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Giornata della memoria: "I bambini e la Shoah" (26 gennaio 2023). Report di Valeria Gubbiotti

 

Di’ tutta la verità ma dilla obliqua-
Il successo sta in un circuito
Troppo brillante per la nostra malferma Delizia
La superba sorpresa della Verità
Come un fulmine ai bambini chiarito
Con tenere spiegazioni
La verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi
E. Dickinson, cit. di Alessandra Balloni

 

Fabio Castriota in apertura della serata intercentri dedicata al tema della memoria “I bambini e la Shoah” introduce lo spazio libri curato da Giuliana Rocchetti, la quale presenta il volume “Ancora oggi, parlare di Auschwitz? Riflessioni sul significato attuale della Shoah in un’ottica interdisciplinare”, (a cura di Andrea Pomplum, FrancoAngeli, 2022). La domanda centrale a cui libro si ispira è: se e in che modo Auschwitz ci riguardi ancora oggi.
La cornice del volume è quella che va dalla Shoah e, in particolare, dalla deportazione della famiglia Terracina fino al discorso che Piero Terracina (sopravvissuto al campo di stermino di Auschwitz dove fu deportato) tenne nel 2015 al Senato della Repubblica.
Nel primo capitolo Andrea Pomplun racconta l’arresto della famiglia Terracina pochi mesi prima della liberazione di Roma quando Piero aveva 15 anni e il ritorno del ragazzo a casa da solo, come unico superstite.
Piero, quado gli è stato possibile, ha raccontato che dopo aver visto “partire” - che significa essere presi e portati verso le docce col gas e poi ai forni crematori- i propri genitori, il nonno e per ultimo uno zio molto amato, non ha più potuto piangere, neanche quando poi “partirono” i fratelli e gli amici più cari.
Giuliana Rocchetti ci fa riflettere su come in questa vicenda terribile non possiamo non riconoscere che il dolore viene in qualche modo pietrificato e forse addirittura il trauma non può nemmeno, da un certo punto in poi, accedere allo statuto di dolore.
È proprio di questo dolore non elaborato- potremmo dire dissociato- di cui vari saggi parlano: come quello di Luigi Solano, “Perché ricordare: eventi traumatici e salute”, dove si ricorda che ciò che non può accedere ad un livello simbolico, sia esso verbale o non verbale, resta iscritto nel nostro corpo- come il DNA pietrificato dei dinosauri di Jurassik Park- e può essere soltanto evacuato, anche nelle generazioni successive, come confermato dagli studi sulle trasmissioni inconsce transgenerazionali. È dunque, conclude Solano, importante ricordare e farlo ora perché non si passi da un troppo presto, quando ancora non si può parlare del trauma, a un troppo tardi quando la Shoah potrebbe diventare qualcosa di accolto nella storia come inaccettabile, ma che non ci coinvolge più direttamente.
Nell’introdurre il contributo di Bruno Maida, Alessandra Balloni sottolinea due prospettive del pensiero dell’Autore: da una parte la sua capacità di interrogarci sull’infanzia, dall’altra il tema della migrazione che si intreccia con quello della diversità e dell’accoglienza.
Alessandra Balloni sottolinea il rischio che l’infanzia possa essere sentita con una forte emozione che rimane però nell’immaginario- come il cappottino rosso di Schindler’s List- sottolineando la difficoltà di andare oltre a quella icona e prestare ascolto ai vissuti e alle storie. Bruno Maida, invece, restituisce all’infanzia un’identità con un lavoro di tipo archeologico attraverso il quale dissotterra i vissuti infantili dalla memoria dell’adulto che intervista. Questo è un movimento di ascolto che è in risonanza con il lavoro degli psicoanalisti. Apprezzabile è la capacità di cogliere i piccoli dettagli della vita quotidiana degli intervistati e restituire in questo modo un senso al trauma. A tale riguardo viene ricordato un episodio relativo all’interruzione dell’abitudine di andare ai giardinetti: un momento banale della vita quotidiana- in confronto al lager e ai forni crematori è una cosa piccola- ma riesce a dare testimonianza del senso profondo di come cambiò il mondo dei bambini e la realtà di quelle famiglie dopo le leggi razziali del 1938: l’ansia nell’incontrare lo sguardo degli amici, l’isolamento, il rifiuto, gli insulti e le difficoltà dei genitori a garantire la sicurezza dei propri figli.
La parola passa a Bruno Maida che introduce il suo intervento partendo dalla premessa che la società non è interessata al tema dei bambini a meno che non ci siano delle vittime- come emerge anche dalle politiche migratorie del nostro e degli altri paesi. Poiché l’infanzia è uno straordinario oggetto di commozione, l’impatto emotivo che suscita dentro di noi rischia di diventare una via alternativa alla comprensione, arrestando il processo stesso di conoscenza.
Entra, poi, nel vivo del suo intervento approfondendo alcuni concetti: il rischio del colonialismo adulto, il pensare alla storia come processo, la caduta dell’onnipotenza genitoriale, il tema dell’identità e della responsabilità.
Per studiare l’infanzia bisogna partire dalla considerazione che è un oggetto di studio interdisciplinare e che se la si studia solo con il metodo tradizionale rischiamo di non comprenderla.
Uno degli strumenti usati nello studio dei bambini durante le guerre del ‘900 è stato il disegno, essendo il loro mezzo privilegiato per raccontare e raccontarsi. Questo pone il problema di dover conoscere bene il mondo dei bambini- nell’infanzia ci sono tante età, è molto rapida, transeunte, si trasforma e cambia rapidamente e bisogna sapere che bambini di due anni o dieci raccontano in forme diverse. In questo paradosso- i bambini non possono studiare se stessi- c’è il rischio del colonialismo adulto, cioè di utilizzare le categorie degli adulti anche se inadeguate. A chiarimento di ciò si porta un esempio: un particolare che ricorre spesso nella memoria dei bambini è l’immagine della valigia nella sala d’ingresso, che rappresenta l’idea stessa della fuga. Quando si scappa si mettono nella valigia soldi, gioielli, vestiti, mentre non si mettono i giocattoli. I genitori dicono ai bambini che non c’è tempo per i giochi, che in realtà sono uno strumento essenziale per la costruzione dell’identità, non solo un passatempo. Il gioco è anche quello strumento che aiuta a comprendere e a dare un senso al mondo. Andra Bucci- ricorda Maida- ha raccontato che ad Auschwitz giocava all’internato e al carnefice perché quella era la rappresentazione del mondo a cui bisognava dare un senso in quel momento. Quanto descritto fa capire molto bene che la mediazione fra chi studia e l’oggetto dello studio in questo caso è molto complessa.
Un secondo punto importante è capire che la storia è un processo e non un punto.
Per introdurre questo concetto vengono raccontate due storie.
Nel 1938, poco dopo l’introduzione delle leggi razziali, in una scuola con un grande cortile misero una rete tra bambini ebrei e bambini ariani e cambiarono gli orari degli intervalli della ricreazione: una progressiva occupazione dello spazio e del tempo. Nel 1942, Gerry, un bambino olandese, riuscì a nascondersi e a salvarsi. Dopo tanti anni racconterà che la sua Auschwitz era iniziata nel 1945 quando aveva scoperto che genitori erano morti, avendo passato gli anni precedenti serenamente e nella convinzione che avrebbe rivisto la sua famiglia.
Questi aneddoti ci aiutano a capire che la storia è un processo che si sviluppa nel tempo, che ha un prima ed un dopo, che è lento e capace di invadere lentamente la vita delle persone. Per i bambini gli eventi non sono le leggi e i decreti, ma la loro applicazione nella quotidianità e per questo sono spaventosamente lenti e invasivi. Un bambino è già un ragazzo quando finisce la guerra e, se è sopravvissuto, tutta la sua infanzia è stata segnata da quella che Bruno Maida definisce “l’attesa della catastrofe”, in cui la vita è sempre sull’orlo del baratro e la costruzione dell’identità è segnata dalla persecuzione.
Una terza importante considerazione è che le famiglie ebraiche tra il 1938 e il 1943 erano isolate, escluse dalla vita sociale e lavorativa, immerse in un progressivo e radicale indebolimento psicologico e materiale e quando poi dovettero scappare furono straordinariamente deboli. Da questo momento in poi le storie dei bambini sono storie prima di tutto di abbandoni: delle case, delle cose, delle scuole, delle persone, degli amici, degli insegnanti, dei genitori che li nascondevano per salvarli. Poiché ogni loro tentativo di trovare una soluzione risultava sempre fallimentare, il crollo dell’onnipotenza genitoriale è in questo senso la ferita più profonda nella costruzione dell’identità dei bambini. Ciò comporta tra l’altro la fine dell’idea comune- che anche quando siamo grandi e non abbiamo più bisogno di loro rimane nella nostra testa- che i nostri genitori se avremo paura o se saremo in pericolo verranno a salvarci.
Una bambina di Genova racconta che il suo ricordo peggiore è l’immagine dei genitori seduti in casa che piangono e che sono molto tristi: hanno perso quella forza, quell’essere super eroi di cui i genitori si fanno portatori. La storia da un punto di vista genitoriale è complessissima: non esisteva la strategia giusta e la maggior parte sono storie di tentativi spesso intrecciati tra loro ma poi con esiti molto diversi.
I bambini si trovano ancora a rimettere in discussione la propria identità quando devono cambiare nome. Donatella Levi racconta che la madre l’aveva convinta ad avere un altro nome. Un giorno in ascensore incontra un signore simpatico, così, per la prima volta dopo settimane per pochi attimi, scherza con lui. “Come ti chiami?” Chiede alla bambina. “Vuole il nome vero o il nome falso?”, titolo che darà poi alle sue memorie.
Bruno Maida ci ricorda che avere memoria non è un dovere ma è un processo attivo, una scelta che non deve essere imposta. Provocatoriamente ci domanda: “Cosa ci aspettiamo da un ragazzo che torna da Auswitchz?” Potrebbe tornare illuminato, invaso dall’esperienza oppure tornare nazista colpito dall’organizzazione. La terza possibilità è che torni e che si renda conto che vicino casa sua c’è una mensa per i poveri, una casa per gli immigrati, decidendo di dedicare due ore della sua vita ad aiutarli. Questa è la cosa apparentemente più lontana dalla Shoah, ma la più vicina alla sua situazione nella vita presente di tutti i giorni: questo è fare memoria cioè rideclinare nel presente e non semplicemente ricordare fatti.
Infine, il racconto di due famiglie nascoste in Toscana apre il tema delle responsabilità. Il maresciallo il venerdì sera aveva avvisato entrambe le famiglie che sarebbero state arrestate il lunedì successivo.
Una famiglia scappa e si salva, l’altra no. Questa è la “storia delle storie” perché il maresciallo per noi il venerdì è un giusto, il lunedì è un criminale. Questo aneddoto ci ricorda che dovremmo declinare la questione nel presente e interrogarci su che cosa noi facciamo in difesa dei più fragili perché è il momento in cui scegliamo da che parte stare.
In conclusione Maida puntualizza che l’Europa non si fonda sulla Shoah ma sull’antifascismo. Anche la Costituzione Italiana è stata fondata sulla base di valori democratici ed antifascisti e il nostro calendario civile ne è testimonianza: così come festeggiamo il giorno della Memoria, festeggiamo anche il giorno della Liberazione, due commemorazioni intrinsecamente legate tra loro. Se non stiamo attenti a questo passaggio e non lo comprendiamo, facciamo un’operazione scorretta con il rischio di limitarci a cumulare informazioni. Fare memoria, al contrario, è un conflitto continuo e radicale in cui noi decidiamo cosa ricordare e cosa dimenticare e ciò che noi decidiamo di ricordare è un atto politico, non è un atto naturale.

Nel dibattito emergono riflessioni, domande, commenti.
Le mamme in gravidanza e i bambini nati durante le occupazioni fanno pensare al conosciuto non pensato di Bollas: quanto delle esperienze vissute in un momento in cui non si ha capacità verbale e nemmeno immaginativa è transitato nelle menti e nelle vite di questi bambini? Alcuni studi ci dicono che le conseguenze dei campi si sono depositate sui figli e sulle seconde generazioni proprio come un conosciuto non pensato che si è trasmesso, soprattutto nelle famiglie in cui non si è parlato della deportazione e dell’esperienza di terrore vissuta.
Cosa ha permesso ad un bambino di sopravvivere in un campo? Liliana Segre ha raccontato che nel campo un’altra bambina le aveva regalato una carota e sentendone il sapore dolce si era sentita viva.
Freud stesso parla del ridimensionamento drastico della figura dei genitori proprio in merito alla questione delle umiliazioni subite in quanto ebrei. Lo ricorda come una ferita importante e significativa nella relazione con suo padre.
I danni della Shoah si sono prolungati nel tempo e questo ci riporta a un tema con il quale noi psicoanalisti siamo sempre in contatto. In un discorso di natura più ampia ci si chiede quale sia il tempo del male, quando comincia prima ancora in cui si sviluppi in tutta la sua distruttività e quanto tempo dura. Chi è colpito dal trauma viene contaminato dal contatto col male stesso e la durata di questo male comporta una serie di conseguenze drammatiche. Primo Levi dice che c’è una parte di noi che vive nell’anima degli altri e c’è stato un tempo in cui noi siamo stati oggetti nella mente altrui. Nelle persecuzioni questo contatto viene privato di ogni umanità. La riflessione si amplia su come nel nostro lavoro siamo portati a contattare i bambini mortificati che ciascuno si porta dentro, in genere nuclei di dolore che vengono tendenzialmente rimossi e che dopo un lavoro analitico molto doloroso vengono eventualmente recuperati nella speranza che se ne possa parlare. Perché questo? Perché i bambini traumatizzati sono testimoni innocenti del trauma stesso e questo è un tema che coinvolge in prima persona noi psicoanalisti.
A conclusione della serata Maida precisa che, da un punto di vista storico, non sono stati fattori di adattabilità personale e famigliare a determinare chi riuscisse a sopravvivere o meno, quanto è stato il caso ad avere un peso enorme sull’intreccio degli eventi e nello sviluppo di questi nella vita delle persone.
Infine, tocca il problema della continuità dell’identità fondata sul trauma e di come si possa crescere attraverso quell’esperienza. I bambini deportati non hanno avuto la possibilità in seguito di essere ascoltati ed è mancato a quell’infanzia il riconoscimento di una responsabilità collettiva. La società a lungo non è stata in grado di fornire loro le possibilità di raccontare, limitando i sopravvissuti a ricordare privatamente ciò che doveva essere elaborato nella collettività.

 

Vedi anche:

Giornata della memoria (26 gennaio 2023)

Andrea Pomplum (a cura di), Ancora oggi, parlare di Auschwitz? Riflessioni sul significato attuale della Shoah in un’ottica interdisciplinare. FrancoAngeli, Milano, 2022.  Invito alla lettura di Giuliana Rocchetti

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