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Infanzia e adolescenza

Busato Barbaglio C., Dipendere: difficile tessitura dall’infanzia all’età adulta. 2009

 

E’ questo un lavoro che ho presentato a Bologna all’interno di una giornata su: ‘L’enigma dipendenza‘. Il tema, anche se non nato da me, mi ha particolarmente incuriosito: è stato un modo -come spesso accade- di riprendere dei filoni di comprensione prima di tutto della propria storia personale, poi mi ha posto interrogativi sulle tessiture diverse che avvengono non solo per ogni persona, ma anche a seconda che si sia maschi o femmine, e infine mi ha posto il problema di quanto siamo capaci di essere o diventare sanamente interdipendenti nel nostro lavoro analitico. Ad alcuni di questi quesiti propongo,più che risposte, delle suggestioni. La tessitura al maschile e al femminile la propongo quale problema su cui pensare , in modo particolare legata anche alla coppia che si forma nella stanza di analisi sin dal concepimento di ogni analisi . Nella lettura della proposta che faccio vorrei venisse tenuta presente, quale interfaccia della tessitura della dipendenza madre- bambino , la tessitura della dipendenza paziente-analista.

Più volte nell’accingermi ad affrontare questo tema, mi sono trovata con il vissuto ben enucleato dal titolo dato alla giornata: l’enigma dipendenza. Ho scorso a lungo gli indici per argomenti delle opere di Freud, Klein, Winnicott, dizionari e trattati, ma con mio stupore ho notato che il termine dipendenza non appare mai tra le parole chiave , anche se ampiamente corre nei testi per indicare la dipendenza madre-bambino, la dipendenza dall’ambiente, la dipendenza dall’oggetto ecc. Dipendenza viene utilizzato nella clinica come termine descrittivo di funzionamenti . Anche negli ultimi testi di ricerca, per esempio negli studi sull’attaccamento, sia quello madre-bambino, sia quello dell’adulto, non viene trattata in modo diretto, ma continuamente citata come elemento basico: una componente essenziale all’umano. In modo particolare il termine dipendenza assume nel linguaggio clinico valenze più accentuate nella sua accezione negativa, patologica in cui uno dei partner scompare come persona, percorrendo strade pericolose se non autoannientanti. Impasto dell’umano, non è più fatta di reciprocità –interdipendenza, ma diventa espressione di un appiattimento, una rinuncia alla propria identità.

Pensando alla mia esperienza di vita, di formazione e di lavoro, mi sento di dire che la dipendenza è qualcosa che fa parte di noi a patto che sia mobile, elastica, con la qualità della pelle né troppo porosa né troppo callosa. Un dipendere necessario che non deve avere però i caratteri della staticità, qualcosa per cui si assorbe dall’altro, e possibilmente il buono, per poi condensarlo in un sé più ricco e più libero. Continuamente si ripete che, in seduta, le teorie o i testi devono restare sullo sfondo rispetto all’ascolto del paziente e alla comprensione del suo bisogno,ed  è necessario non esserne dipendenti altrimenti non è possibile liberare il proprio pensiero. Non trovando negli indici la parola chiave ‘dipendenza’ mi sono anche chiesta se essa non abbia a che fare con qualcosa che riguarda più un femminile materno, mentre gli studi sul legame e sull’attaccamento, non prevedano più un retaggio di studi e concettualizzazioni maschili. La dipendenza forse si tesse pure in modo diverso al maschile o al femminile.

Comunque in questo termine si addensano una quantità incredibile di variabili: dalla buona e sana dipendenza alla dipendenza patologica che non consente di esistere. Posizionarsi in questo arco determina, per ognuno di noi, che la nostra qualità di vita sia più o meno buona. Parlo di buona qualità di vita perché immagino, presente in noi, questo arco assieme alla sua oscillazione. Roberto Tagliacozzo in un suo bel lavoro sulla pensabilità, parlava della mente come di un parlamento interno in cui sussistono tante posizioni, il problema riguarda chi ha la maggioranza e da che cosa ci si fa risucchiare. Ognuno di noi, attento a se stesso, può rendersi conto di come, a seconda delle situazioni e dei problemi che la vita continuamente pone, si trovi a fare i conti con maggioranze diverse e a volte difficili da contenere. Parlo ovviamente di situazioni di funzionamento sufficientemente buone. Maggioranze e minoranze mobili, non dittature. Propongo perciò un livello di riflessione nel quale muovermi con interrogativi più che con risposte… lasciando così l’enigma all’enigma e proponendo solo alcune evocazioni. Per questo vorrei tentare di delineare la dipendenza entrando nella sua tessitura che riguarda l’inesorabile intrecciarsi della vita con la vita dell’altro, secondo una trama percorsa e ripercorsa lungo tutta l’esistenza.

La dipendenza, quindi, dove si concepisce? E che cosa intendiamo quando trattiamo di essa? Fornari in un suo lavoro sulla nascita della psiche, si occupa dello statuto dell’anima e lo configura ‘come statuto di verità’ che trae la sua giustificazione storica dal fatto di ancorarsi ad un altro mondo che ha costituito la soddisfazione totale del bisogno, garantita dal radicamento del feto nella madre e afferma che tutto ciò può essere considerato un delirio. ‘Da quando i gameti si incontrano nel concepimento adiacente all’atto di amore, la vita del feto si sviluppa radicandosi nella madre come la vita della pianta si sviluppa radicandosi nella terra’.

La Tustin parla di uno stare nello stesso fiume come sensazione di fondo, che produce una sensazione base di nascere con ‘il cucchiaio d’argento in bocca’. McDougall (1990) descrive l’inizio della vita psichica come un’esperienza di fusione da cui si genera la fantasia che esista un solo corpo, una sola psiche per due persone che costituiscono una unità indivisibile. La mamma non è ancora un oggetto, ma qualcosa di più grande …’una madre universo’, la cui internalizzazione costituirà una rappresentazione mentale della madre stessa rassicurante e benevola. Pallier (1990)afferma che quanto più salda e normale è la capacità fusionale, tanto meno evidenti sono i processi schizoparanoidei con conseguente diminuzione o assenza di falsificazione, idealizzazione, persecuzione e così via”. L’insistere di tanti autori su questo profondo ‘essere insieme’ e l’esperienza clinica mi spingono a interrogarmi sulle componenti necessarie per dare vita ad un vissuto forte, una ‘dipendenza’ che faccia sentire esistenti .

Freud , non prevedendo la fusionalità, propone un punto interessante da riprendere per poi andare oltre: il tema del desiderio. Mangini lavorando sul pensiero di Freud afferma che «il desiderio possa nascere solo se “si appoggia” su un precedente bisogno corporeo soddisfatto che ne costituisce la matrice [...] La stessa fame o la stessa sete del neonato è sempre un po’ “inquinata” da una componente pulsionale che eccede rispetto al bisogno in sé. Se fosse solo bisogno fisiologico non ci sarebbero componenti affettive eccedenti, come il pianto prepotente, la voracità o altre manifestazioni che sottolineano come non si tratti solo di placare la sete, ma come ci sia la pretesa che questa sete non debba mai essere avvertita, perché il disturbo che apporta quando c’è indica che c’è qualcosa che impedisce una sensazione di beata onnipotenza, e che dunque rinvia, al contrario, a un’esposizione traumatica per cui il neonato, unico tra gli esseri viventi, è costretto a prendere atto di una dipendenza, che Freud chiama Hilflosigkeit, impotenza originaria» (corsivo mio). In questo caso la ‘teoria dell’appoggio’ spiega che «nessun bisogno può essere mai totalmente soddisfatto e che ciò è indispensabile perché si formino quei desideri che sono così importanti per la vita, come la ricerca di un oggetto».

Tenendo presente la ricchezza della diversità di organizzazione teorica e la lunga strada percorsa direi oggi che, all’inizio della vita, tutti e due i partner della nuova avventura sono profondamente dipendenti l’uno dall’altro: il feto e la madre… Profondamente impastati per dare vita contemporaneamente ad un nuovo essere, ma anche ad una madre, in una terra che si costituisce come luogo della nascita della relazione che si va facendo e che dà nuova identità ad entrambi.

La dipendenza è quindi base dell’esistere, non si dà vita senza dipendenza, è il fondamento e la tessitura dell’identità.

Interessante a questo proposito il libro di Stern ‘Nascita di una madre’ che, tra tanti libri riguardanti come meglio si crescono e si nutrono i bambini, parla invece della nascita della madre.

Ricordo,a questo proposito, una battuta vivida di una mia paziente rispetto al suo modo di funzionare in gravidanza. Voleva e non voleva diventare madre ,e scorazzava come una matta per tutta Roma in  autobus e quando arrivava in seduta con il pancione sembrava arrivasse cavalcando. Intuendo la mia preoccupazione alla fine ha commentato sorridendo: ’questo bambino è proprio aggrappato saldamente alle maniglie del tram e non si fa intimorire, si mantiene saldo!!!!’ Parlava di sé nella relazione e della nascita della mente del bambino in lei.

Nel linguaggio più tecnico, parlerei di situazioni di fusione che hanno già in sé i semi della diversità e della mutua dipendenza. Nel libro :”La comprensione della bellezza, Meltzer  (1973)parla di una madre nel cui viso pieno di luce ci sono anche delle nuvole che passano, cosa che fa pensare ad un essere insieme che non è solo fusione, ma anche prototipo di separatezza.

Due esseri si danno reciprocamente identità in una dipendenza totale fisico-psichica, identità che nasce, sin dall’inizio, da un complesso impasto di sana fusione, ma anche separazione.

Fusione e separazione contengono, nel loro radicarsi, una storia antica e i germi di una storia nuova. Il concepimento e la crescita della nuova relazione diventano luogo di continua invenzione e luogo della nascita della mente. Ogni nuova e assolutamente originale relazione porta immediatamente con sé una lunga storia.

Non ricordo dove ho letto che  l’identità cammina con la storia e le identità non possono essere pure e murate in se stesse, perché non ce n’è una che non sia tributaria e partecipe delle identità degli altri, della cultura e dell’ambiente. Tutto ciò ci interroga su quali siano gli ingredienti base necessari perché si avvii una buona dipendenza: capacità di amore, di accoglienza dell’altro, di presenza a se stessi e ai propri funzionamenti. Come viene accolto l’annuncio di un nuovo bambino, di quali sensazioni, emozioni, sentimenti è ingravidato l’annuncio? Come la madre, il padre, l’ambiente si attrezzano ad accoglierlo, come lo pensano e lo concepiscono nella loro esistenza? Il DNA psichico della dipendenza mi sembra strettamente legato a modalità di accoglimento che vanno dal corpo alla mente, e che strettamente hanno a che fare con la possibilità o capacità di vivere l’intimità.

Intendo quindi per dipendenza tutto ciò che fa essere se stessi e che ha contribuito nel corso del tempo a che ciò avvenisse. Nel concepimento, inoltre, entra tutta la storia fisica e psichica della madre, dell’ambiente, del padre, storia che contribuirà a creare quella del bambino.

"Nella stanza di ogni bambino ci sono dei fantasmi. Sono i visitatori del passato non ricordato dei genitori; gli ospiti inattesi al battesimo, come la strega cattiva nella fiaba della Bella addormentata. Gli intrusi possono irrompere nel cerchio magico, così che un genitore e il suo bambino possono trovarsi a rappresentare un momento o una scena di un altro tempo con un’altra compagnia di attori". Così Selma Fraiberg, psicoanalista, nel suo classico lavoro dal titolo ‘I fantasmi nella stanza dei bambini’, descrive in modo suggestivo come la vita di alcune persone possa essere ossessionata da fantasmi di brutalità nelle situazioni peggiori, ma anche di insensibilità incontrate nell’infanzia. Mi sembra interessante che l’autrice si soffermi a delineare come le stesse situazione di gravità possano essere contenute proteggendo le madri stesse da gravi disadattamenti e proteggendo così anche i figli dalla trasmissione transgenerazionale che può aver rovinato o reso meno buona la loro infanzia.

Maria Luisa Mondello, in un suo lavoro dal titolo ‘Dall’identificazione proiettiva ai neuroni mirror’, sottolinea quanto le attuali descrizioni dell’intenso accordarsi tra madre e bambino sembrano dare consistenza ed estesa riconoscibilità a ciò che è stato ben letto come identificazione proiettiva:capacità del bambino di far provare alla madre i suoi stati psicobiologici perché l’adulto possa recepirli, amplificarli e con competenza consentire alla comunicazione di divenire legame, attaccamento, percezione di essere compresi e di comprendere.

Gli studi più aggiornati, sia della psicoanalisi sia delle neuroscienze, danno per acquisito che stringere relazioni emotive intime sia una componente di base della natura umana. I bambini infatti, anche se molto piccoli, hanno sorprendenti capacità di percezione degli altri e raffinate capacità di discriminazione percettiva. Fin dalla nascita per il bambino è necessario uno spazio in cui condividere sensazioni, emozioni, aspettative e intenzioni, spazio che permetterà il graduale sviluppo di una consapevolezza comune, base di ogni comunicazione e di ogni apprendimento. Gli studi sull’allattamento, per esempio, mostrano come nell’andamento della relazione tra il bambino e la madre, dal modo di essere tenuto in braccio, al rispetto delle pause, dei tempi e alla risposta ad essi, non solo viene favorita l’alimentazione, ma sono poste le basi di una vera e propria comunicazione, uno scambio profondo e complesso. Non è solo il nutrire che passa, ma un ‘intenso dialogo’ fatto di corpo e di mente. ( In una osservazione madre-bambino una madre con difficoltà di rapporto stretto con l’altro si era talmente ingrassata da allattare la figlia ad una distanza tale da non permettere alla bambina di cogliere il battito del suo cuore ).

Rizzolatti afferma che” il possesso dei neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano così uno spazio di azione condiviso , all’interno del quale ogni atto e ogni catena di atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata “operazione conoscitiva”. Lettura che mi sembra interessante perché dà consistenza agli studi sull’identificazione proiettiva sottolineando un movimento riflesso tra i partners della relazione che non passa immediatamente e sempre per una struttura rappresentativa eppure è presente e fonda la comunicazione e la dipendenza.

Collego la dipendenza ad un alfabeto relazionale che nasce già nell’utero e che in qualche modo rimarrà come imprinting, come statuto o come modello nella vita. Una dipendenza che si fa nel farsi della relazione tra due componenti: la madre e il bambino, il bambino e l’ambiente ;una dipendenza che si tesse e si crea nelle profondità complesse e a volte non raggiungibili della relazione. Versante questo estremamente importante da tenere presente nel lavoro analitico o nelle consulenze: la creazione cioè di uno spazio comunicativo che è fatto anche di intuizioni, di sensazioni e di messaggi corporei spesso difficilmente traducibili in parole.

Shore afferma che tutti i ricercatori che operano in una cornice evolutiva si occupano non tanto di stati primitivi della mente, quanto di stati primitivi mente- corpo…

In un altro mio lavoro scrivevo: ‘Se il bambino si agita, la mamma (sufficientemente buona) è protesa a capire che cosa lo può tranquillizzare, pian piano lo sperimenta, e impara che cosa può creare agitazione.’ Mettersi in ascolto del bambino dentro la pancia, dei suoi tempi e dei suoi segnali, parlargli o cantargli canzoni (il modo di accarezzarlo accarezzandosi) e, ancora più avanti, giocare con i piedini, con la testa o con le mani che formano dei bozzi, sono momenti che nutrono l’esperienza della relazione. Pure danno indizio di quanto essa funzioni oppure sia problematica. E’ una relazione che parte dal corpo stesso e vive la vicenda in cui il bambino c’è e contemporaneamente è celato, è conosciuto e insieme sconosciuto. E’ un bambino che ‘si fa’ nel ‘farsi’ della relazione. Un crinale particolarissimo di sensorialità concreta, di sensazioni e intuizioni, di emozioni e sentimenti con i quali la donna ha a che fare nel suo stesso corpo, apprendendo e discriminando tempi e attese di riscontro e di scambio’.

L’esperienza di analisi con donne in gravidanza mi ha fatto intravedere ancora più lucidamente la peculiarità comunicativa dell’inizio della relazione, l’impasto profondo tra corpo, fantasia e relazione tra due persone diverse in cui una sta dentro l’altra e la comunicazione è fatta di corpo e di parola. Una comunicazione particolarissima che investe livelli della mente quasi ineffabili, eppure già con tutta la ricchezza delle infinite gamme di possibilità fisico-comunicative. I contenuti verbali in questo caso sono relativamente importanti; ciò che conta è la tonalità della voce, i movimenti del corpo, il ritmo silenzio-parola, l’essere rilassata o tesa della madre, una qualità di ascolto profonda, ’fisica’ della madre di ciò che sta nascendo e che pian piano troverà parole per dirlo e pensieri, il tutto spesso indicato e incarnato nel corpo.

Una capacità ‘di dipendere dalla realtà’ che permetta di continuare a ‘impastarla’ in qualsiasi rapporto poi si vada a costituire.

In altre parole si potrebbe dire che la mente attenta, sollecita,capace di funzione riflessiva della madre dà continuo contenimento e risposte al bisogno, alle paure, alle sensazioni del bambino ed è questa funzione che permette al bambino di costituire una trama fisica di sé nei primi momenti della vita in cui ancora una memoria autobiografica non è funzionante.

La madre può fare tutto questo se accetta, tollera, che la sua vita sia condizionata e dipendente da questo stato e trasformata da questo evento.

Recentemente ,una futura mamma al quinto mese di gravidanza, mi raccontava in una seduta che la sua bambina, in momenti di particolare suo spavento o perdersi nell’angoscia, ‘si ammutoliva’. Su sua richiesta-supplica,  secondo la madre a una particolare intensità della voce, la figlia era già in grado di inviarle dei segnali, attraverso piccoli movimenti che la tranquillizzavano, e inoltre anche lei, mamma, aveva iniziato a ‘sentire’ che cosa poteva servire alla sua bambina, quando era agitata, per tranquillizzarsi.

Una comunicazione profonda, una relazione costitutiva della mente della bambina e, in modo particolare, ‘rimodellante’ quella della madre a essere madre e di me analista a rivisitare e a risignificare questi livelli. Creazione, quindi, di una maternità in grado di contenere e di dare vita e senso a quell’esistente e al suo bisogno, stabilendo una relazione ‘al di là della parola e della persona davanti, con la persona dentro’, una persona che si va facendo, una mente che si va costruendo.

Al contrario, con un’altra mia paziente al quinto mese di gravidanza ,persona molto intelligente mi si rendeva tormentosamente evidente un qualcosa che mi turbava e mi creava preoccupazione.

Pur avendo cercato e desiderato moltissimo un figlio, era come se la bambina che stava crescendo nella sua pancia poco o nulla avesse a che fare con lei , tranne per ciò che concerneva le analisi mediche. Sembrava si stesse occupando più di un momento in cui si preparano le carte per l’adozione e tutto doveva essere a posto. La bambina che nell’utero era concepita e stava crescendo, non aveva posto ‘dentro’ la madre. Ciò creava in me una costante  necessità di renderla presente, di ricordarla, di parlarne, di chiedere. Ma sembrava non facile il passaggio dal parlarne per motivi cartacei al parlarne nella carne, negli affetti. L’accorgersi tutte e due di questo modo di funzionare (il suo linguaggio preciso e intelligente non mi ha permesso all’inizio di cogliere che era vuoto) ha permesso di dar nome in modo più chiaro a ciò che le stava succedendo con la bambina, al modo di relazionarsi non in contatto con gli affetti e le sensazioni  e talvolta, al contrario,  il suo precipitare e essere travolta dalle emozioni quasi a rimanere senza mente.

 L’esperienza  della gravidanza ha costituito per lei il modo per poter iniziare a reimpastare corpo e mente, distanze siderali e vicinanze collassate: una dipendenza che si era costituita con i caratteri  della non 'non dipendenza.

Questo funzionamento mi ha fatto riandare al pensiero di Matteblanco sulla simmetria e asimmetria della mente. La mente viene vista da lui come uno spazio multidimensionale stratificato in cui possono essere compresenti più aspetti, cosa che permette di dare posto alla complessità e molteplicità dei livelli di lavoro. La sua distanza  siderale appare quindi un modo per difendersi da una situazione marasmatica, ‘simmetrica’ ingestibile.

Un ritorno alla carne nella culla protettiva dell’analisi ha permesso alla madre di accedere all’intimità con l’altro e questo non solo con la bambina che sta dentro di lei, ma anche nella coppia e con me iniziando a distinguere e differenziare e costruire passaggi intermedi e anche diversi nelle sue teorie e costruzioni mentali acute e raffinate.

La dipendenza è quindi uno statuto di base. La costruzione del ’luogo dell’intendersi’ è la tessitura della dipendenza .

Per questo pongo sotto i riflettori, quali esperienze da osservare, le primissime relazioni madre-bambino che hanno inizio in utero e che avviano ‘un modo di essere ’ e ‘di mettersi in rapporto ’, inscrizioni antichissime che come la chiave musicale determinano la tonalità di vita. In modo particolare, laddove la risposta emozionale è stata povera o inesistente ,si formano aree di orfanità come modi di sopravvivenza o di difesa dal dolore. Non è che poi tutti gli altri momenti della crescita non siano importanti e non introducono novità, ma per lo più si inseriscono in questa chiave musicale di base, pur tenendo presente che la vita è ricca di imprevisti e cambiamenti e spesso dona situazioni e possibilità nuove.

Che cosa avrà portato con sé della relazione e del modo di dipendere dall’altro la prima bambina nell’interdialogo tra la sua capacità di mandare segnali e quella della madre di rispondere e cosa avrà portato con sé l’altra bambina di quei mesi nei quali non è stata concepita nella mente della madre o è stata concepita a quel modo? A quale tipo di dipendenza le due relazioni stanno dando avvio? Nella crescita la prima bambina farà i conti con una madre che confida sia lei la madre, come nel quadro di Magritte? La seconda sarà in contatto con nuclei di difficile accesso materno? Quest’ultima dopo la nascita ha manifestato problemi della pelle. ( e questo potrebbe aprire anche un capitolo sulle dipendenze corpo- mente). Mi sono spesso chiesta se potevano essere collegati a quei primi mesi di ‘lontananza materna, di non costruzione di una intesa’, qualcosa di impresso nella carne, una pelle fisica che segnala sgranature della tessitura, punti nei quali non è avvenuta una buona aggregazione del sè (Segnalo a questo proposito i bei lavori della Bick, di Anzieu, Ogden).

Prima dell’estate, una mia paziente mi ha ulteriormente aiutata in questa riflessione.

Nel ringraziarmi, il penultimo giorno di una lunga analisi ‘Dottoressa io sono nata qui dentro, conosco anche tutti i limiti di questa esperienza i suoi e i miei, ma io sento che la mia vita è iniziata qui, in questa stanza’. Non mi soffermo sull’emozione da me provata in quel momento. Al contrario  mi stavo chiedendo e un po’ torturando se avessi fatto abbastanza, se abbastanza l’avessi  aiutata,  se con lei avessi percorso il possibile oppure  che cosa altro sarebbe stato ancora da fare. Con emozione avvertivo però la sua sensatezza e il suo sapere  accettare i limiti, quasi che in quel momento nella relazione avessi consegnato a lei la possibilità di rassicurarmi del buon lavoro . Antonella, questo il nome con cui sarà fra noi, durante l’analisi più e più volte aveva raccontato di essere nata per un fatto religioso e non perché sua madre, i suoi, l’avevano voluta. Sempre si era sentita ripetere da bambina che se non fosse stato per problemi religiosi avrebbero preferito abortirla. E questo detto dalla madre, dalla nonna, dal padre. E la sua vita è stata un perenne tentativo di essere come la madre la voleva, impegnata a realizzare la  fantasia di lei, cioè farsi contenitore alle sue angosce  perdendo via via pezzi di sé. Antonella  inizia l’analisi  a 20 anni sul finire di una adolescenza non vissuta e che ha come conclusione un  grave incidente di motorino: si presenta sorretta dalla madre e dalle stampelle. Saprò ben presto che prende parecchi farmaci ( neurolettici, antidepressivi e ansiolitici) e passa tutto il suo tempo a letto sprofondata nell’angoscia. Non vuole più sentire o vedere nessuno la sua vita si è fermata. La sua famiglia viene vista da lei come un assemblaggio familiare. Nessuno secondo lei ha vita propria e separata .

Devono stare tutti assieme per poter vivere ed escogitano sistemi per non separarsi. Sua madre non la voleva come non voleva nessun figlio. L’unica sua possibilità di contatto con l’altro era la sensazione, la malattia corporea prima che mentale che dà notizia della necessità di essere accettata per sé per questa parte non amata e non accettata soggetta ad un continuo suicidio. La soluzione identitaria adolescenziale sembra affidata al chiodo che è stato messo nell’intervento e che appare come unica possibilità di tenere insieme pezzi di sé. Il cuscinetto isterico e teatrale della malattia fisica sembra necessario per difendersi dalla catastrofe. Il lavoro difficile è stato ripristinare,fare spazio anche ad un movimento introiettivo.

L’ovulo fecondato che poi sarà Antonella ha avuto attecchimento, gravidanza e nascita, ma poco di relazione con ‘ maternità’. Nei livelli più precoci della sua mente, a livello fisico quello che probabilmente ha sperimentato è stato  in buona parte rifiuto, non accoglienza  e difficoltà ad avere un posto suo , cosa che non ha permesso una identificazione con una madre accudente e un suo potersi occupare di sé senza vivere in funzione della madre nella perenne angoscia , se non realizzava questo, di essere abortita e di perderla. Una dipendenza non con le caratteristiche dell’affidarsi tali che ognuno dei due componenti si realizzi  nella propria funzione, ma una dipendenza in cui l’essere delle due si perde in una confusione identitaria in una perdita di funzioni materne e di possibilità di crescita per la figlia.

Ciò ha portato  Antonella ad avere esperienze di  coppia con donne, quasi  una perenne ricerca di rifondare un suo accoglimento, la ricerca di un vero attecchimento, di una possibilità di impastarsi con un qualcosa che desse fondamento al suo diventare donna. Sembrerebbe che in questa situazione l’insufficiente dipendenza da un oggetto materno buono abbia mantenuto la necessità di ricercare concretamente all’esterno un approccio fusionale con la donna per completare il femminile che non ha avuto diritto di esistenza.

 Bollas in un capitolo del libro sull’isteria dal titolo ‘In principio è la madre’ parla di un sè catturato nelle storie dell’altro, costretto a identificarsi con esse e poi a narrarle e identificarle. (questo lui lo vede in modo particolare legato alle personalità isteriche, personalmente credo abbia posto in molte altre strutture anche se con modalità differenti).. 

Essenziale alla funzione generativa materna ,continua Bollas, è l’amore erotico per il figlio, espresso più particolarmente nell’erotismo dell’allattamento che è una forma di sessualità. Neonato e madre sono saziati dall’allattamento inteso come esperienza somatica, erotica ed emozionale.

 Interessante a questo proposito è sottolineare quanto l’osservazione che spesso si fa della relazione madre- bambino evidenzi altro. Assai difficile è sentire esprimere queste sensazioni o emozioni alle madri che allattano,molto più facile sentire parlare delle loro paure, difficoltà, dolori fisici ecc come se ci fosse anche un divieto culturale al piacere e al piacere sessuale per le donne che allattano  una sorta di scissione tra l’essere donna in pienezza e madre.

Il piacere, l’erotismo per il nuovo nato  ‘appassiona’ alla vita, crea i presupposti dell’immaginazione, del pensiero (non della tortura), della curiosità e della sana e appassionata dipendenza alla realtà.

Là dove questo impasto non avviene si creano  dei vuoti, delle aree da me chiamate, in altri lavori, di ‘orfanità’. Aree in cui l’affidamento e la dipendenza non albergano in senso positivo e al contrario si creano  callosità o  buchi della mente.

Danno corpo a questa mia idea sui ‘ luoghi dell’orfanità’ i contributi, sempre più numerosi sul tema della memoria (Mancia, Stern).

Mancia (2004)sostiene che un discorso sull’inconscio presuppone un discorso sulla memoria. Nel suo libro ‘Sentire le parole’ colloca come vertice di osservazione la memoria e sostiene che, sul piano psicologico ,si può distinguere in memoria esplicita o dichiarativa o autobiografica e implicita. ”La seconda non è cosciente né verbalizzabile. Essa comprende il priming, la dimensione procedurale relativa all’apprendimento motorio, e quello affettivo emozionale delle esperienze primarie (anche traumatiche) del bambino con la madre e con l’ambiente in cui cresce. Le fantasie e le esperienze collegate a queste esperienze preverbali e presimboliche depositate nella memoria implicita, verranno a costituire un nucleo inconscio del Sé non rimosso che potrà condizionare la vita affettiva, emozionale, cognitiva e sessuale del soggetto anche da adulto. La memoria e la sua organizzazione anatomo-funzionale verranno a costituire un’area di incontro tra neuroscienze e psicoanalisi”. Chissà se ,circa la formazione di queste aree, la ricerca delle neuroscienze ci potrà indicare modi aggiuntivi di guardare alla costituzione della mente e alla relazione madre bambino ambiente.

Ultimamente si sta parlando molto di neuroni mirror . Al congresso di Siena, per spiegare la funzione dei neuroni mirror, Gallese diceva che se per un mese, mezz’ora al giorno si guarda uno che fa esercizi fisici alle spalle, dopo un mese senza aver fatto nessuno sforzo fisico gli stessi muscoli dell’osservatore hanno un qualche sviluppo. I neonati che osservano o si attaccano con lo sguardo alle madri che cosa attivano ? E le madri nel loro modo di guardarli o non guardarli che cosa mettono in moto?

La costruzione-costituzione dell’identità, quindi la qualità della dipendenza, il cui lavorio inizia fin dalle prime cellule, comprende anche nelle relazioni meglio riuscite aree di sé in fieri, vissuti primitivi da rifondare o da riattivare attraverso potenzialità affettive che offre la relazione la cui difficile o esigua esperienza, nel passato, non ne ha permesso prima la realizzazione e ne ha inficiato poi le possibilità evolutive. Spesso tali livelli sono espressi in comunicazioni al di là della parola, utilizzano il corpo come forma comunicativa e abbisognano di essere accolti per poter essere mentalizzati.

In un lavoro scritto con altri colleghi ( Baldacci,Busato,De Sanctis) ipotizzavamo che esperienze vissute come traumatiche possono essere immagazzinate sotto forma di tracce mnestiche che vengono congelate o dissociate dall’io centrale della persona o dal funzionamento del suo sé. Questo processo, che presenta i caratteri di una scissione, lo colleghiamo ad una primitività dei vissuti traumatici, primitività che non permette né l’accesso ad una rappresentazione cosciente dell’esperienza né, quindi, la possibilità di un successivo ricorso ad un processo di rimozione.

La mia esperienza di analisi con donne in gravidanza e di lavoro nell’ osservazione madre-bambino specie in qualità di supervisore in una scuola per bambini da 0 a 5 anni, mi ha permesso di intravedere, via via nel costituirsi della relazione , la possibilità che si creino queste aree.

Antonella  con il suo chiodo  che teneva insieme varie parti di sé permette di passare ad una età, l’adolescenza, in cui la dipendenza che è stata intessuta dal buon legame diventa capacità di stare con sé e di sperimentarsi nella relazione con gli altri. Direi che con l’ adolescenza parte delle dipendenze reali sono sciolte mentre rimane lo zoccolo duro ‘legato al legarsi’ che in qualche modo è da rifondare.

Iniziare quindi a dipendere da sé oltre che a essere capaci di dipendere bene dagli altri.

Questo riporta immediatamente all’impasto di sé-altri che si è costruito. L’osservatorio della stanza di analisi, ma anche una mia supervisione all’ambulatorio del Gemelli per gli adolescenti, mi ha permesso di riflettere su quanto le prime relazioni possano rendere difficile il consolidamento o meglio il concepimento della propria identità in adolescenza. Fondare il proprio territorio, mettendo insieme ciò che si è consolidato e che si vorrebbe non utilizzare con un sé nuovo, è un’operazione complessa. Anche perché i cambiamenti ormonali portano in primo piano e in maniera consistente un’inondazione di memoria implicita, fatta di sensazioni, emozioni e sentimenti difficilmente traducibili e inquadrabili in pensieri.

Non mi soffermerei oltre su definizioni di adolescenza ed evidenzio piuttosto le sgranature della dipendenza e le ‘sostituzioni illusorie’ della relazione con l’altro, quali l’introduzione di elementi concreti che hanno la funzione di tenersi in vita, anche se falsamente, in un circuito che può diventare pericoloso. La dipendenza diventa qualcosa non più di elastico, ma una sorta di sudditanza, una difficoltà ad essere liberi e responsabili. In adolescenza tutto questo può ancora avere un significato di passaggio, un tentativo di darsi forma, a patto però che questo modo di funzionare non si staticizzi troppo. In questa prospettiva, per esempio, il cibo, gli stupefacenti, i dubbi sulla propria identità sessuale e la stessa promiscuità sessuale spesso riempiono le sedute, la mia mente e la mente dei pazienti, assumendo realmente la forza di qualcosa di ‘solido’, a cui aggrapparsi rispetto ad un vuoto interno che in adolescenza si presenta come vuoto di sé. Passaggio questo non eliminabile. Dipendere quindi da qualcosa che si può controllare, manipolare, trasformare in un rituale che porta illusoriamente fuori dalla conflittualità.

Spesso queste situazioni poggiano su storie relazionali particolarmente difficili, fatte di solitudini, abbandoni, discontinuità affettiva, rapporti intermittenti. Ciò che le accomuna nel momento in cui il lavoro adolescenziale richiede con forza di diventare se stessi e di costruire la propria capacità di responsabilità, è la difficoltà o l’incapacità di nutrirsi della vita e di sé. Una esperienza di dipendenza dalla vita che si è inscritta malamente e che ha poi continuato ad avere testimoni che l’hanno rinsaldata sulla stessa linea. In questo senso la struttura più fragile che non ha dove poggiarsi, non ha in sé l’esperienza di una buona dipendenza e funziona in un continuo ritorno al concreto, al ‘prendere’ che, senza strutture per trattenere, diventa sostitutivo del ‘sentirsi essere’.Il continuare a prendere, senza trattenere, tollerare, digerire e fare riferimento a sé, impedisce la crescita, come nella vicenda di Antonella.

In queste situazioni si è spesso evidenziata una coppia genitoriale priva o deprivata del percorso necessario all’accoglimento, al contenimento e alla crescita di un bambino, con problemi con la propria dipendenza, con quella della coppia. Sembra che per queste stesse coppie genitoriali la comunicazione e il farsi della relazione sia al di fuori di sé e confinato in ruoli, funzioni, doveri a latere del nucleo centrale costitutivo dell’essere. Questa condotta incoerente non ha permesso l’esperienza di una sequenza comportamentale capace di condurre ad un cambiamento vissuto e riconosciuto in quanto tale da sé e dall’oggetto esterno come conquista positiva di nuove competenze da rinsaldare. Manca l’esperienza di ciò che va rinsaldato e come. Quello che c’è ha la qualità della precarietà e può scomparire da un momento all’altro. L’uso per esempio delle canne, non tanto nel senso di sospendere il pensiero tormentoso che le fa affini ad un ansiolitico, ma nel riempire sostitutivamente la testa in una incessante ricerca rituale e gestuale, alla fine funziona come il vomito. Parte come ricerca di sentirsi forti per tradursi poi in un non sentirsi o quantomeno sentirsi avendo eliminato pezzi di sé conflittivi, e per questo non elaborabili. Ma questo è un sistema controllabile. La stessa confusione rispetto all’ identità sessuale appare come l’estremo tentativo di non progressione verso il diverso, il conflittuale, e di controllo esasperato di quel poco che di sé si può sostenere con l’integrazione di un altro sé dello stesso segno. Il diverso, il conflittuale non si sono radicati bene in una terra contenente anche ciò. Che cosa può offrire il setting analitico rispetto ad un concreto che si è fatto un reale interlocutore terzo nella stanza? In che modo cioè un analista può e che cosa può in una situazione simile nutrire diversamente l’adolescenza?

Credo che innanzitutto vada sottolineata la restituzione all’adolescente della centralità, di essere colui al quale si pensa, di cui ci si occupa e ci si preoccupa: un adulto sta lì per questo.

Questo è già in sé un capovolgimento della primitiva esperienza in cui si è stati a contatto con adulti da far stare tranquilli, un esistere possibilmente in punta di piedi, un doversi arrangiareda sé. Come è possibile, con una carenza di relazione all’inizio della vita, dare vita ad un'esperienza emozionale correttiva che permetta di fronteggiare le difficoltà del crescere? Per esempio, come sopportare frustrazioni difficilmente dissociabili dall’avere tutto e subito? Non avere tutto subito rimanda a sensazioni di inconsistenza e di non-esistere che devono essere immediatamente colmate. Il tempo dell’attesa diventa per l’adolescente come un gorgo che risucchia e rimanda a immagini di fallimento, di vuoto, di incapacità tali che le dilazioni non possono essere tollerate: bisogna riempire immediatamente il tempo con un fare che elimina il problema. Come esistere nel tempo? Questi adolescenti che portano tali problemi di alimentazione della vita, nei momenti più disperati sembrano indicare la difficoltà di stare nel tempo, collocandosi al contrario in una eternità che non è più comprensiva di movimento. E fanno sentire con grande acutezza quanto il suicidio potrebbe realmente essere l’unica soluzione, capace di eliminare anche il senso del tempo che in questi vissuti è solo ‘uguale’ e ‘così’ per sempre.

Già il sopportare, da parte dell’analista, il continuo ritorno al concreto che azzera e non è ancora scioglibile in una comprensione, affianca al nutrimento immediato e avido una sorta di pazienza, di tolleranza, di poter stare lì anche con il fallimento e di poter reggere anche le fantasie estreme quali quelle di suicidio. Qualcuno con cui fare la digestione dei vissuti. Ad un tipo di nutrimento viene così avvicinato un altro modo di nutrirsi, fatto dell’esserci, con pazienza e tolleranza, oltre che con la speranza, certezza di uscirne. Pazienza e tolleranza dell’analista comprensiva del poter utilizzare al meglio le proprie intuizioni, sopportando di vederle perennemente vomitate o riempite di fumo. Reggere la frustrazione e saperla ‘masticare’ è una prima esperienza fatta insieme di segno diverso.

Come a restituire un’immagine complementare di possibilità di sé che si ritiene impossibile. Il tentativo di un ripristino della tessitura della dipendenza : una costruzione con l’altro che porta oltre il concreto per vivere .

Masticare  i tempi lunghi, i fallimenti e le frustrazioni diventa una capacità sperimentabile con l’analista, unita alla scelta di che cosa, di volta in volta, sottolineare. In una delle ultime sedute, dopo un tempo lungo di analisi tra fumi di canne, diete dimagranti  e altro, una ragazza mi raccontava un sogno in cui c’era una cagnetta che aveva partorito quattro cagnetti, ma aveva solo tre ‘tette’. Un cagnetto stava rischiando di morire di fame, ma improvvisamente la paziente nel sogno si diceva: ’Lo potrei allattare anch’io’. L’immediata associazione da lei fatta è stata inerente alla ripresa dei temi del sentirsi sfigata e ‘senza la tetta’ ed è iniziata una lamentazione,  nei confronti dei suoi genitori. Dopo un po’ di lamentele le ho fatto notare la parte del sogno, da lei non considerata, in cui però aveva pensato di poter nutrire quel povero cagnolino che rischiava la morte; la ‘sua’ mente  esprimeva così la capacità di iniziare a nutrirsi nonostante la mancanza della tetta. Ho lasciato ad altri momenti la ‘sfigatezza’ e la colpevolizzazione dei genitori, sottolineando e sostenendo con vigore invece la nuova risorsa da lei stessa formulata. La tessitura fatta assieme di una dipendenza con aspetti vitali e positivi di sé.

Un certo tipo di presenza dell’analista, capace per primo di tollerare le frustrazioni, di masticarle e digerirle e capace di fare i conti con lo scoramento del trovarsi con tutto perennemente azzerato, propone un ponte con la possibilità di uscire da questi impasses e di dar vita alla speranza. Mangiare analisi e vomitarla, pensare e riempirsi di canne, arrivare a insigth interessanti e ritrovarsi il giorno dopo, se non il giorno stesso, punto da capo. La sopportazione profonda di questi livelli, non aliena da scoramenti, ma capace di ricominciare nuovamente, a mio avviso offre, se si ha la costanza di non mollare, la possibilità che si aprano lentamente nuove esperienze e che l’adolescente possa iniziare a nutrirsi da sé in un altro modo. Credo anche che non sia secondaria l’esperienza fatta e sottolineata di un rapporto con il tempo che in questa nuova esperienza non è affatto sempre uguale.

E’ esattamente sulla costanza e sulla capacità di non aver paura della vita, ridando continuamente la fiducia e riprendendo il lavoro analitico, pazienti e fiduciosi, anche se la realtà sembra dare un segnale contrario, che si manda un messaggio di forza e coraggio e si dà forse fiato a vissuti non sperimentati o mutilati. E’ un mantenere per l’altro la speranza e la progettualità: 'può allattare da sé il cagnetto'. Dipendente da qualcuno che crede in lui, dipendente da un sé che può essere ‘capace’.

In un altro mio lavoro parlavo della costruzione della reciprocità legata a un serio condividere, anche nel rischio di fallire, la strada dell’altro, operazione che a volte i genitori si trovano incagliati a fare, per cui spesso, specie in queste situazioni difficili, continuano a mandare messaggi infelici ai figli. La comunicazione, quando si inceppa, riguarda la sottolineatura continua dell’essere perennemente fuori posto, incapaci di fare le cose giuste.

Una perenne conferma di ciò che hanno già sperimentato loro da piccoli.

In questo senso mi sembra che l’esperienza di lavoro con gli adolescenti, proprio per la qualità del momento estremamente delicato ed in fieri che si trovano a vivere, cioè la nascita di sé, nell’esperienza di rimodellamento e con il ripristino di una loro centralità rispetto a qualcuno che ’pensa a loro’ nella continuità e nella coerenza, permetta di iniziare a pensarsi da sé, ad assumersi, a proteggersi. Forti di una esperienza ora diretta di accudimento e non capovolta, possono avvicinarsi alla centralità del rapporto ed eventualmente farsi carico della loro modalità di vita a latere. Dipendenti dinamicamente.

Concluderei dicendo che non possiamo che accettare e anche ringraziare di essere dipendenti se tutto ciò avviene all’insegna di una sempre migliore qualità di vita. La dipendenza di base vissuta in maniera vitale si trasforma gradualmente in autonomia cioè nella fiducia di saper trovare nella realtà e nelle relazioni una risposta ai propri bisogni e saper stabilire rapporti nei quali si è profondamente insieme in un impasto creativo di unione e separazione.

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