R”. Poi qualcuno disse: Rivoluzionario. E questa parola ci ha fatto discutere perché eravamo quasi tutti dei borghesi (insegnanti, intellettuali). Ma in fondo facevamo una rivoluzione del costume. A modo suo era una rivoluzione. Così è nato FUORI!” (ivi, 18).
Il tema dei diritti prende piede su larga scala dunque, a partire da questi anni, diventando immediatamente politico. “Essere gay e lesbiche è un modo particolare e storicamente determinato di essere omosessuali e rappresenta una combinazione, unica nella storia dell’umanità, di orientamento sessuale, identità sociale e movimento politico” (Lingiardi, 2016, p.46). Il termine “gay”, da alcuni ripensato a partire dalle iniziali, come “Good As You” può rappresentare, in forma autoironica e con funzione autodifensiva, una risposta al termine medicalizzato “omosessuale”. (ibidem). La stessa sorte toccherà, successivamente, al termine transessuale, oggi per lo più abbandonato in favore del termine transgender o trans*. In entrambi i casi si osserva la fuoriuscita del riferimento alla sessualità o al sesso, che catalizzava l’attenzione su aspetti ritenuti amorali o osceni (il rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso) o voyeuristici (il termine transessuale era utilizzato per le persone che si erano sottoposte a cure ormonali e/o interventi chirurgici).
Nella storia, le persone queer hanno più volte cercato di ribellarsi alla solitudine a cui venivano relegate. Il fare comunità non è solamente una risposta al dolore della marginalizzazione ma testimonia anche la comprensione che l’aggressione alla loro esistenza si è sempre basata sullo staccarle dal consesso umano per poterle polverizzare in qualità di “errori di natura”. Essere comunità assume dunque il carattere di una presa di coscienza: “Non sono sol*, esistono molte altre persone che vivono qualcosa di simile al mio vissuto”.
Essere comunità, apre dunque ad un processo di rispecchiamento e pensabilità del trauma subito, sia come singolo che come minoranza. “Vista la permeabilità tra la sfera individuale e quella gruppale, i traumi individuali, che colpiscono le aree personali, si ripercuotono anche sul gruppo. Similmente i traumi collettivi evocano intenso dolore e partecipazione negli individui, anche nei membri del gruppo che non ne sono stati colpiti direttamente” (Fonda, 2023, p.54). Ogni aggressione omotransfobica genera infatti, nei membri della comunità, il pensiero: “sarebbe potuto capitare a me”. In questo modo si rinnova il trauma, si accresce il vissuto di non essere al sicuro e dunque aumenta lo stato di ipervigilanza che conduce la persona a nascondersi. Essere nascosti però, se da un lato protegge la persona da possibili aggressioni, genera una condizione di penoso disagio e sofferenza dovuto al dover mistificare/negare una parte di sé, sentendo tra sé e l’altro la presenza di un muro che impedisce di instaurare una relazione profonda e reale. Invisibilità e indicibilità emergono al contempo come cause e conseguenze di vissuti traumatici. Le persone queer hanno sviluppato, negli anni, sofisticate strategie di nascondimento del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere: “essere visibili comporta confrontarsi più direttamente con stigma e discriminazioni e, quindi, attivare uno stato di ipervigilanza per timore di una reazione avversa; essere invisibili comporta, invece, la ripetizione traumatica di vedere e vedersi non riconosciuta una parte identitaria fondante, mistificando relazioni, vivendo nell’ombra e attivando uno stato di ipervigilanza, in questo caso per non essere scoperti” (Porzio Giusto e Vagnarelli, 2020 p.129).
Questo circolo, ripetutamente traumatico, è qualcosa che può accompagnare le persone LGBTQIA+ per tutta la vita, con intensità diverse a seconda dei momenti e contesti. Audre Lorde, attivista, donna, nera e lesbica ben sintetizza questo stato di cose quando dice: “ma più di tutto credo che abbiamo paura della visibilità senza la quale però non si può davvero vivere” (Lorde, 1984)[xi].
Molti psicoanalisti hanno studiato gli effetti del trauma collettivo, spesso lavorando in territori devastati dalla guerra e dai genocidi, incontrando nei loro studi vittime di persecuzione e tortura, e, talora, anche dei rei, dei persecutori (Ambrosiano, 2016). E, in scienza e coscienza, riteniamo che sia necessario iniziare ad occuparsi anche di questo trauma collettivo.
Sarebbe riduttivo pensare che la questione riguardi solo la minoranza LGBTQIA+. Bohleber (2007) sostiene che i cosiddetti man-made-disasters (come Olocausto, guerra, persecuzioni politiche, sessuali o etniche) mirano, all'annichilamento dell'esistenza storico-sociale di gruppi specifici della società. Questi scatenamenti della distruttività coinvolgono la società tutta. Ciascuno porterà in sé l'impronta di quella violenza lasciata circolare liberamente e potrebbe tornare a rimetterla in circolo.
Paradossalmente la comunità finì sia sotto la persecuzione nazifascista che sotto quella dei liberatori: sono stati loro, dunque, i vinti della storia. Hobsbawm ci ricorda che i traumi subiti dai vinti: “non solo sono ridotti al silenzio, ma sono virtualmente espulsi dalla storia scritta e dalla vita intellettuale, se non per essere catalogati nel ruolo di nemico” (1994, p.16).
Offrire una elaborazione del trauma implica invece riuscire a creare pensiero, proprio a partire dalla rinascita di quei gruppi, prima schiacciati, affinché contribuiscano con la società tutta alla fatica della memoria. “Se -invece- dominano le tendenze al rifiuto sociale o se vigono àmbiti su cui si tace, i sopravvissuti al trauma vengono lasciati soli con la propria esperienza. Invece di trovare il sostegno degli altri attraverso la comprensione, spesso in loro diviene dominante come principio di spiegazione, quello di una propria colpa” (Bohleber, 2007, p. 385). Meccanismo, questo, che concorre alla formazione e al mantenimento dell’omotransfobia interiorizzata.
Ma perché anche nell'attuale società, proprio quando le comunità LGBTQIA+ ha raggiunto una maturità di gruppo (essendo capace di autodescrizione, memoria e progetti costruttivi), rinasce così ferocemente l’omotransfobia nella società allargata?
La storia ci ha mostrato che quando, nella Berlino del 1920, la comunità queer era riuscita a trovare una sua minima coesione, si è dato un problema di "visibilità" che ha fatto da sponda alla propaganda omofoba.
Nella storia assistiamo ad una continua ciclicità in cui la persecuzione omotransfobica segue delle tappe ricorsive: annientamento della comunità queer, oblio sociale[xii], lenta ricostruzione dei legami di comunità, punto di visibilità della comunità, recrudescenza della propaganda omofoba, nuova persecuzione (Cordioli, 2024).
Come psicoanalisti dovremmo fermarci a pensare. Se da un lato è necessario comprendere l’importanza di narrare la storia (anche delle teorie psicologiche) assieme alle minoranze, dall’altro è necessario esplorare le dinamiche profonde della coazione omotransfobica. Ci aiuta, in questo, lo studio psicoanalitico delle dinamiche psichiche nei dopo-guerra.
Dalle persecuzioni, oltre alle vittime, esce traumatizzata anche quella larga parte della popolazione formata dai delatori, dai torturatori, dagli aguzzini nei campi di prigionia, fino ai membri dei plotoni di esecuzione. “Si tratta di traumi che rimangono incapsulati scissi-rimossi nelle menti dei perpetratori, ma anche nella psiche-cultura del gruppo del quale fanno parte e che in qualche modo lo sa. Prendere coscienza delle proprie responsabilità e delle proprie colpe da parte dei perpetratori e dai gruppi è uno dei compiti più difficili. Per lungo tempo su ciò domina il diniego” (Fonda, 2022, p.55).
Noi abbiamo imparato che i depositi traumatici delle guerre riaffiorano anche molte generazioni dopo i fatti più feroci. Il ricordo può non essere consapevole ma riaffiorano, carsicamente, certe antipatie, certe spinte crudeli e soprattutto certi discorsi d’odio, preparati da lente chine di altrettanti discorsi omeopaticamente discriminatori.
Anche in certe sacche della psicoanalisi sta riprendendo quota un pensiero discriminatorio, patologizzante, fiorito di illazioni. La parte più amara è leggere un frequente rimando alla dimensione queer come ad una moda d’oltreoceano, esattamente come recitava la propaganda voluta da Himmler e Mussolini … (Le Bitoux, 2005).
4. Le famiglie negate
2018: a Roma, Milano, Torino compaiono alcuni cartelloni firmati Provita e Generazione Famiglia che ritraggono una coppia di padri gay, dall’aria poco rassicurante, sulla testa dei quali aleggia la definizione Genitore 1 e Genitore 2. I due uomini spingono un carrello della spesa al cui interno si trova un bambino visibilmente disperato, sul cui petto nudo compare un codice a barre. Sul cartellone campeggia: “Due uomini non fanno una madre. Stop utero in affitto”. I colori dell’intera immagine sono cupi, in un’atmosfera di malattia e contagio che sembra rimandare all’alone viola che negli Anni Ottanta compariva negli spot che mettevano in guardia dal virus dell’HIV, tristemente nominato “la peste gay”.
Bisogna immaginare la scena.
La immaginiamo così: Lia, 12 anni, figlia di due padri, cammina per le strade della propria città. Forse insieme ai suoi genitori. Ad un tratto vede questo gigante cartellone che ritrarrebbe l’immagine di lei bambina con la sua famiglia.
Intervistata per L’Espresso (16 ottobre 2018):
“Mi ha colpito questa frase ‘Due uomini non fanno una madre’. È vero ma non è una cosa brutta. Ho due papà ma non ho mai avuto nessun problema e sono felice così. Come se dicessero che sono cresciuta male e infelice. Ma questi politici che dicono tutte queste cose, qualcuno di loro ci ha mai chiesto qualcosa? Mai. E poi dietro questa immagine non dovremmo neanche perderci tempo perché è insensata come quel politico che dice che noi non esistiamo[xiii], non ha senso. Forse dicono questo perché sono di epoche più vecchie, i miei amici quando saranno adulti non diranno mai una cosa del genere. Ma del resto non sono i figli che devono crescere, ma i genitori”.
Le fanno eco altri figli e altre figlie di famiglie arcobaleno:
“Questo manifesto è agghiacciante. […] Niente di tutto questo ha riscontro con la vita vera. Con la mia. Io anche ero così. Quando mi sbucciavo un ginocchio però, non certo perché ho due mamme che mi amano. Conosco le famiglie arcobaleno, se penso ai bambini durante le nostre cene e li confronto con quelli di questo del manifesto mi viene quasi da ridere”. (Joshua, 17 anni).
“Questa immagine non ha senso. Vogliono parlare a nome nostro, pretendono di rappresentare qualcuno senza averlo mai ascoltato” (Lisa Marie, 16 anni)[xiv].
Le parole di questi ragazzi e di queste ragazze colgono un aspetto centrale che riguarda le famiglie omogenitoriali ma che può essere esteso a tutta la comunità queer: essere oggetti o soggetti del discorso, una divisione, direbbe Gheno (2021), tra nominati e innominati, tra chi parla e chi al massimo “può essere parlato”. Abbiamo visto come la comunità LGBTQIA+ abbia intrapreso un lungo e faticoso cammino in tal senso, uscendo dall’invisibilità e prendendo parola, diventando dunque soggetto del discorso. Ci domandiamo se e con quale qualità i professionisti della salute mentale riescano a porsi in un assetto di ascolto, “parlando con”, anziché “parlando di”, senza conoscere.
La gestazione per altri (GPA) continua a essere utilizzata, nel dibattito corrente, per osteggiare le famiglie omogenitoriali con due padri, spesso vittime di un doppio pregiudizio: essere gay ed essere uomini - essendo la funzione di cura prevalentemente attribuita alle donne. L’argomentazione è però del tutto strumentale: sappiamo infatti che la maggioranza delle coppie che si avvale della GPA, così come di tutte le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), sono coppie eterosessuali[xv]. Nella percezione delle persone non informate, però, passa l’idea che la GPA sia solo una esperienza di cui si avvalgono le coppie gay.
Si ripete dunque, anche in questo caso, l’uso propagandistico, condito da espressioni offensive e violente (utero in affitto, bambini in provetta), per colpire le famiglie omogenitoriali.
È interessante notare che, se la “peste gay” aveva fornito una facile occasione per attaccare le persone omosessuali ritenendole promiscue, oggi assistiamo al paradosso per cui l’attuale crociata omofoba si scaglia principalmente contro il riconoscimento delle relazioni monogamiche, affettive e familiari. Nonostante l’esistenza di diverse configurazioni di famiglia, “questa parola anziché evocare una costruzione relazionale di affetti e progetti, per molti coincide solo con l’immagine di un uomo e di una donna sposati, monogami, eterosessuali e possibilmente fertili” (Lingiardi, 2016, p.189).
Nel report Rainbow Europe 2024 si segnala che il tema dei diritti delle famiglie omogenitoriali è quello che ha registrato la maggiore battuta d’arresto, con l’attivazione di una vera e propria persecuzione ai danni di queste famiglie. Si cita la proposta di legge Varchi[xvi] che mira a rendere la GPA reato universale, la famosa circolare del Ministro Piantedosi che impone lo stop al riconoscimento anagrafico di bambini con genitori dello stesso sesso, il caso emblematico di Padova, dove 33 famiglie si vedono impugnare dalla Procura dello Stato il riconoscimento anagrafico dei loro figli, con richiesta di cancellazione del genitore non biologico. Tra questi ci sono bambini e bambine anche di 5, 6 anni, a cui improvvisamente si vuole togliere un genitore e, in molti casi, modificare il loro cognome.
Bisogna immaginare la scena.
Mamma e figlio sono a casa, è sera, la mamma prepara la cena, l’atmosfera è rilassata, una serata come tante. Il bambino, 5 anni, gioca e, nel frattempo, sgranocchia qualcosa: “Mamma ho fame, quand’è pronto?”
In quel momento torna dal lavoro l’altra mamma, quella non biologica. Entra, ha evidentemente un’aria preoccupata, ma non può esprimerla davanti al figlio, così finge tranquillità. Appena il bambino si addormenta racconta di essersi vista recapitare una notifica di comparsa davanti ai Carabinieri in quanto la Procura ha impugnato il riconoscimento di loro figlio. Pochi giorni dopo la stessa notifica arriverà anche alla madre biologica. Le due donne sono chiamate in Tribunale, come due criminali. L’accusa è di aver compiuto un atto illegittimo. La richiesta è di annullamento della mamma non biologica, quale madre legale del bambino, e la cancellazione del suo cognome dai documenti del minore. (comunicazione personale).
In Italia, nel 2016, a seguito di un acceso e contrastato dibattito, viene approvata la legge sulle unioni civili (la cosiddetta legge Cirinnà, dal nome della sua prima firmataria). È un passo importante per il nostro paese che, con grande ritardo rispetto ad altre nazioni dell’Europa e del mondo, vede finalmente la possibilità di un riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso.
Tuttavia vanno segnalati almeno due aspetti. Il primo è legato al tema stesso delle unioni civili: le coppie omosessuali possono unirsi civilmente, costituirsi l’uno/a per l’altro/a parte di una unione civile, ma non possono sposarsi. Non saranno marito e marito o moglie e moglie. È il piano simbolico e rappresentativo che veicola un significato svalutativo: il matrimonio è riservato ad alcuni, l’istituzione che unisce due persone per eccellenza, le unioni civili sono riservate ad altri, che si devono accontentare di una forma di unione di serie B. “Non si tratta di perorare la causa del matrimonio in quanto tale (ognuno organizzi e custodisca i propri affetti come meglio crede), bensì quella dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti allo Stato. [...] Se per molto tempo la domanda cruciale, per le persone gay e lesbiche, non è stata «vuoi sposarmi?» ma «puoi sposarmi?», oggi questo è possibile in molti paesi del mondo e, in Italia, lo è sotto la strana forma «Vuoi unirti civilmente a me?» (Lingiardi, 2016, p.14). Le due forme di unioni differiscono sul piano simbolico e su quello fattuale: parole diverse significano e portano a cose diverse. Da una parte il matrimonio, dall’altra una unione civile ovvero una specifica formazione sociale. Tra le differenze tra le due istituzioni, l’unione civile non prevede l’obbligo di fedeltà né contempla le pubblicazioni, come se non si potesse sancire che due uomini o due donne si amino di un amore tenero, passionale ed esclusivo, né si potesse rendere questo amore “pubblico”. Come non pensare qui al tema dell’in-visibilità che ha pervaso la storia e le storie di queste persone?
Ma ciò che differenzia maggiormente le due unioni è la possibilità di riconoscimento dei figli della coppia.
Nel corso del dibattito in merito a questa legge, l’Ordine degli Psicologi Italiani invia ai Senatoriun dossier degli studi scientifici sulle famiglie omogenitoriali pubblicati tra il 1978 e il 2015[xvii]. Le ricerche scientifiche vengono ignorate e l’11 maggio 2016 viene approvata la legge con 372 voti favorevoli e 51 contrari, a patto di stralciare l’articolo sulla stepchild adoption. Ciò fece dire ad Angelino Alfano: "E' stato un bel regalo all'Italia aver impedito che due persone dello stesso sesso, cui lo impedisce la natura, avessero la possibilità di avere un figlio. Abbiamo impedito una rivoluzione contro-natura e antropologica" e ancora "Ha vinto il buonsenso perché è assolutamente di buonsenso dare più diritto ai soggetti anche dello stesso sesso che compongono un'unione e al tempo stesso l'istituto giuridico del matrimonio è ben distinto da quello dell'unione”[xviii].
D’altra parte la stepchild adoption, anche qualora fosse stata mantenuta nella legge approvata, avrebbe costituito una forma di riconoscimento della filiazione al ribasso. In nessuna coppia eterosessuale infatti, un genitore deve “adottare” il proprio figlio, anche nel caso di concepimento tramite donazione di gameti. Ciò che legittima il rapporto di filiazione è il progetto comune, dei due genitori, di affetti e desideri e l’assunzione di cura e responsabilità nei confronti del nascituro. Principi che crollano completamente nel caso di coppie dello stesso sesso.
Inghilterra 1977: una sentenza allontana un figlio dal padre omosessuale e ne consente l’adozione da parte del nuovo compagno della madre, per evitare l’“esposizione” del bambino all’omosessualità. Altre simili decisioni verranno prese in Inghilterra tra gli anni Settanta e Ottanta. La visibilità conquistata in quegli anni, a seguito dei moti di Stonewall e della nascita dei movimenti di liberazione, riaccendono pregiudizi e discriminazione che portano, in questi casi, alla perdita dei diritti di figli e genitori (De Leo, 2021).
Nel 1978 l’American Journal of Psychiatry pubblica un primo studio che indaga l’influenza dell’orientamento omosessuale dei genitori sullo sviluppo dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere dei figli, da cui non emergono differenze rispetto ai bambini cresciuti in famiglie eterogenitoriali.
Ancora oggi c’è chi si domanda se l’orientamento sessuale di bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali possa essere influenzato da quello (omo) sessuale dei genitori.
Oltre quarant’anni di ricerche empiriche concordano che bambini e bambine cresciuti/e in famiglie omogenitoriali presentano percorsi di sviluppo psicologico, socio-emotivo e cognitivo del tutto paragonabili a loro coetanei/e cresciuti/e in famiglie tradizionali. Non sono emerse differenze tra i gruppi nemmeno per quanto concerne lo sviluppo dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere (per una bibliografia delle ricerche rimandiamo a Carone, 2021), mostrando invece che gli unici fattori in grado di influire negativamente sul benessere di questi bambini sono pregiudizio e discriminazione che sono all’origine della mancanza di tutele giuridiche di queste famiglie (Bos & Gartrell, 2020).
5. La comodità dell'ignoranza: omotransfobia e “pensato per sentito dire”
La storia delle discipline mediche e psicologiche è, come è noto, costellata di posizionamenti complessi. Molte sono state le connivenze con i regimi, da sempre attenti a trovare teorie concordi con le loro finalità. In particolare, chi si addentra nelle scienze umane, non può dunque pensare che le teorie non abbiano risentito dei climi politici e delle influenze culturali religiose del tempo in cui si sono formate.
Non possiamo, qui, per motivi di spazio ripercorrere la lunga, complessa e dolorosa storia intercorsa tra scienze psicologiche e mondo queer ma ci limiteremo dunque a fare almeno alcune riflessioni sugli ultimi cinquant’anni, auspicando che possa fungere da sprone per pensare, con la memoria del presente.
Nel 1977 un sondaggio rivela che il 70 per cento degli psichiatri statunitensi ritiene che le cause del disagio esperito dalle persone gay e lesbiche sia da individuare nei “conflitti interni” e non fa accenno alla stigmatizzazione sociale, il 69 per cento pensa che l’omosessualità sia un “adattamento patologico” e il 60 per cento degli intervistati dichiara che gli uomini omosessuali non sono capaci di relazioni affettive mature.
Il “Time”, in relazione al sondaggio, titola ironicamente: Sick Again? (De Leo, 2021).
Di nuovo rintracciamo il legame tra visibilità, rivendicazione di diritti e dignità e tentativi di rimettere le persone queer entro categorie di malattia, perversione, pericolosità. Qualche anno prima infatti, l’omosessualità era stata rimossa dalla lista delle malattie mentali del DSM[xix] e Harold Lief, autore del sondaggio, ipotizza che tale rimozione fosse avvenuta come conseguenza della visibilità del nuovo attivismo gay.
Nel 2015 una ricerca italiana (Lingiardi, Nardelli e Tripodi, 2015) ha esplorato conoscenze e pensieri sul tema delle omosessualità e correlati, su un campione di tremila psicologi. Dai risultati emerge una certa disinformazione, credenze errate e pratiche cliniche non conformi alle indicazioni della comunità scientifica: per esempio il 25 per cento del campione dichiara di non sentirsi affatto preparato sui temi in oggetto, il 42 per cento crede che l’omosessualità sia conseguenza di una mancata identificazione con il proprio ruolo di genere e il 58 per cento interverrebbe in direzione di una modifica dell’orientamento sessuale.
Questi dati lasciano sgomente: ben oltre la propria autovalutazione, il campione è impreparato sulla differenza tra orientamento sessuale e varianza di genere e la maggioranza è incline a condurre una terapia riparativa.
Per di più negli ultimi anni, in alcune prestigiose associazioni di professionisti della salute mentale, tra cui quelle psicoanalitiche, proprio in sincrono con l’incremento delle aggressioni omotransfobiche[xx], si sono accese inquietanti discussioni sulla patogenicità della condizione queer, specialmente sulle varianze di genere. Prima ancora di dare ai propri membri una migliore formazione su queste tematiche, sono state aperte arene d’opinione che hanno slatentizzato e rimesso in circolo i preconcetti di un passato…mai passato.
Forse, ancora più grave, è il fatto che non abbiano attecchito gli inviti a studiare con serietà le strutture profonde dell'omotransfobia, che è invece una peste sociale segnalata da tutte le agenzie per i diritti umani come in enorme ascesa.
Ci duole notare questa povertà culturale che facilita le ripetizioni, ma tacerlo significherebbe, in qualche misura, far parte di questa ripetizione, avvallarla con il silenzio. Sarebbe più opportuno restare indifferenti? Come ha fatto il vigile nella storia dei due ragazzi di Verona: “non un sussulto”.
Quello che ci accade è invece di sussultare, sia in contesti formali (convegni, seminari, pubbliche dichiarazioni), sia informali (chiacchiere tra colleghi, mailing-list, forums) di fronte a talune affermazioni riferite alle persone LGBTQIA+. Si parla di “epidemia”, “moda”, “contagio sociale”, “ricerca delle cause traumatiche” di un orientamento non eterosessuale o di un’identità di genere non cis, “perversione”, “narcisismo”, “regressione”, “immaturità”, “confusione”, “rifiuto della regola paterna”, “tutte le persone trans* sono omosessuali con una omofobia internalizzata”[xxi] e così via[xxii]. Come si fa a non sapere che questi sono argomenti che hanno armato cento anni di omotransfobia, giustificando persecuzioni e contrazione dei diritti?
Abbiamo sentito colleghi affermare che è loro diritto scientifico esplorare qualsiasi teoria e che la libertà del sapere non possa essere imbrigliata per nessuna ragione. Attribuiscono alla cancell culture un eventuale limite alla loro autonomia intellettuale. “Non si può più dire niente! C’è troppa ideologia ovunque!”.
Con amarezza, tocca avanzare un’ipotesi sconfortante: nell’ignoranza si riescono a creare teorie che funzionano alla perfezione. Sono belle e convincenti ma non riguardano la realtà.
Anche tra i più dotti, c’è chi si fa opinioni su questioni che non ha mai conosciuto personalmente, ne ha fatto esperienza solo attraverso il filtro deformante dei media o, peggio ancora, solo attraverso il contatto nella clinica. Qui tornerebbe utile ricordare quando Anna Freud affermava che si devono conoscere i bambini sani per poter aiutare quelli malati. Ebbene, molti colleghi che non hanno esperienze del mondo queer, si convincono che le persone omosessuali e trans* sono ammalate, perché loro non ne hanno mai conosciute di sane. Queste divengono poi le basi per arrivare a teorie eziopatologiche che ripetono gli stessi pregiudizi da cento anni a questa parte, nonostante oggi la comunità scientifica concordi nel ritenere che orientamento sessuale e identità di genere si dispiegano lungo uno spettro di possibilità e varianze naturali ritenendo questa varianza non riconducibile a una ricerca ezio(pato)logica né all’esito di una scelta. Così come non si è riscontrato una causa per l’eterosessualità, ugualmente non ne è stata riscontrata una per l’omosessualità ecc.
La società civile e i professionisti della salute mentale dovrebbero interrogarsi sui motivi del ripetersi e dell’accrescersi dell’omotransfobia sociale, che facilmente diventa interiorizzata. La discussione scientifica e l’operare clinico dovrebbero avvalersi della memoria del passato, della conoscenza del presente, dello studio delle ricerche empiriche e dell’attuale letteratura scientifica, di un ascolto attento e rispettoso dei vissuti dolorosi e penosi che spesso accompagnano i percorsi di vita delle persone LGBTQIA+: vergogna, senso di inferiorità, paura, senso di non legittimità, ansia, depressione, ecc.
Le ricerche empiriche, infatti, ci hanno mostrato che in una popolazione non clinica, le persone LGBTQIA+ soffrono in misura significativamente maggiore rispetto alle persone eterosessuali e cisgender di disturbo post-traumatico da stress, depressione, disturbi d’ansia, abuso di sostanze e rischio suicidario. I ricercatori correlano questa maggiore incidenza di sofferenze psichiche alle dimensioni del minority stress, dell’omotransfobia e delle politiche di discriminazione sociale (vedi ad es. Cochran et al., 2003; Hatzenbuehler et al., 2010; Bostwick et al., 2010; Lingiardi et al., 2023).
Isay (1989), in un modo molto semplice, ma altrettanto efficace, sostiene che l’analista che intende lavorare terapeuticamente con un paziente gay deve essere convinto che l’omosessualità sia una dimensione normale e naturale e, aggiungiamo, lo stesso principio vale per il lavoro con le persone trans*.
La domanda che è necessario farsi è come mai le istituzioni psicoanalitiche hanno sempre privilegiato teorie patologizzanti e repressive, insegnandole e facilitandone la propagazione, invece di creare dei contesti di reale ricerca.
Anche noi, che scriviamo in questo 2024, abbiamo incontrato maestri e supervisori che, più o meno velatamente, riconducono il mondo queer a soluzioni perverse e regressive. Oggi più che mai tutto l’armamentario argomentativo che per decenni è stato usato contro le persone omosessuali, viene ripetuto senza variazioni contro le persone trans*.
Parrebbe, dunque, che gli esperti della salute mentale nel nostro paese siano scarsamente interessati a studiare la perversione della crudeltà omotransfobica, finendo per agire sotto l’impulso infiltrante del nucleo ambiguo (Amati sas, 2020) che li porta a sottostimare, tacere e, addirittura, offrire sponde “ex catedra” all’omotransfobia.
La psicoanalisi è portatrice di strumenti raffinati ed è in grado di offrire una ricchezza di pensiero clinico e teorico per poter comprendere e lavorare con quei nuclei (vergogna, illegittimità, invisibilità, ecc) che la letteratura scientifica e l’incontro con le persone queer ci mostrano, e con cui ci mettono in contatto, sempre che siamo disposti ad entrarci.
Porzio Giusto e Vagnarelli (2020) ad esempio citano alcuni autori che, pur non riferendosi specificamente ai vissuti delle persone LGBTQIA+, hanno sottolineato quanto esperienze di disconoscimento, rifiuto, negazione possano inficiare lo sviluppo armonico della personalità, esitando in una serie di disagi psichici.
Bromberg (1998-2001; 2011) parla di trauma relazionale, trauma evolutivo o trauma del disconoscimento riferendosi a esperienze ripetute, nel corso della crescita, di non riconoscimento di aspetti del Sé all’interno di relazioni significative. Tali aspetti, in quanto non riconosciuti, divengono “illegittimi” e possono venire relegati in una parte dissociata della personalità del soggetto: la “disconferma”, poiché non negoziabile sul piano relazionale, è traumatica per definizione ed è ciò che l’autore ritiene essere alla base del trauma relazionale. “[…] il salutare desiderio del bambino di comunicare la propria esperienza soggettiva a un altro di cui ha bisogno, viene infuso di vergogna, perché l’altro di cui si ha bisogno non riconosce, o non riconoscerà, l’esperienza del bambino come qualcosa di legittimamente «pensabile» Il bambino sentirà non di avere “fatto qualcosa di sbagliato, ma che vi è qualcosa di sbagliato [...] in lui come persona” (Bromberg, 2011, p.43).
Anche Van Der Kolk (2005) parlando di disturbo traumatico dello sviluppo complesso si riferisce a esperienze traumatiche multiple e/o croniche, protratte nel tempo, spesso vissute all’interno del nucleo familiare del bambino, dando luogo a sentimenti di impotenza, disperazione, isolamento, solitudine, ingiustizia.
Ancora Khan (1963) con la sua definizione di “trauma cumulativo” teorizza che la ripetizione di eventi o situazioni che non appaiono francamente traumatici possano determinare un effetto patogeno sul processo di strutturazione dell’Io e Kohut (1978) sostiene che più frequentemente sono atmosfere croniche e ripetuti atteggiamenti e modalità degli oggetti Sé a lasciare un segno sullo sviluppo del Sé piuttosto che eventi chiaramente traumatici.
Infine, altri autori (Van der Hart et al., 2006) correlano indicibilità e dissociazione sostenendo che l’integrazione delle parti dissociate del Sé debba passare attraverso la creazione di una propria, personale, narrativa.
Sul tema delle famiglie tra gli interrogativi e le obiezioni che la psicoanalisi pone più frequentemente troviamo: “che strada prenderanno le identificazioni e l’Edipo?”, “che fine fa la scena primaria?” per poi asserire “per una buona crescita occorrono una madre e un padre”.
Altrettante sono le risposte che provengono dalla stessa psicoanalisi: la trama delle identificazioni (non solo di genere) è ben più complessa dell’identificazione con il genitore dello stesso sesso, prospettiva insufficiente anche a cogliere le dinamiche identificatorie nelle famiglie eterogenitoriali. Dunque, occorre ripensare anche l’Edipo nei termini di “possibilità di trovare il proprio posto all’interno della scena familiare”, per poter passare dal “complesso alla complessità di Edipo” (Lingiardi & Carone, 2019).
La scena primaria, lungi dal poter essere intesa come (soltanto e concretamente) un rapporto sessuale che genera una nuova vita, rappresenta piuttosto, in un registro simbolico, il mistero delle origini e la storia di quel particolare concepimento (Porzio Giusto, 2019; Porzio Giusto & Vagnarelli, 2022).
Il filone sviluppato dall’Infant Research e dalla teoria dell’attaccamento, così come la psicologia evolutiva e le ricerche empiriche sopra citate, ci dicono che lo sviluppo armonioso della personalità dipende dalla qualità dei legami tra genitori e figli, qualità che non dipende né dal sesso, né dal genere, né dall’orientamento sessuale dei genitori, bensì dalle loro capacità di esercitare le funzioni genitoriali e da come la propria storia di figli è stata rielaborata[xxiii].
Nel caso di genitori gay e lesbiche dobbiamo inoltre considerare, come abbiamo visto, la storia personale e collettiva, passata e presente, del peso dei pregiudizi che le persone omosessuali portano sulle loro spalle.
Da questa prospettiva le famiglie omogenitoriali si trovano a vivere una sorta di ripetizione dello stigma vissuto come individui prima e ora come famiglie (Porzio Giusto, Vagnarelli, 2022).
Questo aspetto, che meriterebbe sicuramente un maggiore approfondimento, ci riporta alla possibilità di trasmissione del trauma tra le generazioni. Per scongiurare questo rischio è necessario attuare una trasformazione culturale, sociale e collettiva e, al contempo, come clinici, aiutare le persone che si rivolgono a noi ad elaborare la propria omo/ transfobia interiorizzata, quando presente, accompagnare nei percorsi spesso difficili dei coming out ponendosi in ascolto delle storie soggettive e peculiari di ciascuna persona, anziché porre, ancora, su di esse, uno sguardo intriso di stigma e pregiudizio.
Di nuovo, per costruire e opporsi alla ripetizione dell’identico, occorre, in scienza e coscienza, esercitare una funzione trasformativa della memoria.
In conclusione
C’è una frase di Wiesel che ci colpisce, racchiude molta parte dell’inquietudine che condividiamo e con cui è importante confrontarsi: «Che cosa porterà il domani ai nostri e ai vostri figli? Che cosa accadrà? Che cosa accadrà quando, ancora una volta, l'odio riemergerà? Che cosa accadrà quando l'indifferenza, che ritengo il pericolo più grande di tutti, prevarrà? […] l'indifferenza nei confronti degli altri è una bestemmia, e l'unica maniera per combattere l'indifferenza è condividere il nostro sapere, la nostra sete di conoscenza e l'amicizia» (Wiesel, 2000, 152).
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Note
[i]L’acronimo LGBTQIA+ sta per lesbiche, gay, bisessuali, trans*, queer, intersex, asessuali. L’aggiunta del + è volto ad includere ogni tipo di minoranza sessuale, senza costringere alcun* a riconoscersi in una definizione.
[ii]Questo termine, Queer, il cui significato è “strambo”, “eccentrico”, è stato originariamente utilizzato in senso dispregiativo per indicare le persone il cui orientamento sessuale e/o identità di genere non fosse etero/cis. Negli anni Novanta le stesse persone etichettate come queer si sono riappropriate del termine attribuendogli un senso positivo per indicare la propria estraneità a categorie precostituite e dicotomiche (eterosessuale/omosessuale, maschile/femminile, ecc.). Riappropriarsi e utilizzare, anche (auto)ironicamente espressioni dispregiative o violente usate contro, è un elemento di resilienza spesso utilizzato dalla comunità.
[iii]È una delle molte storie raccolte da Simone Alliva, giornalista che ha viaggiato per tutta Italia per l’inchiesta “L’Italia è omofoba”.
[iv] Usiamo il termine “transessualità” quando facciamo ad un periodo storico che va dall’inizio del ‘900 (quando appare) fino agli anni ’90 (quando si preferì usare il termine “transgenderismo”). La parola transessuale è caduta in disuso non solo perché spesso usata con un’accezione dispregiativa ma anche perché non coglie il tema centrale del fenomeno che, appunto, non è il sessuale ma il genere.
[v]“La peste bruna” è un’espressione usata da Klauss Mann e da Daniel Guerin per indicare il dilagare dell’ideologia nazifascistasta presso le masse, nei primi anni ‘30 del Novecento. Per approfondire segnaliamo: Guerin D. (1945) “La Peste Bruna” Bertani, Verona, 1975 e Mann K. (1989) “La peste bruna. Diari 1931-1935”, Editori Riuniti (Biblioteca di storia), Roma, 1998
[vi] Il paragrafo 175 è la legge tedesca che, fino a 1992, stabiliva che l’omosessualità maschile doveva essere perseguita con il carcere.
[vii]Giuliano Amato, fu lo stesso che nel 2007, in qualità di ministro degli interni, emanò una circolare (n°55 del 18 ottobre) “che ricordava a tutti i prefetti e sindaci italiani l’impossibilità di trascrivere i matrimoni tra persone omosessuali celebrati all’estero in quanto contrari all’ordine pubblico” (Vignolo Gargini, 2016, pp. 48).
[viii] Forse voleva dire le persone non binarie? ndr
[ix]https://www.gay.it/non-accettiamo-omosessuali-coppia-gay-rifiutata-in-un-bb-abbiamo-telefonato-ecco-cosa-ci-hanno-detto
[x] Per minority stress si intende un insieme di disagi psicologici dovuti all’appartenere ad una minoranza. Il costrutto, sviluppato da Ilan Meyer in relazione alle persone omosessuali (2003; 2007), si compone di tre dimensioni: l’omofobia interiorizzata, lo stigma percepito e le esperienze vissute di discriminazione e violenza. Lo stesso modello è estendibile alle persone trans* e gender diverse (Ellis et al., 2020).
[xi]Interessante un esperimento proposto dallo psicoanalista Mark Blechner (2009) a cui alcune persone eterosessuali si sono sottoposte: per un mese, durante le quotidiane conversazioni con amici, colleghi, conoscenti, familiari, si chiedeva loro di non nominare mai il/la proprio/a partner o i propri figli, di descrivere le esperienze condivise con lui o lei come se l’avessero vissute da soli, o riferirsi al/alla proprio/a partner come fosse un amico/a o una persona generica, dire sempre “io” invece che “noi”. In poche parole, fare ciò che molte persone gay e lesbiche fanno quotidianamente, a volte per tutta la vita. Le persone eterosessuali che hanno partecipato all’esperimento hanno riferito di aver vissuto questa esperienza come molto destabilizzante.
[xii]L’oblio, secondo Cordioli, ha un ruolo cardine nel processo omotransfobico. Esso non è semplicemente l’epifania delle difese di rimozione ma è anche un aspetto specifico di annientamento dell’altro. Esso funziona esattamente come una damnatio memoriae sulla storia delle persone queer. Un effetto evidente di questo è la frase del popolino che dice “Questi qui non ci sono mai stati, saltano fuori adesso perché è una moda”.
[xiii]Il riferimento è all’allora Ministro della famiglia (singolare!) e delle disabilità, Lorenzo Fontana, che, intervistato su come intendesse comportarsi nei riguardi delle famiglie arcobaleno così si espresse: “Perché? Esistono le famiglie Arcobaleno?”.
“Sì, esistono e sono tante in Italia”.
“Ma per la legge non esistono in questo momento” (Corriere della Sera, 2 giugno 2018)
[xiv]https://lespresso.it/c/attualita/2018/10/15/ho-due-papa-e-sono-felice-i-figli-delle-famiglie-arcobaleno-rispondono-a-pro-vita/10931
[xv] Benché non esita una statistica mondiale su questo dato, nei registri che le cliniche compilano in Canada e Stati Uniti emerge che la GPA è utilizzata per circa l’80/85 per cento da coppie eterosessuali e la restante percentuale da coppie gay e persone single.
[xvi] 16 ottobre 2024: mentre scriviamo il ddl Varchi viene approvato (con 84 voti favorevoli, 58 contrari e nessun astenuto) e la GPA diviene, in Italia, reato universale, considerato dunque al pari di reati quali genocidio, tortura, pedofilia, crimini di guerra, schiavitù. Ciò significa che coppie che accedono a percorsi di GPA in Paesi dove questa pratica è legale saranno, al loro rientro, perseguibili dallo Stato italiano, con pene detentive da tre mesi a due anni e multe da 600mila a un milione di euro. Oltre a evidenziare la matrice ideologica di questa legge che mira a impedire alla minoranza di coppie gay che vi accedono (vedi nota 14) di diventare genitori, non possiamo, come psicoanaliste, non domandarci quali effetti dannosi ci saranno sulle vite di bambini/e e ragazzi/e nati/e da questi percorsi che oggi si sentono considerati “per legge” frutto di un reato universale e nominati come “merce o prodotto”.
[xvii]Per consultare il dossier
https://sexualogica.tumblr.com/post/139740000860/dossieromogenitorialit%C3%A0
[xviii]https://www.huffingtonpost.it/politica/2016/02/25/news/unioni_civili_angelino_alfano_abbiamo_impedito_una_rivoluzione_contro_natura_l_uscita_del_ministro_fa_il_pieno_di_criti-5535523/
[xix]Ricordiamo che l’omosessualità viene definitivamente derubricata dal Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM) nel 1927 e che il 17 maggio 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara che l’omosessualità è una variante naturale del comportamento e sessuale. Una dichiarazione analoga in merito alle persone trans* arriva dopo 29 anni, quando nel maggio 2019, durante la 72° Assemblea Mondiale della Sanità per il rinnovamento dell’International Classification of Diseases (ICD-11, che entrerà in vigore il 1 gennaio 2022), l’OMS derubrica l’Incongruenza di Genere dalla classificazione dei disturbi mentali, facendola rientrare in un apposito capitolo Condizioni relative alla salute sessuale.
[xx]Facciamo di nuovo riferimento ai dati 2024 della Fundamental Rights Agency Europa: https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2024-lgbtiq-equality_en.pdf
Italia: https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/lgbtiq_survey-2024-country_sheet-italy.pdf
[xxi]Mutata mutandis, Rado negli anni ‘50 affermava che tutti gli omosessuali erano uomini con una spiccata misoginia…
[xxii]Segnaliamo anche l’ostinazione a chiamare le persone trans* con il loro deadname o con pronomi del sesso assegnato alla nascita.
Ci sono poi coloro che invocano “scelte sessuali e di genere”, come se ciascuno di noi, etero o omo, trans* o cis potesse scegliere il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere.
In quel termine, “scelta”, ci sembra depositarsi, implicitamente o esplicitamente, l’idea che ce ne sia una migliore di un’altra ed esprimersi, di nuovo, il non cogliere la realtà interna della persona, fino a disconoscerla.
[xxiii] si veda https://www.centropsicoanaliticodiroma.it/non-parlare-di-ma-ascolta-uno-sguardo-informato-e-rispettoso-sulle-famiglie-omogenitoriali
Anna Cordioli
Psicologa, Psicoterapeuta, Psicoanalista SPI, membro del Committee IPA “Sexual and Gender Diversity Studies”.
annacordioli@yahoo.it
Laura Porzio Giusto
Psicologa, Psicoanalista SPI, Referente per il Centro di Psicoanalisi Romano del Gruppo Nazionale SPI “Differenze sessuali e di genere”.
laura.porziogiusto@gmail.com
Articolo pubblicato in Cardia R., Colucci Mc. (a cura di), Gruppo: Omogeneità e differenze. Crudeltà e follia nell’epoca dell’incertezza catastrofica del tempo digitale e della intelligenza artificiale. ARGO Onlus – Associazione per la Ricerca sul Gruppo Omogeneo Roma/Milano/Padova, dicembre 2024, 10, pp. 219- 246.
Per una facile consultazione la Rivista può essere scaricata dal sito in formato pdf cliccando su questo link