Domenica, Aprile 28, 2024

Sándor Ferenczi: Il bambino non voluto e il suo istinto di morte (26 ottobre 2023). Report di Carlotta Facchini

Alessandra Balloni introduce la serata che si apre con la presentazione del libro Prendersi in gioco di Marta Badoni. L’autrice attraverso il suo sguardo curioso e accorto conduce il lettore nella vita dell’istituzione psicoanalitica, capace di facilitare il lavoro e il confronto nel gruppo così come l’espressione dell’originalità di ciascuno. Marta Badoni presenta un volume in cui raccoglie scritti inediti, lavori già presentati e rivisti e pensieri recenti, intrecciando riferimenti a grandi autori come Ferenczi e Freud e sue proprie vicende familiari. Introduce così l’origine delle sue elaborazioni e il suo modo di intendere lo stare con il paziente, mettendosi in gioco e permettendo al lettore di immergersi in uno scenario di vita.

David Ventura presenta l’ospite della serata, Adrienne Harris, psicoanalista americana che ha ricevuto diversi premi per la sua opera scientifica. Harris ha redatto numerosissimi articoli e testi e ha fondato il Sándor Ferenczi Center che si occupa della diffusione, approfondimento e applicazione del pensiero di Ferenczi. Molteplici sono le cariche ricoperte da Harris nelle riviste psicoanalitiche più importanti, tra cui è editor della collana di psicoanalisi relazionale “Relational Perspectives” in cui ha pubblicato circa una novantina di libri. Si è sempre occupata del trauma, delle differenze di genere, così come delle tensioni e i movimenti che attraversano la società contemporanea.

Adrienne Harris, grande studiosa del pensiero di Ferenczi, propone un lavoro su un saggio dell’autore del 1929 e intende rilevare le connessioni tra quest’opera e il lavoro sulle nevrosi di guerra e il suo interesse per la pulsione di morte. Mentre a Vienna e a Berlino dominavano le teorie dell’inconscio e l’attenzione alla struttura psichica dell’individuo, fin dal 1900 e poi nel 1913 la scuola di Budapest manifestò un forte interesse per il processo clinico e il trattamento, focalizzandosi sul transfert e sul processo di formazione di una relazione nel trattamento, da cui è nata l’attenzione sullo sviluppo infantile e sul processo clinico. Secondo il pensiero di Meszaros, è grazie a Ferenczi e al suo focus sulla maternità, che il mondo psicoanalitico ha volto l’attenzione allo studio dello sviluppo. Ferenczi, rispetto a Freud, si muove verso la cura e la strutturazione di un progetto di aiuto.

Meszaros nota che il modello originale dell’analisi passa da una serie di analisi dei sogni a una visione dell’analisi come processo di sviluppo nella situazione analitica. Nel suo saggio del 1917 sulle nevrosi di guerra, Ferenczi ha un approccio molto diverso da quello di Freud riguardo agli effetti traumatici della guerra e offre una visione chiara di cosa sia lo shellshock, la psicosi traumatica, prestando attenzione allo stato corporeo degli uomini traumatizzati e notando come l’esperienza di essere ‘incorporati’ nel mondo fosse stata alterata dal modo moderno di fare la guerra. In questo saggio Ferenczi conduce il lettore fra i reparti di un ospedale militare e mostra i corpi di uomini tremanti, bloccati, in preda ad angosce inimmaginabili e allo stesso tempo mostra le sue riflessioni sullo shellshock, nella realtà delle nevrosi di guerra, nei crolli psichici e nella loro frammentazione. Ferenczi conclude che il trauma di guerra è psicogeno e ne illustra i sintomi corporei: tremori, brividi, contrazioni, difficoltà a camminare e paralisi, laddove non vi sono lesioni organiche. Nota che molte delle persone mono-sintomatiche presentano come sintomo la posizione fisica o il movimento che avevano assunto nel momento immediatamente precedente la catastrofe, nel tentativo di fermare il tempo all’attimo prima della tragedia. Proprio nel momento in cui si verifica la catastrofe, una parte di loro si blocca. È come se il momento del trauma fosse sempre nella memoria del sopravvissuto sul punto di accadere, o stia accadendo in quel preciso momento. È un sintomo carico di après-coup, di azione differita, che racconta e nasconde la storia di ciò che ha creato il crollo psichico ed è il corpo che tiene il vissuto traumatico intrappolato e perduto. Ferenczi ‘legge’ i corpi di questi soldati e osserva una regressione nel pattern dei loro sintomi, come se il tempo e lo sviluppo si fossero invertiti. È quindi il corpo ad avere il primato come sito del trauma, che è però sia reale che psicogeno e dunque prevede l’interazione di due livelli di soggettività, somatico e psichico.

Ferenczi, nel saggio Il bambino indesiderato e il suo istinto di morte del 1929, collega la malattia al dolore infantile precoce, laddove l’impatto dell’abbandono viene messo in relazione alle malattie e alle condizioni legate ai disturbi autoimmuni, ponendo così le basi per il lavoro delle successive scuole psicoanalitiche incentrate sulla psicosomatica. Qui Ferenczi fa riferimento al suo lavoro durante la Prima Guerra mondiale presso l’ospedale psichiatrico e collega quei sintomi all’istinto di morte e queste condizioni patologiche, i sintomi somatici e le malattie, a un neglect precoce. Descrive un bambino ospite indesiderato della famiglia che in queste circostanze può morire facilmente e volontariamente e che, sia da bambino che da adulto, ha combattuto contro le sue tendenze suicidarie, rifiutandosi di attaccarsi o creare legami. Una sorprendente teorizzazione, quasi 30 anni prima di Bowlby.

Ferenczi propone un’elasticità della tecnica per lavorare con questi casi, che mira alla sollecitazione vitale di fronte ad un vuoto come esperienza di assenza, non riempita e apparentemente non riempibile, come la psychose blanche di Green. Harris sottolinea come Ferenczi abbia anticipato gli sviluppi successivi relativi all’attaccamento e l’attenzione all’impatto degli eventi traumatici precoci sulla vita mentale così come l’interazione tra vissuti corporei e inconsci.

Dalla sala emergono numerose le domande che si rincorrono in un ricco scambio.

Diversi interventi convergono rispetto alle continuità e alle discontinuità tra il trauma di guerra e il trauma precoce di un bambino male accolto. Il trauma di guerra è, come ogni trauma, l’intervenire di qualcosa di non voluto, indesiderato. Ad esempio, si chiede Harris, è desiderato, da parte di un genitore, che il bambino sviluppi una mente adulta e un corpo adulto? O che sviluppi un’identità sessuale che non corrisponde alle aspettative o ai desideri genitoriali?

Nel trauma di un bambino non voluto, così come nel trauma di guerra, viene vissuta una situazione di estrema vulnerabilità con conseguenti difficoltà relative all’integrazione del trauma. Mentre per alcuni sembra dunque che si possa individuare un parallelismo tra le due situazioni traumatiche, secondo altri invece non si possono equiparare poiché l’uno è un bambino che non ha ancora sviluppato l’Io e si sta formando, mentre l’altro è un adulto che può in qualche modo avere più possibilità di integrazione dell’esperienza traumatica.

Altri interventi si concentrano sull’odio e l’istinto di morte collegati al trauma. Diverse sono le esperienze con pazienti che vivono in aree dissociate della mente collegate al rifiuto. L’odio in alcuni casi diventa una dimensione difensiva rispetto a situazioni in cui le identificazioni con un nulla risultano appartenere a identificazioni con un nulla cattivo, altre invece prevedono una posizione della mente in cui c’è una tendenza ad essere asserviti con l’istinto di morte. Ci si chiede se le due situazioni siano differenziabili. Di comune hanno sicuramente la condivisione di situazioni traumatiche in cui vi è un vuoto interno che sembra più assimilabile all’istinto di morte, un congelamento che è come una morte interna, un black hole attrattivo per l’apparato mentale, il cui nucleo la coscienza fatica a sciogliere.

La frase di Beckett “allo stesso tempo la mia vita è finita eppure continua, ma esiste un tempo grammaticale per questo?” stimola riflessioni sul tempo e sullo stop time del trauma di guerra, di un tempo che si congela, così come si congela il corpo. Alcuni vissuti possono sconvolgere così profondamente da creare una rottura nella continuità dell’essere, eventi così sorprendenti e orribili che provocano discontinuità rispetto alla continuità temporale.

Harris sostiene siano tutte domande ancora aperte, a cui è difficile rispondere poiché sono molteplici i fattori che giocano intorno al trauma, come ad esempio qual è il ruolo della vergogna, del senso di colpa, dell’odio o dell’istinto di morte? Come organizzare e dare forma ai nostri vissuti di trauma per poter assimilare certi fenomeni? Serve un linguaggio più complesso per pensare al trauma e alle sue varie formazioni.

Ci si interroga infine sulle tecniche per il dis-incistamento di memorie traumatiche e quali orientamenti siano più adatti. Harris riporta che negli Stati Uniti si sta realizzando un lavoro sistematico sul trauma che si rivolge anche alla psichedelia in ambito medico. L’uso degli allucinogeni ha una tradizione che risale agli anni ‘60 e si sta riflettendo se sia possibile e come possano essere utilizzati per alterare certe disfunzioni e per lavorare sul trauma in un setting psicoanalitico.

Sono diversi anche i riferimenti alle attuali guerre in atto e le domande che sorgono rispetto al ruolo che noi, testimoni di tali atrocità, noi che siamo più al sicuro, potremmo assumere. Quale attivismo politico adottare pensando al trauma e alla vulnerabilità? Quale il ruolo da assumere a livello culturale, individuale, collettivo?

 

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