Il titolo della mia introduzione a questa mattinata vuole essere un’anticipazione della complessità del tema che mi accingo a presentare. Lo spunto è la pubblicazione del bel libro di Anna Nicolò Rotture evolutive (2021) con una particolare attenzione al capitolo inerente al tema dell’identità di genere messo in corrispondenza al momento complesso della crisi e delle trasformazioni in adolescenza sul piano corporeo e della formazione dell’identità individuale e sociale. Nel capitolo preso in considerazione vengono affrontati due casi di adolescenti con disforia di genere fortemente sofferenti che, però, nel corso della psicoterapia psicoanalitica, esprimono modalità diverse nel porsi in relazione alla crisi nel loro rapporto con l’identità sessuale, le condizioni traumatiche relative alle relazioni primarie e le strategie psichiche messe in campo per fare fronte al conflitto tra il corpo sessuato e quello immaginato come soluzione al dolore ed alla sofferenza psichica. Le considerazioni di Anna Nicolò mettono in evidenza da un lato l’importanza di mantenere un assetto psicoterapeutico, che consenta di accogliere la sofferenza e integrare, per quanto possibile, i livelli dissociativi che comportano forti angosce di frammentazione e sentimenti di non esistenza, connessi al rifiuto di aspetti di sé mostruosi e non accettati, che prendono forma nell’odio per i propri genitali e per quello che rappresentano in termini di identità di genere, dall’altro si confronta con la complessità del problema che implica problemi diagnostici, etici, di opportunità di scelte terapeutiche e, allo stesso tempo, un assetto mentale che tenga conto di aspetti sociali e culturali che interagiscono fortemente con la dimensione psichica e biologica.
In quest’ottica come è mia consuetudine aprirei il discorso ad una dimensione più apertamente psico-antropologica. Considero, infatti, la formazione dell’identità di genere e il suo rapporto con la vita sessuale e le sue raffigurazioni sul piano psichico e delle formazioni simboliche attinente ai processi di antropo-poiesi riprendendo la convincente proposta dell’antropologo Francesco Remotti (2002, 2013). Con il termine antropo-poiesi Remotti intende la capacità e la tensione delle Culture a costruire forme di umanità, che determinano differenti stili di vita, contesti mitico-rituali ed operazioni di trasformazioni a vari livelli sul corpo in contesti diversi e con diverse raffigurazioni. Ogni cultura percepisce il senso di incompletezza in quanto spinta a operare continue trasformazioni che costruiscono processi di formazione identitaria riproducendo la dimensione dell’incompletezza come condizione che comporta un processo continuo di distruzione e creazione di forme sociali e simboliche.
Un esempio molto significativo riguarda un modo diverso di considerare i rituali di iniziazione in diverse società tema questo che ci consente anche di vedere in un’ottica più ampia i problemi che oggi si presentano in adolescenza in relazione ai disturbi di disforia di genere e alla formazione dell’identità. In diverse culture il rito di iniziazione, in quanto forma dell’antropopoiesi, non solo istituisce un passaggio dalla pubertà al mondo adulto, ma costituisce un’esperienza dolorosa nel rapporto con un territorio altro e sconosciuto che pone l’individuo di fronte all’esperienza di chiedersi a quale tipo di uomo e forma di umanità potrà appartenere, entrando in contatto non tanto con una certezza identitaria, quanto con il dubbio riguardo alla scelta, consapevole o inconscia, che si trova a dover mettere in atto attraverso il rito e l’esperienza iniziatica. Nel momento in cui il ragazzo si scopre appartenere ad un certo genere di forma di umanità, scopre anche il senso della possibilità rispetto a quello che avrebbe potuto essere e che in qualche modo ‘sceglie’ di scartare dal proprio orizzonte di vita (Remotti, 2013). Tutto questo avviene, il più delle volte, attraverso prove dolorose, che comportano trasformazioni rituali sul corpo, che possono riguardare anche, come avviene nella circoncisione, operazioni che modificano i genitali.
Il tema dell’identità di genere, il problema della transizione da un genere sessuale ad un altro sono problematiche che prendono forme molto estese e coinvolgono diverse tipologie di persone, classi di età e appartenenze sociali. Gli studi nel campo antropologico hanno messo in luce come in diverse culture e nelle relative forme di umanità si attuano strategie per fare fronte alle diversità nel campo del genere sessuale ed alle ambiguità che si possono manifestare: studi molto accurati riguardano le culture native del Nord America, contesti culturali specifici in Messico, Brasile, Filippine o nelle isole Samoa del Pacifico (Bisogno, Ronzon, 2016) e le culture degli Inuit (James, 2003). In quei contesti, in forme diverse, vengono create strategie antropo-poietiche finalizzate ad attribuire ruoli riconosciuti e modi di integrare potenziali soggetti marginali che manifestano comportamenti omosessuali, o transessuali o situazioni ambigue e non facilmente collocabili sul piano dell’identità di genere. In generale le persone che esprimevano, in molto casi, ancora esprimono una diversità rispetto al codice sessuale binario maschio/femmina vengono ricondotti allo spazio ed alla dimensione del sacro o della sacralità con un riconoscimento, rispetto a quello che era individuato nel ‘terzo genere’, di ruoli specifici integrati nel funzionamento della società. Il campo di queste ricerche è molto esteso ma qui voglio solo fare un breve riferimento a due contesti culturali più noti per poi articolare il discorso con le problematiche cliniche e teoriche rispetto a fenomeni in crescita nella nostra società contemporanea soprattutto nelle nuove generazioni. Per quanto riguarda i due contesti che funzionano di più secondo una logica che potremmo definire ‘tradizionale’ mi riferirei al fenomeno degli Hijras in India e a quello dei Femminielli a Napoli. Per prima cosa sottolineerei il fatto che non possiamo definire questi contesti statici ma in trasformazione e che possiamo trovare alcuni tratti comuni ma anche notevoli differenze tra loro.
Gli hijras in India costituiscono delle vere e proprie comunità formate da persone che nascono con caratteri sessuali ambigui oppure che nel corso della crescita manifestano atteggiamenti femminili e comportamenti che comportano travestitismo e identificazione dei ruoli femminili, oppure soffrono di impotenza. Queste persone ad un certo punto del loro sviluppo vengono integrate nella comunità delle hijras sotto la ‘protezione’ di una hijra anziana, che svolge il ruolo tradizionale indiano del guru, per essere iniziati ad una vita segnata dalla condizione di quella che potremmo chiamare di ‘terzietà’. L’entrata definitiva nella comunità comporta che la persona in questione si sottoponga ad una castrazione vera e propria in forma di rituale condiviso attraverso il taglio e l’asportazione completa del pene e dei testicoli. Non è invece prevista, come nel caso del trangenderismo nelle culture Occidentali la costruzione chirurgica dei genitali del sesso verso il quale si opera la transizione. Inoltre nel caso delle hijras la transizione, se così si può chiamare, è MtF e non viceversa. E’ stato notato (Nanda, 1999) che nella cultura indiana, nonostante la struttura patriarcale della famiglia il maschile e il femminile sono in un opposizione non necessariamente conflittuale. In un certo senso gli opposti convivono e non si escludono. Le donne, inoltre, nella famiglia e nelle configurazioni psichiche svolgono un ruolo determinante e la figura materna figura nella struttura psichica indiana nel contesto del un rapporto madre/figlio (in particolare il figlio maschio) ha caratteristiche tanto simbiotiche quanto castranti (Kakar, 1982). Di conseguenza le o gli Hijras hanno un ruolo nella società che è l’emblema della potenza del femminile in quanto protetti dalla dea madre. In quanto donne/eunuchi castrati e sterili e nella loro caratteristica di essere né uomini né donne rappresentano paradossalmente la potenza ctonia della grande dea madre e tutte le figure terrifiche delle divinità femminili induiste a altre come Shiva che presenta caratteristiche miste e ambigue su piano della rappresentazione sessuale. Gli Hijras svolgono ruoli femminili, danzano e partecipano a molti rituali con funzioni augurali come i matrimoni con una funzione propiziatoria per la fertilità e la procreazione. Vivono in comunità e a volte hanno un vero e proprio marito oppure, in altri casi, svolgono attività di prostituzione. Chiedono anche offerte ai passanti e possono, di fronte ad un rifiuto, lanciare maledizioni molto temute. In generale l’atteggiamento attiene ad una femminilità caricaturale e ad una libertà di espressione e di comportamento che non è concesso alla donna indiana sia in ambito mussulmano che induista.
L’altro contesto culturale che può interessare riguarda più la dimensione transessuale e coinvolge la tradizione napoletana o campana dei femminielli. La posizione del femminiello si colloca nella configurazione famigliare nella cultura napoletana patriarcale e le modalità di gestire la diversità sessuale all’interno di un certo equilibrio antropopoietico. La figura del femminiello, pur con qualche affinità con la dimensione omossessuale, non coincide con essa ma acquisisce una specificità del tutto particolare. Il femminiello si sente infatti proprio una donna, si comporta, si veste ed esprime la sua emotività come una donna. Nell’economia famigliare svolge un ruolo molto importante e riconosciuto. In casa si prende cura dei bambini, della casa e della cucina e spesso ha rapporti sentimentali di coppia solidi e duraturi con uomini che sono dei veri e propri mariti. Altre volte, invece, si dedicano con una certa frequenza alla prostituzione. Spesso, però, si mettono in atto misure protettive da parte della famiglia e dei cosiddetti ‘mariti’ per evitare che il femminiello perseveri nel far ricorso al commercio sessuale. Anche i femminielli, come a loro modo le hijras hanno una forte relazione con il sacro. C’è infatti un rapporto stretto tra la comunità dei femminielli e la Madonna di Montevergine e il culto nel santuario. Inoltre è anche tipico del femminiello il comportamento caricaturale e istrionico della femminilità e la scurrilità del linguaggio. E’ anche molto frequente il rituale della ‘figliata’ che comporta la messa in scena da parte del femminiello e del gruppo dei femminielli di un parto con modalità grottesche ed uno spirito carnevalesco. Il femminiello partorisce in modo simbolico un bambolotto con un grande fallo. L’adesione del femminiello al ruolo femminile attiene ad una dimensione prevalentemente psico-culturale, in quanto non fa ricorso ad alcuna strategia chirurgica e di intervento sui genitali e, in generale, è anche ridotto il ricorso a terapie ormonali. Il femminiello opera quella che potremmo definire transizione verso il genere femminile in termini prevalentemente riferibili a processi di identificazione sul piano psichico e ad un forte riconoscimento da parte del gruppo sociale.
Non si possono approfondire tutti gli aspetti complessi della condizione esistenziale dei femminielli o delle hijras, bisogna, però, considerare che si tratta di fenomeni in trasformazione. Ad esempio il femminiello, o la sua figura, è entrato in contrasto, e comunque è in una relazione non semplice, con la cultura LGBT, in quanto espressione di una visione di integrazione con la cultura famigliare che comporta una visione più ‘tradizionale’ del femminile. Inoltre il femminiello, come già accennato, è fondamentalmente un ‘travestito’ che ha scelto il genere maschile come oggetto di investimento sessuale e sentimentale. La sua adesione al genere femminile è prevalentemente psicologica e non comporta alcun intervento chirurgico o di intervento tecnologico o artificioso sul corpo. Questo ha portato a polemiche anche accentuate tra la comunità dei femminielli e l’ideologia dei gruppi connessi al movimento LGBT che ha visto una personalità come Vladmir Luxuria prendere parte per la comunità napoletana. Le cose, ovviamente, non sono semplici e, nonostante la polemica politica e culturale, c’è una certa commistione tra la figura del femminiello in senso tradizionale e quella più ‘contemporanea’ del transgender (Vesce, 2017).
Gli esempi che ho proposto tratti dalla letteratura antropologica attengono all’area dei processi antropopoietici nella costruzione di forme dell’umano che comportano una tensione creativa da parte dei soggetti sociali protagonisti di processi che sono sempre espressione di una quota consistente di dolore e di sofferenza. Il gruppo sociale diviene l’attore di una scena sociale che consente a queste esperienze dolorose di trovare le forme affinché la dimensione antropo-poietica del dolore e della trasformazione venga contenuta e riconosciuta. I femminielli o le hijras abitano anche una sorta di terra di confine tra ambiti inquieti dell’esistenza. Nel bel romanzo di Arundhaty Roy Il ministero della suprema felicità (2017) la hijra Ariun costruisce la sua abitazione dentro il cimitero tra le tombe e i fantasmi di una grande città indiana che diviene un luogo di passaggio dove i personaggi più diversi transitano nel contatto perenne tra la vita e la morte. A questo punto la dimensione del dolore e dell’inquietudine identitaria ci avvicina al tema generale dell’identità di genere da un punto di vista più strettamente psicoanalitico e clinico.
Tornando al bel libro di Anna, nel capitolo sul tema dell’identità di genere, dopo avere inquadrato la tematica su piano psicodinamico, vengono trattati due casi clinici direi molto diversi con adolescenti con disturbo dell’identità di genere. Emerge in modo molto chiaro la sofferenza psichica connessa al sentire di vivere ed essere intrappolato in un corpo la cui connotazione sessuale non si percepisce come propria. Vengono messi in luce una serie di fattori che convergono nel determinare il modo in cui, quello che viene definito disturbo atipico dell’identità di genere, si declina in diversi contesti soggettivi. A partire dalle prime formulazioni di Stoller (1968), che distingue tra identità sessuale e identità di genere, si pone il problema di come si coniugano fattori psicologici, genetici, ambientali, o culturali in senso lato. Inoltre la dimensione dell’adolescenza colloca i pazienti sofferenti in un momento già di per sé molto delicato di transizione sul piano della maturazione e della crescita sia in termini fisiologici, sessuali e psichici.
Chiarendo la sua posizione di rispetto e di accoglienza della sofferenza e del dolore del paziente ed evitando un eccessivo atteggiamento patologizzante, Anna Nicolò approfondisce dinamiche psichiche profonde che emergono nel lavoro analitico e psicoterapeutico. In un caso con un esito più favorevole di una ragazza che odia il suo corpo femminile e si ritiene più orientata verso la fantasia di un corpo maschile idealizzato, viene messa in luce la sua tendenza ad aggrapparsi al corpo attraverso somatizzazioni, atteggiamenti e modi di vestire, self cutting per ‘non cadere in una totale disorganizzazione’ su piano psichico, tentando di fare fronte all’odio verso il suo corpo di donna che riproduce il terrore infantile di ‘fondersi con la madre e l’incapacità di volgersi verso un padre passivo e anaffettivo’.
Il secondo caso riguarda un adolescente sofferenze di un più grave disturbo di disforia di genere. L’autrice sottolinea l’importanza in questi casi della presenza di esperienze traumatiche precoci connesse alla qualità delle relazioni primarie. Un trauma che attiene anche alla fantasia che la separazione e la rottura della relazione simbiotica con la madre esponga a gravi angosce di frammentazione e annichilimento del Sé. In quel caso l’odio per il corpo sessuale e biologico e ‘l’identità schermo’ di un nuovo corpo diversamente orientato nel genere e il vissuto di adesione ad una neo-realtà fondata sul diniego costituiscono strategie difensive, da parte di questi pazienti, per ‘annullare il corpo del bambino mostruoso che sentono dentro’. Il paziente in questione porta nella relazione analitica contenuti di grande sofferenza psichica proprio al momento in cui iniziava la terapia ormonale femminilizzando la sua immagine. Colpisce in particolare un sogno molto impressionante in cui masturbandosi eiaculava pezzi dei suoi genitali per cui ‘alcune parti di esso mostrano l’indistinzione che ancora permaneva dentro di lui e il sentimento di avere una parte mostruosa e repellente dentro di sé’. In realtà in questo caso la costruzione psichica di un genere alternativo a quello biologico viene a configurarsi come una maschera invasiva che contiene in sé le motivazioni della disgregazione corporea e, allo stesso, tempo protegge il Sé dal sentimento di vuoto e dall’angoscia catastrofica di un crollo psichico.
La stessa Nicolò rimanda nelle sue considerazioni a due contributi significativi di Alessandra Lemma che approfondisce due aspetti che si presentano nel lavoro analitico con pazienti con problematiche di transgenderismo. La Lemma si riferisce a due pazienti per focalizzare l’attenzione su aspetti cruciali connessi alla transizione di genere, all’intervento farmacologico per interrompere la maturazione sessuale e alla decisione di intervenire con l’intervento chirurgico a livello dei genitali: si tratta di un rapporto con la percezione del tempo disturbato e del mancato rispecchiamento da parte delle figure genitoriali con conseguente compromissorie dei processi di mentalizzazione.
La relazione disturbata con il tempo sembra avere una grande importanza rispetto agli esiti del lavoro analitico con pazienti transgender. Infatti la radicale modificazione corporea compromette il senso del tempo e l’integrazione tra la dimensione del presente e quella del passato, soprattutto quando la modificazione corporea ha l’obbiettivo di cancellare ‘ciò che il corpo rappresenta per l’individuo’. Secondo l’autrice l’indeterminatezza della condizione puberale è il terreno su cui la trasformazione radicale, attraverso l’intervento chirurgico, può distorcere “la relazione con il tempo, alimentando uno stato di onnipotenza, caratterizzato da una rottura con la realtà della ‘epoca prima-di-me’” (Lemma, 2015, p.106). A maggior ragione tenendo conto dell’insieme di questo assetto mentale ed emotivo la sospensione artificiale della pubertà per mezzo di farmaci rende necessario un intervento a carattere psicodinamico in quanto può influenzare “ (…) lo sviluppo psicologico dell’individuo e la sua capacità di integrare il corpo ricostruito con il corpo dato. In questo modo possiamo aiutare il giovane a consolidare un senso d’identità stabile, che è un requisito essenziale per la capacità di vivere nel tempo” (Lemma, 2015, p. 115). Il rischio, che per certi versi è inevitabile è che siano compromessi i ritmi del corpo in una condizione di sospensione e di immobilità del tempo senza che sia possibile aggiornare le rappresentazioni mentali del corpo con l’accentuazione di fantasie onnipotenti ed auto-organizzanti e l’impossibilità di poter fare un adeguato processo del lutto necessario per la crescita psichica e corporea.
Il secondo aspetto che Alessandra Lemma mette in luce è l’aver rilevato in molti pazienti transgender nel corso della transizione un mancato rispecchiamento da parte della coppia dei genitori. Si pone per molti giovani che soffrono di disforia di genere il problema di non essere stati visti dalla coppia dei genitori al punto che non ci sono le condizioni psichiche per poter pensare una propria esistenza nella mente della coppia di genitori come progetto di vita. Quello che non viene percepito come ‘visto’ è proprio l’incongruenza della propria rappresentazione di sé stesso per quanto riguarda la propria appartenenza di genere. E’ mancata una mente che potesse accogliere “…l’esperienza di ambiguità, confusione e incertezza sperimentata a livello corporeo” (Lemma, 2015, p. 124). Questo comporta una disturbante discontinuità nell’esperienza del sé con sentimenti di frammentazione e un costante riprodursi di un vissuto di mancato rispecchiamento in relazione all’incongruenza corporea che mette in crisi il senso di identità in termini più generali. E’ importante, nel far fronte al paziente transgender o che soffre di disforia di genere, tenere conto di come si sono declinate le identificazioni nell’esperienza infantile e le interazioni delle identificazioni proiettive. Queste dinamiche, in concomitanza con la mancanza di rispecchiamento, producono distorsioni dello sviluppo che prendono forma, in un caso descritto nel contributo della Lemma, nella costruzione di un corpo che ,nella transizione MtF, produce aspetti caricaturali nella rappresentazione corporea del femminile, che sembra corrispondere a quella condizione di maschera invasiva che descriveva bene Anna Nicolò. E’ evidente che dietro questa maschera c’è un vissuto di grande sofferenza e l’aspirazione ad un diritto ad esprimerla ed a vedersi riconosciuto in questa dimensione. E’ importante comprendere come garantire il rispetto di questa sofferenza senza rinunciare ad affrontare questo stesso dolore connesso all’incongruenza dell’identità di genere in termini di analisi delle condizioni traumatiche che hanno condizionato quell’esperienza e ricostruire i fantasmi inconsci sottostanti (Galliani, 2020).
Avviandomi verso una conclusione vorrei tentare una breve sintesi rispetto alle considerazioni che ho proposto con un’ottica al confine di assetti disciplinari diversi. Il tema che stiamo trattando attraverso il contributo di Anna Nicolò ed altri è, com’è ovvio, molto delicato e complesso e comporta diverse prospettive sul modo in cui affrontare questo tipo di sofferenza psichica che ha anche molte risonanze sul piano più generale dei valori e dell’etica.
In merito all’intervento che si ispira alla psicoterapia psicoanalitica mi sembra che ci sono alcuni assetti di fondo che sono riconosciuti più o meno unanimemente che riguardano una considerazione positiva in relazione al cambiamento di prospettiva che va verso una maggiore attenzione alla dimensione della sofferenza psichica e identitaria, piuttosto che verso l’accentuazione di un approccio diagnostico e psicopatologico.
Come, però, già è emerso dagli esempi che ho proposto prendendo spunto da una letteratura clinica necessariamente parziale, quando ci si pone da un vertice apertamente psicoanalitico rispetto alle problematiche dell’identità di genere, non si può evitare di porsi da un punto di vista problematizzante e riflessivo. Ad esempio il ricorso da parte di strutture mediche o di intervento psicologico alla somministrazione della Triptorelina per bloccare la pubertà nel pre-adolescente con disforia di genere è motivo di polemiche molto pronunciate. Si ritiene che, come abbiamo visto per quanto riguarda la dimensione temporale nella Lemma, può essere compromesso anche l’importante lavoro psichico dell’adolescente per fare fronte ed elaborare le modifiche corporee e lo sviluppo sessuale affrontando il processo lutto della crescita e consentendo al preadolescente di prendersi il tempo di vivere la condizione di ambiguità, che lo caratterizza, in un tempo che armonizzi la dimensione fisiologica con il gioco delle identificazioni psicologiche che entrano in campo e la relazione stretta con il contesto famigliare e quello culturale più esteso, in un tempo di attesa dinamica e non reso immobile e statico artificialmente (Preta, 2019). Considerazioni di diversa impronta (Lingiardi, 2019), al contrario, suggeriscono che sia preferibile ed auspicabile porre di più l’attenzione sulla possibilità, ritardando i tempi della scelta, di consentire alla persona, che si trova nella condizione di dovere o voler affrontare una transizione, sostenuta da una diagnosi accurata e competente, di poter vivere questa esperienza non tanto nei termini di una ‘scelta’ da problematizzare sul piano psicologico, quanto come una necessità psicobiologica che deve essere riconosciuta e che corrisponde ad una condizione soggettiva, una sorta di vocazione verso cui si può essere sostanzialmente accompagnati (Di Ceglie, 2003). David Bell (2020) è giunto ad esprimersi verso questo tipo di intervento come riferibile ad una forma di non-pensiero. Di Ceglie stesso, però, riporta alcuni tratti di quella che definisce organizzazione tipica o atipica dell’identità di genere ad una modalità difensiva assimilabile alla condizione descritta da Steiner (1993) di un rifugio della mente come tentativo di sopravvivere alla catastrofe psichica vissuta nella prima infanzia.
Riprendendo in conclusione il mio discorso in termini psico-antropologici direi che in ogni caso ci troviamo di fronte a vissuti molto complessi, la formazione dell’identità di genere costituisce un movimento antropo-poietico che espone al senso di catastrofe, sia sul piano dell’esperienza personale, che dell’identità e della propria posizione rispetto al mondo ed alla propria cultura. Si deve considerare che la costruzione antropo-poietica della forma di umanità a cui si aderisce non è scevra da limiti importanti, che proprio il contesto in cui avviene pone. Non a caso Remotti si riferisce ai drammi dell’antropo-poiesi ed alla possibile deriva verso i furori antropo-poietici. Il furore antropo-poietico è assimilabile all’adesione ad un furore identitario, che rende una costruzione in quanto forma di umanità una sostanza intrasformabile e statica, quasi un muro invalicabile. Suggerirei di porre molta attenzione riguardo alle problematiche del trasgenderismo con quello che comportano: interventi chirurgici irreversibili, sospensione della pubertà. E’ molto alto il rischio che la dimensione del gender fluid, se assimilata ad un’ideologia che sostenga un eccesso di antropo-poiesi, si inverta di segno e quello che doveva rappresentare un elemento di libertà si traduca in un ulteriore processo di ‘naturalizzazione’ e di ‘reificazione’, per cui la dimensione biologica, e l’anatomia che la rappresenta, si ripropone come destino, che può andare solo in una direzione unilaterale, anche se questa direzione non coincide con l’identificazione del genere alla nascita. Allora la transizione rischia di porre in atto una catastrofe senza una possibile riparazione.
Abbiamo visto che l’ambiguità, la diversità, la fluidità della condizione del genere si ritrova sia nella storia che nelle diverse culture. La condizione delle hijras o dei femminielli sicuramente esprimono un forte senso di disagio che ha però trovato, anche se nel caso delle Hijras attraverso violenti interventi rituali antropo-poietici come l’evirazione, una forma di umanità che consente loro si sentirsi membri della comunità con un ruolo specifico che ha accolto l’ambiguità senza inibirla.
Inoltre la hjiras o il femminiello esprimono la loro soggettività, ma esplicitano nei loro comportamenti e, nei loro vissuti, una certa consapevolezza inconscia che loro stessi sono parte del processo antropo-poietico, per cui sono soggetti protagonisti del fluido intreccio tra natura/inconscio e cultura. Il rischio per il transgender nella condizione di oggi, ad esempio per un adolescente o pre-adolescente contemporaneo è che, se non aiutato ad affrontare e tollerare il senso del dubbio e della precarietà della propria formazione identitaria e non solo sul piano sessuale, occulti il processo stesso che, quello si lo rende fluido e soggetto di una trasformazione, spingendolo invece verso una costruzione di un’identità rigida che, a quel punto, è data in quanto sostanza, che può trovare un riconoscimento ma forse solo in quei contesti che non interagiscono con la complessità del mondo che oggi si dirama in una rete molteplici di connessioni. Non dico che sia necessariamente così, ma penso che sia un serio rischio, che può esporre le persone che soffrono di un’incongruenza dell’identità di genere a vivere una senso di temuta catastrofe senza un’autentica possibilità di riparazione in una condizione di ulteriore solitudine.
Bibliografia
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Vedi anche:
Podcast, "L'enigma transgender". Paolo Boccara intervista Anna Maria Nicolò
Alexandro Fortunato, Laura Porzio Giusto: "Quel che resta del DDL Zan" (14 dicembre 2021)
Vittorio Lingiardi, Nicola Carone, La disforia di genere. 2015