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Neri C. - I pensieri senza pensatore nella pratica clinica (2009)

23 gennaio 2009

I pensieri senza pensatore nella pratica clinica. * Æ

Claudio Neri

Sommario

Il lavoro considera alcune idee di Bion alla luce di recenti sviluppi della riflessione psicoanalitica. L’idea di “Pensieri senza pensatore” è messa alla prova (anche) dal punto di vista della responsabilità dell’analista e dell’empatia che può provare o meno per il paziente. La “Istituzione” è interrogata per l’apporto che integrare nella personalità questa funzione ‑ solitamente svolta dal gruppo sociale - può dare ad una maggiore coerenza del Sé. L’intuizione relativa alla “Calcificazione dei pensieri” è vista come prodotto di una perdita di investimento affettivo su idee e valori condivisi. L’idea che “Il pensare è indispensabile per i mantenimento della vitalità” è saggiata nella prospettiva di una simmetria tra dissociazione di alcuni aspetti del Sé del paziente e del Sé dell’analista.

Bion aprì il seminario, tenuto a Roma il 15 luglio 1977, con queste parole:

«Comincerò pensando che quando ci sono molti individui, ci sono anche molti pensieri senza pensatore; e che questi pensieri senza pensatore sono, così, nell’aria da qualche parte» (p. 61 dell’edizione italiana).

I “pensieri senza pensatore” sono pensieri - ma anche sentimenti - che ancora non hanno trovato accoglienza nella mente degli individui e che attendono qualcuno che dia loro forma ed espressione. Essi possono essere pensati, ma anche rimanere in stand by fino a quando si presenteranno le condizioni perché qualcuno li ospiti e dia loro una forma comunicabile. Bion proseguì in questo modo:

«Spero che qualcuno si possa sentire preparato ad alloggiare questi pensieri o nella propria mente o nella propria personalità. Mi rendo conto che questa è una grossa richiesta, perché questi pensieri senza pensatori, pensieri vagabondi, sono anche potenzialmente pensieri selvaggi […].

A noi tutti piace che i nostri pensieri siano addomesticati, ci piace che siano pensieri civilizzati, ben addomesticati, ci piace che siano pensieri razionali.

Ciononostante, spero che possiate osare di dare a questi pensieri, per quanto irrazionali, un qualche tipo di alloggio temporaneo. E che poi li vestiate con parole adatte perché possano esprimersi pubblicamente e possa essere data loro la possibilità di mostrarsi anche se sembra che non siano molto bene attrezzati.» (p. 61 dell’edizione italiana).[i]

 1977

Ascoltando Bion, pensai che ci stava proponendo un radicale cambiamento di prospettiva: considerare che non fossimo noi (gli individui) a produrre i pensieri e le fantasie, ma che questi - seguendo l’incessante evolvere di O, la realtà in sé - potessero intercettare la nostra mente, superando la barriera emotiva ed intellettuale, che noi stessi e la società frapponevano al loro accesso (Grotstein, 2004).[ii] 

Proponendoci di ospitare i “pensieri senza pensatore”, di metterci in risonanza con O, Bion non ci proponeva di svelare un significato latente, ma di dare inizio ad una catena di trasformazioni, che si sarebbe messa in moto nel momento in cui un “pensiero senza pensatore” fosse stato accolto. In tale prospettiva, la distinzione tra Inconscio, Preconscio e Coscienza non era rilevante. I pensieri senza pensatore potevano essere inconsci, preconsci ed anche pensieri coscienti che nessuno aveva ancora pensato (Bollas, 1987).

La catena di trasformazioni avviata dall’accoglimento di un pensiero senza pensatore avrebbe riguardato sia il pensiero, sia chi lo avesse ospitato. La teoria di Bion, infatti, postula che la mente e la personalità si siano sviluppate e continuino a svilupparsi per rispondere alla sollecitazione dei pensieri senza pensatore; più precisamente, per rispondere alla necessità di trasformarli.

La funzione (pensare) crea la struttura (l’apparato per pensare i pensieri), non viceversa. È un’ipotesi originale ed interessante, sia dal punto di vista della teoria, sia da quello della pratica clinica.

Pensai che - per rispondere alla sua sollecitazione - io e gli altri partecipanti al workshop dovessimo semplicemente essere coraggiosi; dovessimo dare voce alle nostre fantasie anche a quelle più bizzarre, alle nostre teorie più ardite (Neri 1999).

2008

Riflettendo sulle parole di Bion - a distanza di anni - ho collegato la sua proposta con un’indicazione tecnica che mi era stata suggerita da Adda Corti (1976) e che lei stessa aveva tratto dal rapporto con Melanie Klein ed Hanna Segal.

Adda Corti - in polemica con una deriva intellettualistica, volta a costruire complicate ipotesi a proposito della lontana storia infantile dei pazienti - mi aveva segnalato l’importanza di accogliere ed interpretare, momento per momento, ciò che emergeva nella seduta e nel transfert.

Il campo, cui Bion fa riferimento, non è limitato da coordinate spazio‑temporali (la stanza, il setting) e neanche dalle coordinate affettive del transfert. I pensieri senza pensatore ‑ sebbene possano incrociare, in un dato momento e luogo, la mente o la personalità degli individui ‑ appartengono ad una dimensione illimitata, infinita ed informe. Nonostante questa differenza, le analogie tra la proposta di Bion e ciò che suggeriscono Melanie Klein e gli altri psicoanalisti della sua scuola sono significative.

Riflettendo sui Seminari italiani, ho anche capito meglio e diversamente il senso più immediato della richiesta di “accogliere i pensieri senza pensatore” che Bion ci aveva rivolto in quanto partecipanti al workshop. Allora, nel 1977, la avevo intesa come invito ad associare liberamente e lasciare emergere tutto ciò che si presentava alla nostra mente. Adesso mi sembrava invece chiaro che Bion aveva fatto appello al nostro coraggio, ma contemporaneamente anche al nostro senso di responsabilità ed alla nostra capacità di essere disciplinati.

I partecipanti al workshop erano tutti psicoanalisti o psicoterapisti di gruppo. La proposta di Bion conteneva qualcosa che aveva a che fare con lo specifico della loro professione. Lo psicoterapista deve sapere affrontare il rischio associato al fatto di mettersi in contatto con qualcosa che non conosce e non controlla. Il contatto con questo “incontrollabile in evoluzione”, il contatto con O infatti è cruciale per il progresso dell’analisi.

Bion, inoltre, ci raccomandava di portare attenzione - sia durante il seminario, sia successivamente con i nostri pazienti - non soltanto alle persone ed alle relazioni che queste stabilivano con noi e noi con loro, non soltanto alle loro fantasie, bisogni ed aspirazioni, ma anche e soprattutto a ciò a cui le persone erano sottoposte, ciò da cui erano bombardate ed a cui dovevano rispondere, sviluppando una capacità di pensare o al contrario rimanendo sopraffatte e paralizzate.

Disposizione a stella

Che utilità può avere l’idea di pensieri senza pensatore nella clinica?

Non mi è difficile dare una risposta, se faccio riferimento alla mia esperienza di terapista di gruppo ed anche al lavoro con le coppie e le famiglie.

Posso dire, prima di tutto, di avere sperimentato in molte occasioni come possa essere più utile convogliare l’attenzione sul problema comune e su ciò che tutti stanno vivendo nel qui ed ora della seduta, piuttosto che cercare di capire chi ha provocato quel problema o attivato quella tensione.

Non si tratta, però, soltanto di questo. L’idea di O e quella di pensieri senza pensatore, infatti, sono alla base di un particolare approccio tecnico e di una specifica modalità di ascolto: la “disposi­zione a stella”.

«Questa modalità di ascolto […] consiste nel percepire e organizzare mental­mente i dati che emergono dagli interventi dei membri del gruppo, e più in generale da ciò che accade in seduta, valo­rizzando la categoria “spazio”, piuttosto che quella “tem­po”, come avviene invece quando il terapista segue le catene asso­ciative, disponendo gli interventi lungo un filo sequenziale.

La “disposizione a stella” - utilizzando lo spazio come [categoria] organizzativa essenziale - permette al terapista di cogliere gli elementi della seduta nella loro sincronicità.

Permanendo a lungo in questa disposizione di ricezione [ed adottando l’assetto mentale che Bion (1970) ha definito “senza memoria, senza desiderio e senza comprensione”], ad un certo momento l'analista [potrà percepire] la presenza di un “nucleo centrale”. Quando egli avrà individuato tale nucleo, tenderà spontaneamente a vedere i singoli elementi della seduta in relazione con esso (“disposizione a stella”).

Debbo dire che parlare di un solo nucleo non rende però completamente ciò che desidero comunicare. Quando le associazioni dei partecipanti si condensano dando l'impressione che siano il frutto di un'attività del gruppo come un tutto - Foulkes (1948) parla in questo caso di “eventi di gruppo condivisi” - si possono individuare non uno ma due nuclei, disposti a livelli diversi.

Il nucleo che corrisponde al primo livello è rappresentato da una fantasia o da una serie di fantasie presenti in seduta e che, essendo vicine al livello preconscio, trovano facilmente connessioni con il tema della seduta (ciò di cui si parla).

[Queste fantasie “di primo livello” e il tema della seduta …] possono essere elaborati attraverso un processo conoscitivo, (quello che Bion, […] chiama “trasformazione in K”, dove l'iniziale K sta per Knowledge, conoscenza).

Il nucleo che corrisponde al secondo livello (O, il fuoco, l'attrattore o propulsore), [più che ad un nucleo, corrisponde ad] una galassia di fantasie dotate di una potente forza, ma ancora prive di forma e non ben definite (pensieri senza pensatore). È impossibile conoscere direttamente questo nucleo privo di forma, tuttavia esso può evolvere. Bion (1970) parla di “evoluzione in O”, cioè dell’evoluzione di ciò che è ignoto.

Nel corso della seduta, il terapista può mettersi all'unisono con questo punto focale attivo; così facendo egli segue e in un certo senso promuove il suo prendere forma nel gruppo. [O inizia a manifestarsi, i pensieri senza pensatore possono essere accolti da qualcuno dei membri del gruppo o dal “gruppo come insieme pensante”.]

La funzione dell'analista, in questo caso, non implica […] dare un'interpretazione, ma appunto mettersi all'unisono con O, favorendo così il fatto che i partecipanti, a loro volta, si mettano all'unisono con il nucleo in evoluzione.

Ritengo che la partecipazione dei membri del gruppo all'evoluzione di O e all'emergenza di queste fantasie in un'area che potrà in seguito essere affrontata in modo conoscitivo, sia altrettanto ricca di potenzialità terapeutiche rispetto alla comprensione promossa attraverso l'interpretazione.» (Neri 20047, pp. 127-28)

Pazienti con un prevalente funzionamento psicotico

Rispondere alla domanda sull’impiego clinico della nozione di pensieri senza pensatore è meno facile, se si fa riferimento al setting psicoanalitico classico.

Il setting di gruppo (soprattutto per la collocazione in cerchio delle persone con uno spazio al centro) porta facilmente a pensare che O, ciò che è in evoluzione appartenga ad uno spazio infinito esterno. Nel setting tradizionale - tanto nella disposizione “poltrona-lettino”, quanto in quella vis a vis - l’attenzione si rivolge, invece, a visioni interiori: la psiche, il Sé e poi lo spazio della relazione.

Vi sono certamente delle eccezioni. I pazienti con un funzionamento prevalentemente psicotico, ad esempio, possono sperimentare i pensieri come qualcosa che invade la loro mente provenendo da fuori di loro.

I pazienti che soffrono di disturbi ossessivi tengono costantemente occupata la mente con rituali e pensieri ripetitivi, nel timore che arrivi loro qualche pensiero terribile, che può precipitarli in esperienze insopportabili. La loro condizione è resa ancora più difficile dalla presenza di un “giudice interno” molto severo, che non tollera la possibilità di espandere il pensiero in direzioni non previste. Un mio paziente, che era barbiere, aveva paura di tagliare la gola ai clienti e doveva controllare venti volte il rasoio. Un altro paziente descriveva con queste parole il suo pensiero, forzato da un lato dalla spinta ad una trasgressione estrema e dall’altro dal controllo più rigido: «Io coi pensieri taglio carne ed ossa». Egli sperimentava la possibilità di un pensiero più libero e spontaneo, non come qualcosa che avrebbe potuto produrre una positiva crescita della sua personalità, ma come rischio di divenire preda di un caos terrificante.

Lo psicoterapista, se mette questi vissuti dolorosi ed angoscianti in connessione con l’evoluzione di O, può avvertirli anche come segnali: “Ci stiamo avvicinando a qualche cosa …” oppure “Corriamo il rischio di cadere in qualche cosa” oppure ancora  “Qualcosa sta accadendo e non sappiamo quello che può succedere”. [iii] [iv]

Responsabilità per il pensiero

Tanto per i pazienti con prevalente funzionamento psicotico, quanto per quelli che impiegano meccanismi ossessivi, parte della difficoltà ad assumersi la paternità dei pensieri deriva dal fatto che essi sono caratterizzati da una sorta di iper-realismo. Un'altra parte della difficoltà dipende dal fatto che frequentemente essi sono pensieri di natura violenta e indomabile. Bion segnala questa caratteristica, quando dice:

«Mi rendo conto [che l’invito a dare alloggio a questi pensieri] è una grossa richiesta, perché questi pensieri senza pensatori, pensieri vagabondi, sono anche potenzialmente pensieri selvaggi […].» (p. 61 dell’edizione italiana).

La loro natura selvaggia dipende dal fatto che sono una trasformazione di fantasie violente? Oppure il pensiero contiene in sé sempre qualcosa di violento e sovversivo? Isahia Berlin (1997) propende per questa seconda ipotesi. Egli scrive:

«Più di cent’anni fa, il poeta tedesco Heine ammonì […] a non sottovalutare il potere delle idee: i contenuti filosofici coltivati nella quiete dello studio di un professore possono distruggere una civiltà.»

Berlin fa riferimento alle idee di Marx ed alla rivoluzione bolscevica di cui aveva sperimentato dolorosamente gli effetti sulla propria vita e su quella dei suoi familiari.

Thomas Mann (1953, p. 587-8) riprende le considerazioni di Heine, riportandole non a Marx, ma a Nietzsche. Egli afferma che i pensieri di Nietzsche contengono una qualità selvaggia, che Nietzsche non si è assunto l’onere di pensare, ed aggiunge alcune osservazioni a proposito della responsabilità del pensare, che sarebbero certamente piaciute a Bion.

«Nietzsche […] fu sul piano personale una natura […] delicata, complicata, capace di una profonda sofferenza, alieno da ogni brutalità […]. Ma in un’eroica contraddizione con se stesso, egli diede vita ad una dottrina rabbiosamente antiumana, i cui concetti favoriti furono la potenza, l’istinto, il dinamismo, il superuomo, l’ingenua crudeltà, la “bestia bionda”, l’amorale forza vitale trionfante […]».

«C’è qualcuno che può dubitare che Nietzsche non si rivolterebbe nella tomba se sapesse che cosa è stato fatto della sua volontà di potenza […]»?

«Ma la sua dottrina fu un poema imbevuto di ebbrezza romantica, creando il quale egli non si interrogò mai su quali effetti avrebbero avuto in termini di realizzazione politica i suoi pensieri, e la sua opera grandiosamente tragica ha sciaguratamente contribuito al tramonto [della] “libertà tedesca” [...]».

Thomas Mann mette in luce il fatto che la caratteristica selvaggia del pensiero può derivare dalla mancanza dell’esercizio di una specifica funzione trasformatrice: il prendersi responsabilità del pensiero.

Bion - per parte sua - distingue il pensiero inteso come intelligenza e capacità tecnologica dalla responsabilità di pensare. È solo quest’ultimo il pensiero che porta ad uno sviluppo della personalità umana.

Capacità negativa, fattore t

La funzione trasformatrice del prendersi responsabilità dei pensieri opera sia sui pensieri, sia sul modo in cui vengono pensati e comunicati. Il “pensatore che si assume la responsabilità del pensiero” prende l’onere di immaginare ciò che potrà accadere, quali saranno le conseguenze di quel certo pensiero. Egli si assume anche il compito di commisurare la forza di quel pensiero alla realtà su cui viene ad impattare. Egli infine tiene in conto il vissuto e la particolare tonalità affettiva, propri della persona o delle persone destinatarie di quel pensiero.

La responsabilità del pensiero ha alcuni punti in comune con la rêverie e con la funzione alfa, ma ne differisce perché opera anche ad un livello di maggiore consapevolezza e nel quale è implicata una funzione di valutazione e giudizio.

La responsabilità del pensiero ha molti punti di contatto, ma non coincide del tutto neanche con la capacità negativa (Bion  1970). Un aspetto, ma soltanto un aspetto  del prendersi responsabilità dei pensieri consiste infatti nella capacità di lasciare il pensiero aperto, non saturato, diminuendo così la sua concretezza e rigidità (Bion 1977a). È probabilmente una carenza di capacità negativa a rendere fattuale ed iper-realista il pensiero dei pazienti che impiegano modalità psicotiche.

Eugenio Gaburri (2005), in un recente lavoro, riprende la nozione di capacità negativa considerandola sotto un profilo particolare. Gaburri parla del “fattore t”, il fattore tenerezza. Un genitore può guardare il proprio bambino ed essere portato ad investirlo massicciamente con fantasie ed aspettative. Se però è capace di arrestarsi un attimo, gli può accadere di riuscire a vedere veramente il bambino, a vederlo cioè non secondo le proprie fantasie e proiezioni, ma nei modi che gli sono propri.

Il “genitore privo di capacità negativa” deruba il bambino di qualcosa di essenziale: il diritto di essere se stesso e scoprire i sentimenti ed il mondo, secondo i suoi tempi. Il senso di colpa per questa attività predatoria lo porterà a colmare il bambino di smancerie e doni compensatori. Il “genitore capace di arrestarsi un momento”, guardando e vedendo il bambino, avvertirà nascere dentro di sé un sentimento inedito: la tenerezza.

Stephen Mitchell (1993, p. 160) fornisce un esempio di questo tipo di interazione. Egli  mette in evidenza più che la scoperta della tenerezza, quello di un aspetto dimenticato di sé. L’episodio raccontato da Mitchell ha come protagonisti lui stesso e la figlia.

«Quando la mia bambina più grande aveva circa due anni, ricordo quanto ero eccitato alla prospettiva di passeggiare con lei, per la sua nuova capacità di camminare e il suo intenso piacere di uscire. La mia idea di una passeggiata comporta un rapido movimento lungo una strada o un sentiero. La sua idea era del tutto diversa. Le implicazioni di questa differenza mi colpirono un giorno quando incontrammo un albero caduto di fianco alla strada, a venti metri dalla nostra casa. Il resto della “passeggiata” venne impiegato ad esplorare la vita dei funghi e degli insetti, sotto e intorno all’albero. Ricordo di essermi improvvisamente reso conto che queste passeggiate non sarebbero mai state divertenti per me, ma semplicemente un dovere di genitore, se rimanevo ancorato alla mia idea di passeggiata. Quando fui in grado di rinunciarvi e di arrendermi al ritmo ed al passo di mia figlia, mi si aprì un tipo diverso di esperienza. [… Fu una resa, ma un particolare tipo di resa.] Se mi fossi semplicemente trattenuto per dovere, avrei vissuto la passeggiata come una sottomissione. Ma riuscii a diventare la versione di mia figlia di un bravo compagno di passeggiata, e a trovare in tutto ciò un altro modo di essere che assunse per me un grande significato personale.»[v]

Mistico e pensatore responsabile

Bion (1970) afferma che genio o mistico è chi è riesce a mettersi all’unisono con O ed accogliere i “pensieri senza pensatore”. Il mistico opera in tandem (e spesso in conflitto) con l’istituzione che ha il compito di raccogliere, sistematizzare e divulgare le sue intuizioni rivoluzionarie.

Nello schema che sto disegnando, seguo una linea in parte differente da quella indicata da Bion. Considero, infatti, la possibilità che la “funzione istituzione”, non possa essere soltanto esterna alla mente del pensatore, ma fare anche parte del suo bagaglio, se questi si assume la responsabilità del pensiero. Un’altra piccola differenza rispetto alle indicazioni di Bion è rappresentata dal fatto che il pensatore-mistico possa promuovere lo sviluppo, non soltanto di pensieri che egli ha scoperto, ma anche di pensieri che sono stati scoperti da altri.

Il “pensatore che si assume la responsabilità del pensiero” vi introduce tenerezza per l’altro e per il suo modo di essere e sentire. Egli sperimenta empatia, non soltanto per la persona alla quale comunicherà i propri pensieri, ma anche per la persona che gli sta comunicando i suoi. [vi]

Un esempio di pensatore che si è assunto pienamente questa responsabilità è offerto da Martin Luther King. King non ha mai preteso di avere scoperto le idee di diritti civili e uguaglianza razziale. Queste idee, in effetti, erano già state formulate prima di lui. Egli invece ha rivendicato di aver capito che i tempi erano maturi perché queste idee, che erano rimaste senza realizzazione, potessero trovare attuazione. Martin Luther King, inoltre,  ha promosso una loro evoluzione, espressione e diffusione che ha reso possibile tradurle in un’azione collettiva di riforma sociale. Come scrive Carole Beebe Tarantelli (2006):

«Pensare l’idea dell’uguaglianza razziale […] trasformò [la mente e la personalità] di innumerevoli persone, in modo [tale] che [esse] potessero contenere l’idea di realizzare un cambiamento sociale. [La] trasformazione [del loro modo di pensare e sentire, a sua volta,] ha creato la possibilità di un’azione, che ha trasformato il contenitore istituzionale: [lo stato e la legislazione]. E questa trasformazione, a sua volta, ha trasformato il sentimento/pensiero che [la maggioranza delle] persone incluse in quel contenitore istituzionale: [gli stati del] Sud, gli Stati Uniti nel loro insieme], il mondo occidentale allora potevano contenere». [vii]

Il costo del non pensare

“Pensieri senza pensatore”, a mio avviso, sono non soltanto i pensieri che non sono mai stati formulati, ma anche le domande che è essenziale porre, i pensieri che bisogna pensare, per rimanere vivi. Hanna Arendt (1950, p. 54) scrive:

«L'umanità di un individuo perde la sua vitalità in corrispondenza con il suo astenersi dal pensiero, affidandosi a verità vecchie o anche nuove, gettandole sul piatto come se fossero monete con cui saldare il conto di tutte le esperienze.»

A partire da questa definizione ampliata di “pensieri senza pensatore” tornerò a considerare la questione del suo impiego clinico.[viii] Lo farò da una nuova angolatura, quella che concentra l’attenzione non sulle situazioni nelle quali è stato accolto un pensiero, ma su quelle nelle quali sarebbe stato necessario accoglierlo e nessuno ha avuto il coraggio di farlo.

Il non confrontarsi con le idee del proprio tempo - ad esempio - ha un effetto simile a quello che si produce in una casa che non viene areata ed aperta al sole per molto tempo. La casa ammuffisce e diventa malsana. Viene abitata da tarli, parassiti ed insetti. La mente di chi non pensa pensieri nuovi si riempie di ex‑pensieri diventati pregiudizi, paure e spettri.

Gli spettri

Ibsen (1894) - nel cruciale dialogo tra il pastore Manders e la signora Alving - fa dire ai due interlocutori:

 «Pastore Manders: Non voglio discutere con Lei di una questione come questa. Almeno non discuterò con Lei, sin quando sarà in uno stato mentale così alterato. Ma che vuole dire quando si definisce una vigliacca […]!?

Signora Alving: Allora, le dirò che volevo dire. Io sono paurosa e timida, perché non riesco mai a liberarmi del tutto da questi spettri.

Pastore Manders: Come ha detto!?

Signora Alving: Sono posseduta dagli spettri. Prima, quando ho sentito Regine e Osvald in sala da pranzo, m’è parso di vedere degli spettri davanti a me. Ma mi viene di pensare quasi che tutti noi siamo spettri, pastore Manders. Non si tratta soltanto di quello che abbiamo ereditato da padre e madre e che riappare in noi, ma di ogni sorta di idee vecchie e morte, e convinzioni altrettanto vecchie e morte. Non sono vive dentro di noi; ma lo stesso hanno messo radici e non possiamo liberarcene. Se prendo in mano un giornale e lo leggo, mi sembra di vedere degli spettri sgusciare tra le righe. Devono esserci spettri in tutto il paese: numerosi come i granelli di sabbia.»

 Quando usiamo - con riferimento al lavoro analitico - la parola “fantasma” designiamo qualcosa di vivo. Indichiamo, inoltre, le resistenze che il suo emergere o ri-emergere può suscitare ed in effetti suscita. Gli spettri dei quali parla la signora Alving, invece, sono morti.Sono  idee “che non sono vive dentro di noi; ma che hanno messo radici e delle quali non possiamo liberarci.”

Queste idee morte occupano lo spazio, in cui avrebbero potuto trovare posto nuove idee. Gli spettri, le idee morte non hanno saputo modificarsi e non hanno neanche permesso che si affiancassero loro nuovi pensieri. Anzi, sono entrate in competizione con questi. Quando regnano incontrastate, rendono le persone paurose e timide oppure arroganti e violente, ostacolano i rapporti tra le persone e rendono inabitabile lo spazio della loro vita.

Che forma assumono queste ex‑idee, dopo che da tempo non sono più pensate? La signora Alving - nella sua replica al pastore Manders, che può essere vista allo stesso tempo come un delirio e come un’innovativa descrizione scientifica - dice che sono come granelli di sabbia. Sono sminuzzate e inanimate. Questi granelli di sabbia soltanto in rare occasioni si rendono visibili, presentandosi come spettri. 

Dove sono andate a finire? La signora Alving dice che i granelli di sabbia escono dalle pagine dei giornali, quando li prendiamo in mano e li sfogliamo. Occupano gli spazi tra una lettera e l’altra, i vuoti che consentono di leggere le parole, il contesto che rende comprensibile il testo, lo scenario che dà calore alla scena.

La signora Alving parla di giornali, non di libri. Si riferisce dunque alla vita quotidiana, ai silenzi tra le persone, alle pause tra un’azione ed un’altra. [ix]

Survivals

Tutti i pensieri - secondo Bion (1963) - vanno inevitabilmente incontro ad una progressiva calcificazione.[x]  I pensieri calcificati non sono più adatti al pensiero nascente. Per diventare nuovamente capaci di promuovere la crescita della personalità, devono previamente essere attaccati e trasformati. La rottura della loro scorza calcarea e la riduzione in schegge, rompendo la forma eccessivamente organizzata lascia emergere una loro rinnovata capacità evolutiva. [xi] [xii]

Corrao (1977) - sviluppando il discorso di Bion - fa notare che il processo di calcificazione può essere accompagnato o meno da una mutazione virale. Egli parla più precisamente di una riproduzione virologica dei pensieri che sono diventati “luoghi comuni”. Un luogo comune, uno slogan può essere ripetuto all’infinito con un costo zero di pensiero da parte di chi lo ripete. Vi è però un costo di altro tipo. Alla fine, i pensieri‑slogan si impossessano di tutto il campo, impedendo l’incontro ed il confronto delle menti.

In modo analogo, negli ospedali e nei centri di igiene mentale, scivolare nella routine, non assumersi responsabilità può creare nel campo condiviso sacche devitalizzate e rabbiose, che si manifestano a volte come attacco silenzioso e passivo ad ogni iniziativa.

A mio avviso la calcificazione e mutazione in virus dei pensieri (ed anche la creazione di sacche di sordo malcontento nelle istituzioni) non dipendono soltanto da un’involuzione “naturale” dei pensieri, ma sono anche effetto di una perdita del loro calore segreto. Sono, cioè, anche effetto di un minore e meno dinamico investimento affettivo su pensieri ed ideali condivisi (Neri 1999a).

Conclusione

Terminerò con un’immagine:

«Un maestro sufi, un mistico si stava avvicinando a Damasco, che era al tempo la più colta e ricca delle città. I sapienti che già vivevano a Damasco gli mandarono incontro una delegazione che portava un bicchiere d’acqua colmo sino all’orlo. Il messaggio era chiaro: “a Damasco siamo già tanti, forse troppi, non vi è posto per te e per il tuo sapere.” Il sufi estrasse una rosa che portava sempre nel risvolto del mantello e la mise nel bicchiere, senza fare cadere una singola goccia. Anzi, sembrava che nel bicchiere vi fosse più spazio.» [xiii]

Il troppo pieno di malcontento, rivendicazione, impotenza che a volte intasa il campo analitico non può essere risolto, togliendo o assorbendo qualcosa, ma aggiungendo qualcosa. Il troppo pieno di sentimenti infelici, che occupa quasi completamente il tempo delle sedute, può corrispondere ad un’inibizione del paziente, che non mette in gioco un aspetto del suo Sé più aperto e vivace. È possibile che il paziente non lo metta in gioco e che dunque questo aspetto del sé resti inibito o dissociato, perché l’analista per parte sua fa altrettanto. Tiene, cioè, da parte un aspetto appassionato e determinato della sua personalità (Bromberg 2006).

Questo è il pensiero senza pensatore che, attraverso la lunga narrazione che avete ascoltato, ho fatto mio.

 Bibliografia

 Arendt H (1960) Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten. Rede über Lessing, Hamburg : Hauswedell (tr, it. L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing. Milano : Raffaello Cortina Editore, 2006)

Bachelard G. (1952). La poétique de l’espace, PUF, Paris [trad. it. La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1993]. Citato secondo G. Didi-Huberman (2002). L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg. Éditions de Minuit, Paris [trad. it. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Boringhieri, Torino, 2006].

Beebe Tarantelli C. (2006). Thoughts without a thinker and Martin Luther King.  Dattiloscritto inedito.

Berlin I. (1997). The Proper Study of Mankind: An Anthology of Essays. London (Quoted according to Hardy H. (2000). Foreword to Berlin I. (2000). The Power of Ideas London : Princeton University Press [tr. it. Due concetti di libertà. Milano: Feltrinelli (2000). Citato secondo Hardy H. (2000). Prefazione del curatore in Berlin I. (2000). Il potere delle idee. Milano : Adelphi, 2003].

Bion W.R. (1962). Learning from Experience. London : Heinemann. [tr. it. Apprendere dall'esperienza. Roma : Armando, 1972].

Bion W.R. (1963). Elements of Psycho-Analysis. London: Heinemann, 1963. [tr. it. Elementi della Psicoanalisi, Roma : Armando, 1973]

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Bion, W.R. (1977). Two Papers: The Grid and Caesura. Rio de Janeiro: Imago Editora. [Reprinted, London: Karnac Books 1989]. [tr. it. La griglia e Cesura, in Il cambiamento catastrofico. Torino : Loescher, 1981].

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                                                                                  Æ Crediti: alcuni passaggi del testo sono comparsi in precedenti pubblicazioni (Neri 20047, 2006 e 2007). Desidero ringraziare gli editori Borla ed In-Press per l’autorizzazione ad impiegarli.



 

[i] La parola “pensiero” è impiegata solitamente per designare una costruzione o espressione elaborata e organizzata. Bion, invece, la utilizza per indicare pensieri, fantasie, emozioni, affetti e perfino azioni che possiedono o vanno nella direzione della consapevolezza, della responsabilità e della relazione. I pensieri senza pensatore possiedono questa caratteristica in forma potenziale e la acquistano pienamente quando un pensatore li ha accolti.

[ii] “O” può essere accostato al “mondo delle idee” di Platone, alla “cosa in sé” di Kant e al “mondo 3” di Popper (1963). Se ne distingue però perché evolve e la sua evoluzione influenza i soggetti che si pongono all’unisono con la sua evoluzione (Dazzi 1987). Per questa caratteristica evolutiva, “O” richiama la visione dello Inconscio di Jung (1940) ed ancora più quella di Lacan. La caratteristica evolutiva di “O” permette anche di stabilire una connessione tra “O” la nozione di “fantasia inconscia” di Susan Isacs (1948) e Melanie Klein (1921).

[iii] Può essere utile tenere a mente la nozione di pensieri senza pensatore, non soltanto quando si è con pazienti gravi, ma anche con in presenza di alcuni eventi fisiologici, che lasciano senza fiato. Mi riferisco ai cambiamenti ormonali. Gli ormoni non provengono dall’esterno della persona ma da fuori della mente. Essi bombardano, con violenza sovversiva, la mente e la personalità dei bambini nella pubertà, dei ragazzi nell’adolescenza e degli uomini e delle donne in andro e meno‑pausa. Gli ormoni, dal punto di vista dello psicoanalista, hanno il doppio carattere di una emergenza istintuale e di una necessità imposta da una realtà molto potente, irriducibile ed evolutiva con la quale l’individuo è costretto a fare i conti.

[iv] Se li intendiamo nel senso di essere qualcosa che è molto potente, irriducibile ed evolutivo che impatta sull’individuo, i pensieri senza pensatore possono trovare un’analogia negli archetipi. Intendendo questi ultimi come «forze vitali psichiche che pretendono di essere prese sul serio e anzi, nella maniera più singolare, provvedono anche a farsi valere» (Jung 1940). L’accostamento tra pensieri selvaggi ed archetipi fa bene comprendere quanto sia importante per la crescita della personalità dell’individuo affrontare la fatica psichica di accogliere «contenuti che prorompono […] dal centro più profondo e più oscuro, mai raggiungibile dalla luce della coscienza» (Jacobi, 1971).

[v] Desidero ringraziare Marco Bernabei che mi ha segnalato il brano di Mitchell.

[vi] Tornando adesso alla nozione di capacità negativa di Bion vorrei dire che nella mia esperienza di psicoanalista e terapista di gruppo ho riscontrato l’importanza di una disciplina che tende ad allontanare dalla mente le spiegazioni e interpretazioni immediate che vengono suscitate dal racconto di un paziente, da un suo sogno o da una sequenza di sogni. L’intento è quello di creare uno spazio più aperto e libero in cui possa emergere un pensiero nuovo, un sentimento o, più in generale, un elemento inatteso. Questo elemento apparentemente spiazzante si rivela poi connesso in modo diretto (anche se a volte ciò non è a tutta prima molto evidente) a quel sogno o a quella sequenza. Assumendo questo assetto mentale, si favorisce, anche il disporsi dei membri del gruppo secondo un analogo stato mentale. Lo spazio che si crea in questo modo è uno spazio di sospensione, ma non di attesa passiva: c’è anzi una sensazione molto potente di tensione e di impegno.

[vii] Il lavoro di esprimere le idee ed i sentimenti in una forma che li renda espressivi della contemporaneità e capaci di parlare alla contemporaneità è compiuto in larga misura dagli artisti. Darò un esempio utilizzando le immagini di un’installazione di Jannis Kounellis e le parole di Giuliano Briganti. Briganti (1990, pp. 85-6) scrive: «Ci sono dei momenti nella vita in cui ci accorgia­mo di capire il senso reale di una cosa, all'improvviso, come per una illuminazione. Fu così che a me accadde di capire Kounellis, di intendere il messaggio poe­tico della sua opera, quattordici anni fa. Nel 1976. Ricor­do ancora l’emozione che provai davanti alla sua ‘instal­lazione’ senza titolo dell’albergo Lunetta, una delle sue opere di quell’anno. Lo ricordo perché fu un giorno impor­tante per me. Attraverso l’epifania poetica di un’opera che, ai miei occhi, esprimeva antichissimi valori formali in un linguaggio assolutamente nuovo, ebbi quella volta la chia­ra sensazione di essere ‘dentro’ il processo più vivo dell’ar­te contemporanea. Dico ‘dentro’ perché solo un’opera d’ar­te che esprima realmente la contemporaneità credo possa suscitare in chi la guarda qualcosa che è molto vicino allo spirito creativo. Vale a dire qualcosa di più o piuttosto qual­cosa di diverso dal riconoscimento, emotivo e intellettua­le, del valore dalla pura contemplazione della qualità. […] A farmi fare quel passo fu dunque l’installazione senza titolo dell’albergo Lunetta: un taglio orizzontale che divi­deva in quasi tutta la larghezza la parete di una squallida stanza d’albergo tappezzata da una carta da parati di un rosa sbiadito e alla quale si arrivava solo dopo aver percor­so un lungo labirinto di scale e di corridoi. Un taglio rigo­roso, purissimo che incideva profondamente sulla struttu­ra della parete tanto da dare l’impressione che essa rag­giungesse il limite estremo delle sue possibilità di resiste­re; i margini formavano due linee sottilissime che congiun­gendosi agli estremi finivano sulla carta rosa in un solo tagliente segno di lapis mentre si allargavano al centro quanto bastava appena per contenere una fragile pallina da ping pong. Pensai naturalmente a Fontana, ma era un riferimen­to ovvio, anzi esteriore e quindi insufficiente. Se ricordo le impressioni di allora, mi parve che da quell’opera, dalla primitiva straordinaria eleganza della sua tensione, simile a quella di un arco che ha appena scagliato una freccia, si liberasse un’energia compressa e nello stesso tempo che essa liberasse noi da una tensione accumulata, con un effet­to magico, ineffabile. Mi apparve simbolico, allora, il dif­ficile percorso che aveva portato a quella stanza, mitico lo squallore del luogo che la nascondeva, e pensai alla favo­la del Labirinto, a quelle del tesoro nascosto: un tesoro che può celarsi anche nel luogo più banale, come la lettera rubata di Poe.» Un taglio è un taglio. Una ferita è una ferita. Nulla di più o di meno. Tuttavia come dice Briganti, citando Vico. «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensibili dare senso e passione, […] prendere cose inanimate fra le mani e favellarvi come fossero persone vive […].» Il tagliente segno di lapis che si allarga al centro quanto basta per contenere una pallina da ping pong, mi ha fatto pensare ad un trauma ed alla successiva zona di anestesia che si può estendere tra una persona ed un’altra, tra una persona e l’intero mondo dei rapporti, tra due stati mentali all’interno del Sé di una persona. Una linea di anestesia che si può estendere tanto da raggiungere il cuore, tanto da divenire violenza e spietatezza. Il dif­ficile percorso che ha portato Giuliano Briganti sino alla stanza con il taglio orizzontale sulla parete mi ha richiamato alla mente il lungo lavoro dell’analista e del paziente per arrivare al luogo mentale ed affettivo che contiene la linea di separazione, quando essa potrebbe divenire anche linea di possibile contatto.

[viii] La definizione originaria di Bion indica che i “pensieri senza pensatore” sono idee relative a qualcosa che ancora non è stato formulato. Ho già ampliato questa definizione nel paragrafo precedente, suggerendo che “Pensieri senza pensatore” sono anche idee, che sebbene siano state formulate, sono rimaste senza realizzazione perché i tempi non erano maturi per una loro attuazione.

[ix] In psicoterapia di gruppo ed in psicoanalisi, facciamo riferimento alla serie di spazi e di contesti dei quali parla la signora Alving - nel brano che ho citato - impiegando la parola “campo”. La teoria del campo e il suo impiego in psicoanalisi sono stati a lungo al centro di un dibattito, che ha portato a distinguere questa nozione da quelle di transfert, di relazione e di setting. Sono stati inoltre individuati e definiti alcuni elementi che la caratterizzano (Neri e Selvaggi 2006). a) Il campo non è la somma delle situazioni interne dei membri della coppia, né è riconducibile all’uno o all’altro, ma si configura come un elemento terzo con qualità e dinamiche indipendenti. Da questo punto di vista, la nozione di campo e quella di terzo analitico di Ogden sono molto vicine. Ogden (2005, p. 2) infatti definisce il terzo analitico. «[Qualcosa che è contemporaneamente del paziente e dell’analista e] di un terzo soggetto che è allo stesso tempo il paziente e l’analista e nessuno dei due.» b) L’analista e l’analizzando contribuiscono a determinare il campo in cui sono immersi e nello stesso tempo ne subiscono l’influenza a più livelli. c) Il campo corrisponde ad un insieme di fenomeni e funzioni più comprensivo e complesso di quello che solitamente indichiamo con il termine atmosfera. Il campo include l’atmosfera, ma non coincide con essa, perché corrisponde ad un insieme più ampio. Entrando in un reparto di un ospedale o nella stanza condivisa dagli operatori di un Centro di igiene mentale, è abbastanza frequente ascoltare frasi come: “L’atmosfera qui è veramente pesante” oppure “Oggi, l’aria si taglia con un coltello”. Si può dire che i membri di un’istituzione come effetto della loro partecipazione al campo istituzionale sono sottoposti a pressioni da parte di “emozioni, fantasie, pensieri non pensati”, che premono su di loro manifestandosi come “peso” o come “coltelli”. Se ciò che preme sulle persone - che condividono il campo corrispondente al DSM, al reparto o al gruppo - fosse pensato, l’atmosfera diventerebbe più respirabile. d) Le caratteristiche del campo possono mutare per evoluzione spontanea; possono però anche essere modificate (involontariamente e inconsapevolmente oppure intenzionalmente) dalle persone che condividono lo stesso spazio o situazione relazionale. e) L’analista - secondo la teoria classica - ha accesso esclusivamente  agli stati d’animo ed alle fantasie che il paziente via via gli presenta attraverso parole, resoconti di sogni e libere associazioni. La  teoria del campo ipotizza invece che egli abbia accesso (diretto) anche all’insieme dei fenomeni del campo che condivide con il paziente. f) Dall’adozione della teoria del campo discende anche un cambiamento della tecnica classica: la ricettività dell'analista, l’attenzione per il contesto, le trasformazioni che opera sugli elementi non-verbali (extra-verbali, ultra-verbali), la tolleranza per il dubbio divengono un’importante chiave terapeutica assieme alla capacità d’interpretazione e soprattutto alla capacità di modulazione interpretativa (Ferro 2005). g) Un lavoro delicato e poco appariscente, che viene svolto dall’analista, consiste nel creare e sostenere un campo di stabilità e non moralismo, un campo relativamente ordinato nel quale nuovi pensieri e sentimenti possano emergere (Gaburri 1998, Ferro 2003). h) Il campo può essere considerato come il “luogo” (intendendo il termine con una doppia valenza teorica e clinica) dove “pensieri non pensati”, “pensieri impensabili”, “pensieri senza pensatore” rimangono sospesi, attendendo di essere pensati (Neri 20047).

[x] Come ho accennato in un precedente paragrafo, i pensieri senza pensatore dopo che sono stati accolti dal mistico, vengono definiti più chiaramente, ridotti in formule, organizzati in voci di dizionari e manuali, per azione di una particolare funzione, che Bion chiama “istituzione”. Ha inizio qui il loro processo di calcificazione.

[xi] Alcuni pensatori contemporanei ad Ibsen si sono occupati di elementi simili agli spettri. Tylor (1871) ha parlato di sopravviventi (Survivals), simili ai virus, la cui esistenza ed attività si  realizza a spese degli ospiti vivi. Warburg  (1932) ha usato alternativamente due espressioni: “Ciò che vive dopo” (Nachleben) e “Fossili che appaiono ripetutamente”  (Leit-fossil). I  Leit-fossil – secondo Warburg - mancano di qualsiasi valore progettuale o senso evolutivo. Ad essi non si può attribuire un valore simbolico, né archetipico. La loro sopravvivenza non è un equivalente sociale o culturale della sopravvivenza biologica del più adatto. Il Nachleben di Warburg è esattamente il contrario di ciò a cui si riferisce Darwin, è la manifestazione di qualcosa che continua a comparire tenacemente, ma che rappresenta un anacronismo rispetto al tempo ed alla cultura in cui appare. Bachelard prende una posizione diversa rispetto a quelle sostenute da Tylor e Warburg. Egli infatti sottolinea (1952, p. 112 dell’edizione francese) che: «Il fossile non è […] semplicemente un essere che ha vissuto, è un essere che vive ancora […].» Freud è certamente più vicino a Bachelard, che a non si è mai interessato a queste forme di vita parassite, ma a Tylor e Warburg. Egli, infatti, si è interessato di forme di vita latente, pronte ad essere richiamate in vita. Nella Traumdeutung (p. 149 e p. 232), parlando dei sogni di morte delle persone care, scrive: «Un conoscente mi ha raccontato: “Sogno di arrivare a casa mia con una signora sotto il braccio. C’è lì ad attendere una carrozza chiusa e un signore mi viene incontro, si presenta come un agente di polizia e mi invita a seguirlo.» Freud chiede a questo conoscente - che nella realtà è lui stesso - se immagina per quale accusa viene arrestato. Il conoscente, suscitando lo stupore di Freud, dice: infanticidio. Poi racconta di avere una relazione con una signora sposata con cui fa molta attenzione a non generare bambini. A partire da questa prima associazione, il conoscente ricorda che nella sua gioventù una ragazza con cui aveva una relazione era rimasta incinta e, a sua insaputa, aveva abortito, lui aveva trascorso mesi nell’incubo di essere scoperto. Freud commenta che in sogni come questi si tratta di desideri che erano stati attuali molti anni prima del sogno, i personaggi di cui si sogna la morte non sono propriamente morti, ma: «[…] come le ombre dell’Odissea, appena bevono sangue, si ridestano a una certa vita.» La posizione e gli interessi di Bion si rivolgono a qualcosa di differente da ciò che suscita l’attenzione di Freud.

[xii] Bion ha chiamato questo processo: “Oscillazione D ® PS.” Egli ha introdotto il concetto di oscil­lazione Ps ↔ D, partendo dalla teoria di M. Klein, secondo la quale nel corso dello sviluppo, il bambino passa da una fase - quella schizo-paranoide - in cui la realtà interna ed esterna è costituita da oggetti parziali, ognuno investito di una particolare coloritura affettiva, a una - quella depres­siva - in cui si sperimenta l'integrità dell'oggetto e la corri­spondente ambivalenza affettiva. L'oggetto diventa uno e su di esso vengono investiti sentimenti contraddittori, di qui l'ambivalenza affettiva. La prima differenza tra M. Klein e Bion sta nel fatto che per quest'ultimo l'oscillazione Ps ↔ D si riferisce a una mo­dalità di funzionamento della mente, e non ad una tappa dello sviluppo. M. Klein, inoltre, parla di un processo se­quenziale dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva; Bion di continue oscillazioni di costruzione e decostruzione. L'oscillazione Ps ↔ D consente di collegare fenomeni ed elementi mentali già noti, ma apparentemen­te slegati fra loro, che attraverso una sintesi assumono coe­renza e nuovo significato. Altrettanto fondamentale è il pas­saggio D → Ps: in molti casi è infatti necessario mettere in discussione i collegamenti già effettuati, per ricercarne al­tri e scoprire diversi significati. In questo modo, si apre la via a nuovi processi mentali, rompendo il convenzionali­smo implicito nell'accettazione passiva di schemi e di sim­boli già dati.L'oscillazione Ps ↔ D non coinvolge soltanto il pensare, ma anche le emozioni. In Ps prevale un senso di frustrazione e persecuzione legato all'assenza di un quadro ben defini­to. L'individuo si sente angosciato dalla mancanza di chiarezza e vive sentimenti di confusione e dubbio. Il passaggio in D comporta un senso di scoperta e sollievo dal­la tensione. ma anche un piccolo momento depressivo. (Correale 198, Neri 2003).

[xiii] Sono venuto a conoscenza della storia del maestro sufi attraverso un racconto di Francesco Corrao.

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