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Squitieri G. - Discussione di "Quali funzioni svolgono la fede e la fiducia nella seduta e nel lavoro analitico?" di C. Neri (2004)

19 marzo 2004

Giuseppe Squitieri

Discussione  del lavoro
“Quali funzioni svolgono la fede e la fiducia nella seduta e nel lavoro analitico?”di Claudio Neri

 

Ho riletto più volte il lavoro di Claudio Neri per cercare di afferrarne il senso più profondo che mi sembrava  offrirsi e sottrarsi, mentre toccava molte corde della mia sensibilità. Ne è nata una chiave di lettura che è quella che cerco di proporvi per aprire la discussione.
Davanti ad un lavoro come questo bisogna stare attenti : sono tali e tante le considerazioni che suggerisce, ed in tante direzioni diverse, che il rischio è, invece di discuterlo, di commentarlo all’infinito. Neri stesso però ci dà la misura di quanto va fatto rimanendo sempre molto vicino ad un campo specifico, quello della psicoanalisi e quello della clinica. Ma ciò non impedisce –questa è stata la mia reazione- di sentirsi sollecitati su un piano anche più personale. Mi sono chiesto perché.Avevo già avuto un primo contatto con questo lavoro –senza averlo letto- in una riunione del gruppo di lavoro italiano che ha contribuito alla formazione del programma del prossimo congresso di Milano degli psicoanalisti di lingua francese . Il tema del congresso, come spero a questo punto saprete tutti, è « Il processo analitico » ed una delle relazioni principali è quella di Thierry Bokanowski che si intitola « Sofferenza, distruttività, processo » . Si tratta di una relazione di grande spessore teorico e soprattutto clinico che indaga a fondo –semplifico- gli aspetti del lavoro del negativo sulla dinamica del processo analitico.
Mi era venuto spontaneo, dovendo predisporre un dibattito, pensare per contrasto a quali fossero le condizioni che permettono all’analista di realizzare nella sua mente delle attitudini di segno “positivo”. Quali attitudini o quali atteggiamenti gli permettano, cioè,  di realizzare una condizione di funzionamento (in lui e nell’analizzando) che favoriscano lo sviluppo del processo. Questi interrogativi si collegavano al problema della natura del processo analitico (processo naturale o no?, secondo una formulazione che forse ormai non è più attuale) e permettevano di uscire dalla opposizione  tra elementi spontanei e soluzioni  tecniche, spostando piuttosto l’attenzione sul chiedersi quali siano condizioni « positive » che  devono realizzarsi nella mente dell’analista, ed in quella del paziente, perché il (un) processo analitico possa svilupparsi.
A questo proposito, nella discussione, Laura Ambrosiano, che faceva parte del gruppo, parlò brevemente del lavoro di Claudio Neri, che lei aveva letto,  accennando al ruolo che in esso giocava le fede, o meglio il fattore F. Devo dire che ne fui molto colpito, ancora senza conoscerne i particolari, perché corrispondeva  a qualcosa che avevo in mente, e dalla discussione nacque la proposta, da presentare nell’ambito del Comitato scientifico allargato, di un dibattito su « Negativo e positivo nel processo analitico ». Con il sottotitolo : « Distruttività, fiducia e fede » . Di fiducia Laura non aveva parlato ma l’accostamento anche in quella sede venne spontaneo così come  quello tra Winnicott (trust) e Bion (faith).  Per la cronaca, il titolo venne accettato (ed il dibattito a Milano si farà) ma i colleghi francesi preferirono rinunciare al sottotitolo  in nome del timore di una qualche deriva mistica che potesse nascere dalla parola « fede ».Tutto questo per dire che l’individuare –come fa Neri-  F come fattore di una funzione psichica necessaria all’analista in seduta (ma anche –come Neri ancora dice- come fattore che si può trovare associato ad altri in un certo numero di funzioni psicologiche, sociali ed istituzionali) mi sembra l’aspetto di grande interesse di questo lavoro. Questa impostazione –la ricerca sulle condizioni interne necessarie all’analista in seduta per attivare la propria funzione analitica-  è per molti versi caratteristicamente bioniana e va differenziata da quella che negli anni ’40 e ’50 aveva dato luogo al dibattito sulle qualità richieste all’analista per essere tale (famoso articolo di Sachs del ’47).Se Bion (e l’ « Atto di fede » di cui egli parla soprattutto nella prima parte di Attenzione e interpretazione) è il punto di partenza della riflessione di Neri, a me sembra però che  egli voglia poi incamminarsi per altre vie. Della stessa « fede » in Bion,  Neri sembra dare una versione che può apparire riduttiva : ne parla cioè come « la capacità di avere fede in alcune percezioni ed intuizioni che emergono durante il lavoro analitico e che corrispondono a fatti  la cui esistenza non è descritta  e spiegata dalle teorie che sono al momento disponibili ». Un sorta, in questo senso, di capacità negativa, o di disciplina, come affermano i Symington.
Potremmo forse dire qualcosa di più (e Neri, che è profondissimo conoscitore di Bion, lo sa bene), e cioè che  « fede » in Bion  significa anche percezione profonda che una realtà emozionale esiste e che la verità di essa è raggiungibile. Il che giustifica la funzione analitica stessa.   La strada per raggiungere tale verità –come sapete-  non è per Bion quella della conoscenza ma quella dell’ « essere », e la fede è appunto di poter arrivare ad « essere » quella realtà ultima. Non starò qui a discutere quali siano le conseguenze di questo distinguere –da parte di Bion- tra « essere » e « conoscere » e quali strade prenda allora la conoscenza, perché non mi sembra questa la sede per farlo né credo che questo sia quanto  interessi a Neri –se non collateralmente- nel lavoro che stiamo discutendo. Mi limito ad osservare come in questo contesto di discorso, la funzione della mente come contenitore venga messa in secondo piano. La funzione (materna e analitica) di contenimento  e di detossificazione della mente è legata innanzitutto  alla regolazione dell’equilibrio tra piacere e dolore   ed una preoccupazione in questo senso attutisce e limita in prima istanza la capacità di entrare in sintonia con il movimento della realtà emotiva della seduta. Questa considerazione mi ha confermato la sensazione che Neri stesse per molti versi parlando d’altro perché nel suo lavoro è proprio l’attenzione alla sofferenza dell’analizzando, e ad una particolare forma di sofferenza,  ad essere piuttosto in primo piano.Ritorniamo allora  al testo ed occupiamoci delle situazioni cliniche che ci vengono presentate e che secondo me sono tra le cose più belle di questo scritto. Qui l’attenzione del Neri analista sembra tutta primitivamente volta a sostenere la vitalità, le capacità vitali dell’analizzando, come egli stesso almeno una volta dichiara. Pensiamo alla giovane donna che sogna –vero « sogno che volta pagina », secondo la definizione di Quinodoz - che l’analista ha custodito gli aspetti più sofferenti o addirittura morti del suo Sé (rappresentati significativamente da un cranio ed un cadavere) finché essi non si sono potuti rianimare. Oppure alla paziente che tiene per così dire incatenato al proprio fatiscente motorino una se stessa inanimata ed autodistruttiva fino a quando non può, attraverso il lavoro analitico, rinunciarvi per una immagine di sé come « donna che cuce » (forse la trama della vita). O al pensiero « bugiardo » (per così dire) di Marco che pensa di poter sfuggire alla morte.
La preoccupazione di Neri per la morte, non tanto morte del corpo, ma perdita o assenza di vitalità, di spinta costruttiva ed efficace nei confronti dell’esistenza sembra costante così come ripetuto è l’interrogarsi su che cosa sia utile per contrastarla, per risanarla, per indirizzarla verso una considerazione costruttiva di sé.
Mi sembra allora di capire meglio che cosa intende Neri quando parla di fede e mi sembra si tratti soprattutto di una fede di fondo nella vita, nella (possibile) bontà della vita.
L’area che Neri sta esplorando mi sembra  non essere quella delle capacità identificatorie o dell’insieme delle operazioni proiettive-introiettive e di internalizzazione che culminano nella posizione depressiva (l’area cioè con la quale forse siamo più avvezzi a trattare). Mi sembra che sia piuttosto quella della creatività che si può sperimentare nell’esistenza ma che costituisce un fondo vitale che viene prima dell’esperienza, una capacità vitale insita nell’essere umano che permette –insieme naturalmente a risorse che provengono da altre aree- di affrontare in maniera sufficientemente costruttiva le evenienze dell’esistere (e dei cambiamenti e delle trasformazioni che l’esistere impone). Quest’area –e la convinzione di un naturale, anche se inconoscibile, fondo di creatività vitale dell’essere umano- accomuna Bion a Winnicott (ed a Lacan, secondo un vecchio ma bel lavoro di Michael Eigen che mi ha suggerito alcuni spunti per queste osservazioni). E non a caso–mi sembra- Neri confessa talvolta la sua difficoltà a differenziare il fattore F dalla fiducia di base di Winnicott o, aggiungerei io, dai presupposti su cui Winnicott poggia la sua descrizione dell’ esperienza transizionale o del vero Sé.Personalmente, questo mi sembra essere l’aspetto anche di maggior coraggio di questo lavoro, affrontato peraltro con molto equilibrio. Coraggio perché si appella a qualcosa di non conoscibile e di misterioso (e qui avviene ancora il ricongiungimento con Bion) ma che noi percepiamo come pure esistente e profondamente umano, e che è una materia di cui forse tutte le fedi (non i fondamentalismi) sono fatte.
Neri ci mostra nel suo lavoro come questa fede non dia luogo ad alcuna deriva mistica o irrazionale (anche se il problema del rapporto con la ragione –come lui stesso dice- si pone) ma come al contrario si inserisca nel lavoro clinico come funzione di consapevolezza dell’analista, capace di generare attenzione e genuina preoccupazione per le condizioni di vitalità dell’analizzando.
Mi sembra che Neri ci dica qualcosa di più sull’uso clinico che di essa può farsi quando, parlando di « individuazione  e scelta »,  sottolinea come il senso di vitalità, che la fede concepita in questi termini comporta, costituisca in realtà un primum movens, un momento pre-riflessivo cui devono poterne seguire altri, di natura più riflessiva, capaci di dar corpo e di tematizzare in termini individuali e specifici la promessa di vita e di partecipazione, il costruttivo ottimismo che sono le trasformazioni di F.
Nascono in questo modo le sue efficaci osservazioni sulla stabilizzazione della fiducia, sulla trasformazione dell’onnipotenza, sulle difese depressive, sulla possibilità di riconoscere –come gli aborigeni australiani- il cibo e l’acqua (le risorse interne) nelle forme in cui sono presenti :  una serie di punti che lascio alla discussione. Come lascio alla discussione alcuni interrogativi sui rapporti tra questo lavoro ed altri precedenti di Neri (per esempio, quelli sulla fusionalità : vedi, tra l’altro, il capitolo della relazione tra autostima e corpo).Aggiungerò solo una coda a quanto detto.  Se osserviamo le cose dal punto di vista di quali siano o di come si costituiscano le condizioni mentali o le funzioni psichiche che consentono all’analista di svolgere la propria funzione, possiamo pensare che nella costituzione di queste condizioni o  di queste funzioni  entrino fattori che sono o diventano parti della personalità dell’analista: “sono” in quanto possono appartenergli come aspetti del suo carattere, “diventano” perché si acquisiscono con il tempo, con lo studio e con l’esperienza della vita e dell’analisi.
In questo senso credo che Neri ci stia anche raccontando come dentro di lui si è andato sviluppando ciò che egli chiama fattore F. Credo che questo mi abbia dato quella sensazione di cui parlavo all’inizio : il sentire questo lavoro anche come comunicazione di un’esperienza personale, di un percorso anche intimo. Anche di questo vorrei ringraziarlo.

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