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Report di Donatella Verrienti su “Second life. Il ritiro nella fantasia”, Irene Ruggiero (24 ottobre 2020)

Mario Priori, membro ordinario SPI e AIPPI, introduce la ricca e stimolante relazione di Irene Ruggiero, psicoanalista membro ordinario con funzioni di training della SPI/IPA, esperta in Psicoanalisi del bambino e dell’adolescente, su di un tema emergente e di grande interesse per la clinica psicoanalitica che incontra sempre più frequentemente situazioni in cui al disinvestimento della dimensione relazionale reale, avvertita come pericolosa, si associa una condizione di iperinvestimento del mondo virtuale o, come nel caso clinico qui descritto, un pervasivo ritiro nella fantasia. 

 

Mario Priori, membro ordinario SPI e AIPPI, introduce la ricca e stimolante relazione di Irene Ruggiero, psicoanalista membro ordinario con funzioni di training della SPI/IPA, esperta in Psicoanalisi del bambino e dell’adolescente, su di un tema emergente e di grande interesse per la clinica psicoanalitica che incontra sempre più frequentemente situazioni in cui al disinvestimento della dimensione relazionale reale, avvertita come pericolosa, si associa una condizione di iperinvestimento del mondo virtuale o, come nel caso clinico qui descritto, un pervasivo ritiro nella fantasia.

E’ attraverso il racconto di un’analisi con una ragazza postadolescente che Irene Ruggiero ci mostra, con grande chiarezza e viva partecipazione, l’incontro con una dimensione in cui al rifuggire una realtà affettiva, dolorosa ed alienante, corrisponde la strutturazione di un mondo fantastico, alternativo e dissociato, una sorta di “second life”.

Mentre ci accompagna nei vari passaggi del complesso ed articolato percorso psicoanalitico da lei condotto, la relatrice delinea un modello teorico che consente di inquadrare concettualmente il significato della fantasticheria e di delineare origine, funzione e ruolo di questa forma di ritiro dalla realtà in un mondo parallelo, dissociato e non rimosso, in cui l’aspetto identitario della persona, nella sua qualità psichica, corporea e relazionale, è immaginato con caratteristiche differenti da quelle reali. Il potenziamento di questo universo fantastico, così onnipotentemente gratificante, diviene pertanto un fattore generativo di una progressiva alienazione ed un isolamento, in un circolo vizioso autoalimentante a cui può risultare difficile sottrarsi.

Per comprendere questo specifico funzionamento psichico lrene Ruggiero fa riferimento ad una prospettiva concettale della mente che ne individua l’origine ed il suo strutturarsi nell’ambito di una matrice primariamente relazionale. È in questo ambiente interattivo che la nascente organizzazione psichica del bambino si plasma sulla base della relazione con un’altra mente che ne sostiene le ancora immature capacità di regolazione, in un costante processo di accoglienza, mentalizzazione e trasformazione di stati informi in emozioni bonificate e dunque per lui re-introiettabili insieme al sistema interno che le contiene (Bion,1963). La costruzione identitaria originaria è dunque fortemente permeata dalle modalità materne di funzionamento psichico, le cui specifiche caratteristiche in termini di modelli interni di relazione con gli oggetti primari improntano la relazione con il bambino, lasciando tracce consistenti di sé nell’emergente struttura intrapsichica dell’infante. E’ infatti attraverso le modalità con cui l’oggetto-ambiente risponde alle sollecitazioni del neonato, “al buon esito della dialettica del distrutto/trovato che poggia il processo di riconoscimento dell’esistenza separata dell’oggetto e pertanto della sua soggettività”(Roussillon,2010).

Irene Ruggiero prosegue la sua relazione sottolineando come nella sua funzione “soggettivante” l’ambiente può dunque svolgere una funzione facilitatrice o, viceversa ne può ostacolare il percorso evolutivo nella misura in cui la trasmissione di tracce non riguardi solo elementi trofici e funzioni trasformative ma possa riferirsi anche a elementi connessi con traumi precoci inelaborati, che hanno compromesso la capacità materna di sintonizzazione e di riconoscimento dell’alterità. Unitamente ad una difficoltà nel mantenere “un’attitudine recettiva impregnata di curiosità e speranza”, caratteristica presente nel suo stile accuditivo come residuato di una insufficiente regolazione narcisistica, è possibile che l’oggetto-ambiente invada la mente del lattante occupandone lo spazio con elementi traumatici appartenenti alla propria storia personale, con l’esito inevitabile di ridurre, per un eccesso di predeterminato, le potenzialità creative della mente del bambino, che si trova ad essere precocemente colonizzata da intrusioni e proiezioni dal carattere attivamente “abusante”.

E’ nella matrice relazionale originaria ancora indifferenziata, dove la porosità dei confini interpersonali tra madre ed infante (Kaes,1993; Bolognini,2008) rende pervia la trasmissione transpsichica, che lo scambio fisiologico si trova talora a poter essere deformato dall’utilizzo di massicce modalità proiettive messe in campo dall’oggetto materno i cui esiti finiscono per depositarsi nell’inconscio non rimosso del bambino come dei corpi estranei, il cui funzionamento acquista caratteristiche di onnipotenza, atemporalità, indistinzione sé-altro.

Conseguenza di questo originario fallimento materno diverrebbe l’impossibilità per il bambino di appropriarsi creativamente di ciò che riceve, aprendosi ad identificazioni strutturanti, mentre al contempo sopraggiunge la necessità di difendersene strenuamente con modalità ostruttive che ne impediscono la crescita psichica, o mediante identificazioni alienanti con i propri genitori interni e con la loro regolazione narcisistica che nega l’alterità dell’oggetto amato. In questo processo di trasmissione inconscia, si diviene dunque attori inconsapevoli di un copione che rigidamente si rinnova nel succedersi delle esperienze, “vittime” di un’eredità transgenerazionale che mina sin dagli esordi lo sviluppo della soggettività come funzionamento originale e ancora plasmabile.

Può accadere – come l’analisi del caso descritto ci mostra – che associato al rifiuto difensivo dall’oggetto traumatico, si sviluppi nel bambino anche una spiccata diffidenza verso il pensiero, in specie di tipo associativo, connesso alla possibilità che lo stesso possa riproporre le circostanze traumatiche originarie che nel passato hanno avuto un potere annientante ma di cui non restano tracce rappresentazionali in quanto esperite in assenza di un oggetto originario in grado di riconoscerle.

La necessità di schermarsi dalla relazione con l’oggetto traumatico, che li ha lasciati come “scorticati”, “con la pelle viva” e dal pensiero avvertito come destabilizzante, può divenire pertanto il motore del ricorso alla fantasticheria quale modalità che interrompe la continuità della relazione con l’oggetto, assumendone una funzione sostitutiva tossica, molto distante dal valore fisiologico e provvisorio di vettore che si interpone tra il desiderio e la sua realizzazione. L’edificazione di un mondo immaginario stabilisce allora una condizione di pseudo-indipendenza, attraverso cui il sé emergente tende ad evitare in modo illusorio la dipendenza dall’oggetto, mentre nella realtà finisce per esserne sempre più dipendente nell’impossibilità di rappresentarsene l’assenza ed avviare un processo di lutto, presupposto ineludibile per la sua ricreazione simbolica che apre a nuovi investimenti affettivi.

Riprendendo il lavoro di Winnicott (1971), Ruggiero ci ricorda come il fantasticare, diversamente dall’attività del sognare, non costituisca il preludio all’azione ed alla vita reale, ma al contrario comporti il suo evitamento attraverso l’utilizzo di un funzionamento mentale dissociato la cui funzione precipua è quella di eludere la realtà affettiva considerata nel suo potenziale traumatico perché percepita in grado di sopraffare un Sé troppo fragile. In questa dimensione onnipotente, intrisa di una ipertrofica valenza sensoriale che prende il posto di una fisiologica sensualità, il rischio può divenire il permanere in una bolla protettiva che, al tempo stesso, è prigione agonica, dove l’annullamento del tempo fa da impedimento alla storicizzazione del desiderio e ad ogni sua possibile accessibilità. Aspetti di natura perversa si rintracciano pertanto in queste organizzazioni psichiche che privilegiano il piacere della sensorialità autoprodotta al piacere affettivo e mentale che scaturisce dalla relazione “incarnata”, in un processo che, autoalimentandosi, oltre a generare una dipendenza tossica da questi meccanismi, tende verso un progressivo impoverimento esperienziale che costituisce un importante fattore di limite allo sviluppo ed alla trasformazione del Sé.

L’interessante lettura proposta da Irene Ruggiero ci aiuta inoltre a mettere in luce un altro aspetto centrale di queste strutture psichiche che prevedono la rinuncia alla possibilità di generare e nutrire aspetti autentici del Sé che siano difformi dalle aspettative genitoriali, che in quanto tali sono rifiutati e connotati da un senso di indegnità. Ciò ha il potere di determinare, nell’identificazione con le richieste narcisistiche dei genitori, una gestione tirannica e mortificante dei propri bisogni primari e delle proprie ambizioni individuative-separative, aspetto amplificato dalla stessa intuitiva percezione che il differenziarsi dalle rappresentazioni ed aspettative dell’oggetto esponga al suo “impazzimento”.

Da questa puntuale e dettagliata disanima ne emerge la raffigurazione di un’organizzazione psichica che, guidata dal terrore paralizzante del ripresentarsi di un crollo già avvenuto (Winnicott, 1963) ma atteso nel futuro, si propone in una modalità difensivamente rifiutante ogni nuova esperienza relazionale di cui teme il carattere intrusivo ed insieme espulsivo, ombra dell’oggetto primario “folle” che ne ha sconvolto agli esordi l’economia affettiva e narcisistica, sottraendo fiducia e speranza nell’incontro soggettivante con l’alterità.

È da questo punto di vista che rilevante risulta essere il modo in cui lo psicoanalista si propone nella relazione, di come una disposizione costantemente attenta alle dinamiche transfero/controtransferali possa consentire la registrazione e la graduale trasformazione di eventi traumatici inscritti solo a livello della memoria implicita in elementi rappresentabili, depotenziandone progressivamente il loro potere suggestivo ed inconsciamente condizionante. Dal punto di vista tecnico importanza centrale riveste la funzione di holding, la possibilità di offrire al paziente l’esperienza di un oggetto emotivamente intelligente, vivo ma non troppo, almeno nelle fasi iniziali dell’analisi quando prioritaria risulta essere la caratteristica di stabilità ed affidabilità dell’oggetto. Nelle fasi successive sarà proprio la capacità dell’analista di “incarnare”, dando forma e leggibilità alle trame inconsce del paziente attraverso una sua continua e minuziosa elaborazione controtransferale, a costituire il mezzo principale per introdurlo ad una maggiore consapevolezza dei propri funzionamenti psichici, della fascinazione tossicomanica esercitata su di lui dalla fantasticheria e del danno che questa modalità illusoria ha potuto produrre nel contatto con la realtà e con le personali capacità rappresentative. È solo nella riacquisita fiducia nell’oggetto che può riattivarsi la spinta esplorativa e soggettualizzante, una volta riemersi dalla modalità dissociativa e dalla pervasiva confusione tra vero e falso, tra realtà interna ed esterna.

Discute il lavoro di Irene Ruggiero Alfredo Lombardozzi, membro Ordinario della SPI/IPA, che ne puntualizza il contributo mettendo in rilievo come la disposizione dell’analista al lavoro con questa tipologia di pazienti si poggi in misura cospicua sulla capacità di assicurare un ascolto attento che attinga alla dimensione corporea come canale privilegiato di trasmissione e ricezione di messaggi inconsci in attesa di una possibilità rappresentativa, principale via di accesso ad esperienze non integrate di eventi psichici depositati in un inconscio non rimosso. Citando un lavoro di Jessica Benjamin sul tema della sessualità, Lombardozzi propone di inscrivere l’eccesso di eccitazione sessuale descritto nel caso all’interno di una più generale difficoltà di regolazione affettiva, come esito di un’esposizione non ad una depressione materna ma al contatto con una madre eccitata e seduttiva, che trova soddisfazione narcisistica nell’eccitazione e nella successiva, violenta espulsione dell’oggetto. Il doppio movimento dell’atteggiamento materno si ritroverebbe nella dimensione sintomatica del fantasticare compulsivo come fuga dall’oggetto ma anche come ricerca di un oggetto irraggiungibile, che sfinisce nella ricerca di sé.

Correlato al sentimento di espulsione che il bambino può esperire è un vissuto di mostruosità (Neri, Pallier, Tagliacozzo,1990), precipitato della precoce e traumatica esperienza di rifiuto rispetto all’essere discordanti rispetto alle attese narcisistiche fusionali che non prevedono l’emergere di dimensioni di originalità ed autenticità. Seguendo questo filone associativo, Lombardozzi ci fa immergere nella trama di un film, “Border. Creature di confine” (2018), la cui protagonista femminile appartenente al mondo dei trools è solo attraverso una relazione feconda che riesce a riconoscere il proprio sentirsi diversa, a decodificare il suo senso di mostruosità, iniziando così un processo emancipativo, di consapevolezza e di ribellione rispetto a forze soggioganti e profondamente espulsive.

È grazie infatti - ci dice Lombardozzi – ad una ammirevole postura psico-corporea, come quella mostrata dall’analista nel succedersi del sedute, che si può cercare di attivare un altrettanto fertile scambio tra analista e paziente, speculare alla progressiva integrazione tra stati dissociati della mente della paziente. Ciò può avvenire sulla base di una preliminare sperimentazione di un ambiente costante ed affidabile che sia garante dello svolgersi di un processo di messa in crisi della prevalente organizzazione difensiva. La capacità negativa dell’analista che consente di tollerare l’attesa dell’emergere di funzioni più integrate, la sua presenza affidabile ma non intrusiva, costituiscono l’humus del suo lavoro in terreni in cui l’angoscia catastrofica legata alla rottura di fragili equilibri narcisistici è in grado di minare i processi evolutivi di soggettivizzazione, frapponendosi come un ostacolo rigido ed immobilizzante i processi integrativi di crescita psichica.

La mattinata si conclude con una vivace discussione sui temi emersi nelle relazioni, con particolare attenzione alla dimensione di attualità che questa organizzazione psichica sembra rivestire oggi, data la sempre maggiore evidenza clinica di situazioni di ritiro sociale in cui si sperimentano modalità relazionali con uso prevalente se non compulsivo di sistemi di rete, a difesa dall’urto, percepito come disorganizzante, delle relazioni reali. L’intervento di Jones De Luca pone in evidenza l’estrema difficoltà della posizione dell’analista chiamata continuamente ad oscillare tra una presenza, in grado di attivare angosce persecutorie legate all’oggetto narcisistico materno, e la non presenza, come attenuazione della soggettività dell’analista vista quale elemento di interferenza nel campo relazionale, in bilico costantemente tra il fare troppo con il rischio di rompere il legame, ed il fare troppo poco, con la disperante sensazione di non poter ricostruire il diritto di esistenza nel paziente.

Mentre Di Luzio sottolinea la necessità di creare uno spazio di ascolto anche per le figure genitoriali, strettamente implicate in questa dinamica relazionale e potenzialmente ostruenti il percorso soggettivante della paziente, M. A. Lupinacci propone una distinzione tra i concetti di separazione e separatezza, come aspetti entrambi necessari al processo individuativo in cui tuttavia l’idea di una separatezza psichica rispetto all’oggetto originario può costituire un passaggio preliminare e necessario per ridurre il dolore e i sentimenti di colpa connessi al processo di differenziazione, vissuti che si pongono come un ulteriore elemento di intralcio al raggiungimento di una posizione separata, finalmente al sentire di “esserci” nel mondo.

 

 

 

Bibliografia

Bion W. (1963), Gli elementi della psicoanalisi. Armando, Roma,1973.

Bolognini S. (2008). Passaggi Segreti. Bollati Boringhieri, Torino.

Kaes R. (1993). Introduzione al concetto di trasmissione psichica nel pensiero di Freud. In: R. Kaes, H. Faimberg, M. Enriquez, J.J. Baranes (a cura di) Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Borla, Roma, 1995, pp. 33-76.

Rousillon R. (2010), The deconstruction of primary narcicism. Int. Journal of Psychoanalysis, vol. 91,821-837

C.Neri, L.Pallier et al.(1990), Fusionalità. Scritti di psicoanalisi clinica. Borla, Roma.

Winnicott D. (1971) Sogno, fantasia e vita reale. In Gioco e realtà. Roma, Armando 1974.

Winnicott D. (1963) La paura del crollo. In Esplorazioni psicoanalitiche. Milano, Raffaello Cortina,1995.

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