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Report di Jones De Luca e Monica Marchionni su “Cambiamenti Climatici. Crisi ambientale, angosce e forme della negazione” (Roma, 9 e 10 novembre 2019)

Con il saluto di Gianfranco Meterangelis Presidente del Centro di Psicoanalisi Romano, si è aperto, nella sede della Società Psicoanalitica Italiana, il convegno “Cambiamenti Climatici. Crisi ambientale, angosce e forme della negazione”. Un convegno innovativo e multidisciplinare su un tema dirompente nella vita e nella psiche di tutti.

Introduce e coordina il convegno Alfredo Lombardozzi, psicoanalista, antropologo, che, in qualità di Segretario Scientifico del Centro, lo ha promosso e proposto per unire le forze e le visioni di discipline diverse. Pensare al problema del cambiamento climatico trascende i limiti individuali e dei gruppi di cui facciamo parte perché ha implicazioni sul piano della gestione delle risorse, degli squilibri nel sistema ecologico, delle problematiche economiche, sociali e psicologiche coinvolte. I meccanismi di negazione, diniego, le politiche e le posizioni negazioniste inducono ad approfondire il tema anche dal punto di vista del rapporto tra il mondo interno e la realtà esterna.

Già nel ’79 Gregory Bateson proponeva di vedere il problema della sopravvivenza umana nella sua relazione di stretta dipendenza tra organismo e ambiente e auspicava un nuovo modo di pensare e di agire che comprendesse il concetto 'organismo più ambiente'. Limitare la sopravvivenza di un individuo, un gruppo o un sistema vivente o culturale, solo alla sua stessa esistenza svincolata dalle dinamiche del sistema, avrebbe significato la distruzione dell'ambiente e dello stesso 'soggetto' che attivamente aveva operato in quella direzione. Bateson profeticamente temeva che se il genere umano non avesse acquisito un 'nuovo modo di pensare', nell'arco di trent'anni la situazione ambientale avrebbe assunto dimensioni critiche e preoccupanti.

Nel 2003 Vittorio Lanternari, un maestro negli studi etnologici e storico-religiosi, in 'Ecoantropologia' mostrava come l’uomo Occidentale nel suo antropocentrismo dogmatico ponesse al centro dell'esistenza e dei processi di sopravvivenza i bisogni umani, soprattutto collegati al profitto economico e al consumo, in un rapporto irrispettoso con la 'natura' in quanto 'alterità' da sfruttare. A questo è contrapposto l'ecocentrismo, che pone al centro la 'natura' in contrasto con l'azione dell'uomo rappresentata da movimenti con una dimensione 'spiritualista' dell'ecologia profonda. Lanternari invita a superare questa dicotomia e ricercare una sintesi nel “eco antropo-centrismo” che consenta una relazione di scambio produttivo tra forme naturali dell'esistenza e forme di umanità. Il 'luogo psichico' diventa lo spazio dove fattori umani e non-umani entrano in relazione tra loro in modi molteplici, che siano di risonanza o di conflitto, e da cui scaturiscono fratture e conseguenti possibili riparazioni. Una cornice teorica di questo tipo, delimitante ma anche flessibile è fondamentale per poter far fronte alle diverse reazioni che l'urgenza ecologica e ambientale genera sul piano emozionale, nelle risposte teoriche e nelle soluzioni di politiche sociali, economiche ed ambientali. Ad esempio è diversa la valutazione dell'uso e del ruolo della tecnologia e delle forme economiche correlate a seconda se ci si ponga in posizioni radicalmente critiche, che vedono nella tecnologia una reificazione della 'mentalità' neoliberista, oppure se con Jeremy Rifkin, si ipotizza uno sviluppo generativo, a livello delle relazioni in rete e attraverso gruppi che si auto-organizzano in essa, per ottimizzare sia le comunicazioni che i processi di produzione minimizzando l'impatto ambientale. Si è colpiti e anche sconcertati dall'enorme complessità che ci troviamo di fronte nel momento in cui ci soffermiamo a riflettere. Siamo di fronte ad una realtà che ci dà la netta sensazione di essere “fuori controllo”.

Il premio Nobel Paul Crutzen coniò nel 2000 il termine Antropocene per l'attuale epoca geologica in quanto l'attività dell'Homo Sapiens è divenuta, dalla rivoluzione industriale in poi, un fattore di impatto talmente significativo sugli equilibri ecologici della terra da trasformare in senso radicale il clima e la configurazione del globo. Come suggerisce Telmo Pievani, nel suo recente libro 'La terra dopo di noi', il problema è che, non solo si stanno verificando in modo accelerato estinzioni su larga scala di specie animali e vegetali come mai è avvenuto prima, ma lo stesso genere umano mette in pericolo, con i suoi comportamenti ciechi e negazionisti, la sua stessa sopravvivenza, creando le condizioni della propria estinzione.

Lombardozzi propone di ampliare il concetto Kohuttiano di 'oggetto-sé culturale' in un nuovo concetto di 'oggetto-sé culturale ambientale'. Ipotizza che il destino del nostro 'futuro dipenda da quanto possano prevalere sentimenti e azioni volti a mettere in atto scelte riparative, anche sul versante psicologico, del danno che i comportamenti umani hanno provocato. I movimenti recenti del 'Friday for future' e l'aumento dell’utilizzo di energie rinnovabili ci fanno ben sperare, ma non sono sufficienti se non si creano le condizioni per smontare le politiche negazioniste e se non si opera, anche capillarmente, per mettere in luce quali siano i modi di negazione o diniego, che in misura diversa ognuno di noi contribuisce a mettere in atto. La comunità degli scienziati e il movimento giovanile di Greta denunciano che 'il tempo stringe' e in parte il danno è già fatto. I meccanismi di difesa, che lo scrittore Amitav Ghosh ha chiamato la 'Grande cecità', non sono più funzionali. Ritrovare una dimensione Etica per garantire alle nuove generazioni di arginare i cambiamenti climatici faciliterebbe il sentimento di sentirsi 'tutti nella stessa barca', un modo per contrastare il senso della fine del mondo senza riscatto, come ci ha insegnato Ernesto De Martino, nelle sue note sulla “Fine del mondo”, che ha ben descritto come la fine della 'natura' è anche, e soprattutto, la fine di ogni possibile forma culturale.

Il primo intervento, Le città e i cittadini di fronte a un clima che sta cambiando è di Edoardo Zanchini, Vicepresidente nazionale di Legambiente, Professore associato in Pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale, membro del Consiglio direttivo di FREE (associazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica) e del Board del Renewable Grid Initiative.

Siamo partiti dagli impatti dei cambiamenti climatici sulle realtà in cui la maggior parte di noi vive, le città. Il clima è già cambiato, ora è tempo di nuove politiche urbane, di una nuova visione che esca dai confini della scienza e si occupi anche delle comunicazioni ai cittadini e delle emozioni provocate. Con l’aumento del caldo medio si creano frequenti emergenze nelle città, quali ondate di calore e alluvioni. Come gestirle? Innanzitutto con la conoscenza della mappa del rischio climatico (www.cittaclima.it), con strategie e piani di adattamento alla crisi climatica negli spazi pubblici, nei quartieri e attraverso la comunicazione tempestiva degli allarmi. Abbiamo degli esempi concreti di buone pratiche, come il Piano di Rotterdam contro le alluvioni, che testimoniano che possiamo ripensare allo spazio pubblico, possiamo immaginare nuovi progetti urbani, includendo il ruolo del verde e coniugando prevenzione ambientale, architettura, fattori sociali in nuove politiche urbane. Ad­ esempio l’impatto delle ondate di calore sulla salute delle persone non è uniforme in tutte le aree urbane. Tra differenti zone ci possono essere anche 4°C di differenza di temperatura notturna per effetto dell’isola di calore e del tipo di urbanizzazione. Anche l’accesso a risorse idriche o a impianti di condizionamento è molto differenziato per motivi economici. Ci sono quartieri e fasce di popolazione più a rischio. I poveri e alcuni anziani rischiano la vita perché non hanno l’aria condizionata. La gestione delle crisi permette di ridurne la pericolosità: il numero dei morti per il caldo molto intenso nel 2019 è stato assai inferiore di quello degli anni precedenti, come a Parigi nell’estate 2003, perché gli attori sociali e la popolazione sono più preparati a gestire il problema. Molti dei disastri potrebbero essere prevenuti se le persone riuscissero ad avere avvertimenti tempestivi di condizioni meteorologiche avverse, infrastrutture migliori come le difese contro le inondazioni o l’accesso all’acqua in caso di siccità e i governi avessero più consapevolezza delle aree più vulnerabili. L’Italia è un paese ad altro rischio idrogeologico per gli impatti di vario tipo del Cambiamento Climatico. Oltre 40 mila beni culturali e quasi ottantamila opere d’arte in Italia sono a rischio alluvione per il rischio climatico: Venezia ma anche Roma, e Firenze.

La possibilità di un qualche adattamento alla crisi climatica può spingerci ad un falso autocompiacimento, all’idea di non aver bisogno di ridurre le emissioni perché tanto potremmo adattarci agli effetti, o a spingerci ad assuefarci al “tanto non possiamo farci niente” che diventa un rumore di fondo. Ma non è così.

È intervenuto poi Cosimo Schinaia, psicoanalista, genovese di adozione, membro ordinario con funzioni di training SPI e IPA; Psicoanalisi ed ecologia da Freud ai giorni nostri.

Il suo intento, ripercorrendo alcuni punti della storia del pensiero psicoanalitico e proponendo il suo originale contributo, è stato “quello di mostrare come la psicoanalisi possa essere una risorsa preziosa da sfruttare per approfondire lo studio dei meccanismi di difesa individuali e comunitari nei confronti della presa di coscienza dei gravi problemi ecologici dell’oggi.”

Figli del proprio tempo, gli psicoanalisti riflettono le possibilità di pensiero psicoanalitico della loro epoca. Freud, mentre descriveva una Natura da amare e da rispettare, affermava anche che l’uomo nella sua inevitabile precarietà doveva proteggersi da una Natura crudele e matrigna, dalla forza soverchiante, selvaggiamente disordinata. In “Caducità” (Freud,1915) suggeriva come l’ambiente e gli oggetti affettivamente investiti potessero essere esperiti in un clima di perdita incipiente e di paura incombente della fine.

Harold Searles (1960), negli anni in cui incombeva la minaccia atomica e la paura della distruzione del pianeta, aveva provato a dare senso e valore all’ambiente “non umano”, all’habitat quotidiano, amplificando le intuizioni di Donald Winnicott e facendo riferimento alla teoresi kleiniana.

Winnicott in Il muro di Berlino (1986) aveva proposto un concetto di sostegno ambientale e dei suoi effetti sullo sviluppo delle persone, sostegno che rende capaci di “sopravvivere” alle paure di disintegrazione e a tenere insieme i conflittuali bisogni di stare soli e di essere in relazione con gli altri, favorendo la costituzione di un vero Sé e alimentando l’esperienza di essere autentici e interi.

Searles descriveva all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, un senso di colleganza con l’ambiente non umano, di intima affettività tra i processi della vita umana e quelli ambientali, che deve essere riconosciuto e rispettato per il benessere psicologico, per alleviare la solitudine esistenziale nell’universo. Questo senso di colleganza dell’umano con il non umano ha cominciato ad essere distorto o interrotto in concomitanza con il deterioramento ecologico che provoca angosce e difese di diverso ordine. A questo punto “Il pericolo maggiore risiede nel fatto che il mondo si trova in una condizione tale da risvegliare la nostra reale angoscia primitiva e, nello stesso tempo, da offrire la delirante ‘promessa’, questa davvero mortale, di alleviare tali angosce, di affrontarle, cancellandole attraverso la completa esteriorizzazione e reificazione dei conflitti primitivi che le producono” (H. Searles 1972/1979, p. 182).

Dopo un lungo periodo di silenzio le riflessioni psicoanalitiche sulla catastrofe ecologica vengono riprese negli anni 2000 da quattro autori, due dei quali sono relatori di questo convegno.  

Sally Weintrobe (2013, pp. 7-8) suggerisce che, quando ci confrontiamo con il cambiamento climatico, entrano in gioco tre differenti forme di rifiuto: il negazionismo, il diniego e la negazione. Ognuna di queste forme implica effetti differenti.

 

1.        Il negazionismo è una modalità difensiva organizzata e pianificata in termini grandemente cinici, ha alla base la protezione di importanti interessi economici, e mette in discussione le stesse scoperte scientifiche in tema di cambiamento climatico.

2.        La negazione comporta l’affermazione che qualcosa “non c’è veramente”, quando invece è vero che c’è, e ci aiuta difenderci dall’angoscia e dalla perdita. È una modalità di rifiuto che si costituisce come il primo stadio transitorio del lutto nell’accettazione di una realtà dolorosa difficile da sopportare. L’individuo dice “no” alla realtà, ma non la distorce.

3.        Il diniego presenta un problema più serio, in quanto contemporaneamente sappiamo e non sappiamo. Da un lato la realtà è conosciuta e accettata; dall’altro, con una sorta di alchimia psicologica, il suo significato è fortemente minimizzato. Nel tempo questa modalità difensiva risulta particolarmente pericolosa e intrattabile perché le nostre difese tendono a diventare sempre più rigide e radicate in relazione al crescere delle angosce.

 

 

Qui Schinaia concorda con Weintrobe nell’evidenziare come la serie di imprevedibili sistemi interconnessi e complessi che sono in gioco nel cambiamento climatico, stimoli le paure e le angosce degli individui, dei gruppi e delle comunità a livello nazionale e globale. I meccanismi di difesa, le tattiche intrapsichiche prese in esame per tenere a bada l’angoscia travolgente in relazione al disastro ecologico, sono di impedimento alla costituzione di risposte costruttive e alla mobilizzazione di energie riparative. Ci si chiede se l’aumento dell’angoscia sia una risposta all’enormità del problema, dalla cui insostenibilità bisogna difendersi, oppure sia in relazione al fatto che il problema viene percepito come talmente astratto da restare incomprensibile per la scala emotiva umana: conclude che probabilmente i due fattori operano simultaneamente.

Il secondo autore segnalato da Schinaia, Renee Lertzman (2015), introduce l’idea di una “melanconia ambientale” per descrivere la condizione di lutto inelaborato in relazione agli effetti del cambiamento climatico. Non si tratta di apatia (mancanza di pathos) o di mancanza di consapevolezza, quanto del fatto che il sentire troppo e troppo intensamente porterebbe alla paralisi e alla sensazione di impotenza ad agire. Renee Lertzman si oppone quindi al cosiddetto “mito dell’apatia”, allo sbarramento emotivo, all’anestesia affettiva presunta dalla maggior parte delle campagne ecologiste, secondo cui la gente non si dà da fare perché non se ne cura. Non solo non è assente la preoccupazione, ma anzi essa è talvolta presente in eccesso e connessa a complesse difese inconsce.

Schinaia arricchisce poi il suo contributo attraverso osservazioni tratte dalla clinica, mostrando come differenti aspetti nevrotici della personalità e differenti storie personali entrino fortemente in gioco nel rapporto dell’uomo con “rifiuti”, “spreco” e “dissipazione”, con l’inquinamento e con i suoi relativi significati simbolici, determinando atteggiamenti inadeguati, incoerenti e talvolta rischiosi in relazione al proprio benessere psicofisico, oltre che a quello delle altre specie, e del pianeta in generale. In particolare, riporta alcune osservazioni sullo spreco d’acqua implicato negli aspetti nevrotici e difensivi di un eccesso di igiene. Un caso clinico permette di vedere quanto lo stile di vita individuale, in storie personali dolorose, possa dipendere da vissuti affettivi e fantasmatici e dalla riedizione di conflitti emotivi irrisolti. Permettere un contatto ravvicinato ma protetto con i traumi profondi, favorisce attraverso la loro elaborazione non solo esistenze più serene, ma porta anche a comportamenti ambientali più adeguati, a una ri-assunzione di responsabilità individuale, in un orizzonte di senso che faccia riferimento rigorosamente al principio di realtà, opponendosi allo scetticismo di chi pensa che il singolo sia condannato all’impotenza, rinchiuso in una sorta di melanconia ambientale suicida.

Gli sforzi immediatamente diretti a proporre soltanto azioni pratiche di cambiamento ambientale, se per di più sono anche colpevolizzanti e terroristici, rischiano di fallire perché non tengono conto dei confusi investimenti affettivi, delle memorie, dei desideri e delle angosce delle persone.

Campati per aria. Culture nei cambiamenti climatici, tra dinieghi e desideri, è il titolo dell’intervento di Mauro Van Aken, Professore associato in Antropologia della Contemporaneità e Antropologia Economica e Sviluppo presso l’Università Milano-Bicocca.

I cambiamenti climatici emergono come intensa, minacciosa e intima questione culturale perché pongono al centro la crisi del concetto occidentale di natura e le relazioni, ecologiche e culturali che intratteniamo con altri soggetti non-umani. Queste relazioni erano invece valorizzate storicamente nelle più diverse culture. I cambiamenti climatici aprono una questione non solo geofisica, ma innanzitutto culturale per comprendere le cause dell’inazione sociale, dell’“impensabilità” di ambienti che cambiano, di oggetti del mondo che riemergono come soggetti di relazione nella loro dimensione perturbante, di processi sociali di diniego della nostra interdipendenza e intimità ambientale.

Culturali sono anche i gas serra climalteranti, invisibili ma prodotto della nostra tangibile economia del carbonio, base identificante di idee di modernità, di individuo, di finalità della storia e del tempo. La CO2 è il nuovo soggetto politico. Culturali sono anche le relazioni sociali con il cielo, che oggi si staglia come minaccia incombente dall’alto dal momento che nell’immaginario dell’economia del carbonio abbiamo dissociato la terra dal cielo, tradotto in realtà secolare, logistica, meteorologica e statistica, senza sapere più “leggere” i segni e le relazioni che oggi irrompono nel cambiamento.

Le informazioni che arrivano alle persone sono troppo astratte e globali, non legate alle situazioni locali, per cui si fatica a dare loro un senso locale, collettivo e sociale perché non abbiamo le strutture di significato, i codici per pensarle. Molteplici culture da sempre coinvolte nel medium atmosferico hanno tradotto in familiare e significativo il flusso estraneo ed aleatorio dei mondi atmosferici (“weather world”) attraverso forme rituali, strutture simboliche, sistemi produttivi e saperi locali. Le culture sono state da sempre “campate per aria”: si sono orientate verso l’alto per definire i lavori (seminare, irrigare) e l’abitare “terra terra”. Noi abbiamo perso il significato di essere “campati per aria” - diventato un modo di dire dispregiativo - mentre nella sua accezione originaria, derivata dall’accampamento romano, essere “accampati per aria” significava scegliere dove accamparsi scrutando l’aria per prendere buone e tempestive decisioni militari. Noi abbiamo fatto del cielo, dell’aria, uno spazio di conquista, (aerei che conquistano i cieli) ma abbiamo perso il significato di essere campati per aria.

La costruzione culturale dell’era “Antropocene” ha separato il mondo naturale dal mondo umano negandone la interdipendenza per avere l’illusione di dominare la natura. Il dualismo tra natura e cultura ci ha tolto gli strumenti per pensare all’interdipendenza e ha fatto diventare la Natura un oggetto. Un oggetto però è solo un soggetto insufficientemente interpretato: “Natura” è un campo intersoggettivo.

Le osservazioni di Van Aken hanno focalizzato la carenza di strutture di significazione utili a socializzare i sentimenti evocati dai cambiamenti climatici che richiederebbero non solo di “discernere” quanto sta accadendo, ma anche di affrontare operazioni mentali complesse, quali il lutto per la perdita (di ghiacciai, di paesaggi intimi) e altro. Abbiamo vissuto la cultura di una Natura separata, ma questa cultura era un prodotto storico particolare. Ora siamo di fronte a un terremoto epistemologico: la divisione tra natura e cultura - che con il diniego ci ha permesso di immaginare di esserci liberati dall’avere relazione con ciò che ci circonda - non è più possibile.

Il pomeriggio si apre con la proiezione di un suggestivo video “La voce di madre Natura” e l’intervento introduttivo del moderatore Alberto Sonnino Membro ordinario SPI e IPA, presidente della Italian Council for a Beatiful Israel.  

La crisi climatica e la minaccia che ne deriva per il pianeta rendono necessario un impegno da parte di ognuno che può essere sollecitato solo dalla consapevolezza della gravità e dell’urgenza del problema. Nonostante l’OMS abbia stimato un incremento del 3% della mortalità per ogni grado di aumento della temperatura (ISDE, 2015), meccanismi di diniego ne oscurano la presa di coscienza: uno studio del 2014 mostra che negli U.S.A solo i 2/3 della popolazione ne ha consapevolezza; nel 2014 in Australia viene abolita la tassa che penalizza l’energia più inquinante, mentre il Global Young People Report del 2017 della Varkey Foundation mostra che i danni all’ambiente non sono ai primi posti tra le preoccupazioni di 20.000 giovani intervistati in 20 Nazioni diverse, anche se uno studio australiano del 2011 rileva un incremento dell’8% dei suicidi proprio a causa degli sconvolgimenti climatici (http://www.climateinstitute.org.au/verve/_resources/tci_aclimateofsuffering_august2011_web.pdf). Per sviluppare una coscienza ambientalista ed una sensibilità alla problematica ecologica, si impegnano oggi diverse associazioni con iniziative come quella promossa dal Centro di Psicoanalisi Romano, al quale Sonnino ha partecipato in veste di moderatore e Presidente dell’ICBI, derivazione italiana dell’associazione ambientalista Beautiful Israel, fondata nel 1968 per volontà di Shimon Peres e che si avvale di oltre 2000 volontari di tutte le religioni e di ogni schieramento politico per tutelare l’ambiente.

Sonnino riporta come, in linea con le indicazioni del Talmud che recita (Qohelet Rabbà 7): “Quando l’Onnipotente creò Adamo lo condusse a fare un giro nel giardino dell’Eden. Gli disse: <<Guarda le mie opere, quanto sono belle e meravigliose! Le ho fatte tutte per voi. State bene attenti a non spogliare e distruggere il mio mondo, perché se lo farete, nessuno potrà porvi rimedio>>” ed in sintonia con le prescrizioni ebraiche che impediscono lo sfruttamento continuativo della terra, che deve essere lasciata riposare un anno ogni sette, si ponga oggi lo Stato di Israele, primo Paese ad entrare nel XXI secolo con un bilancio attivo tra il numero di alberi piantati rispetto a quelli abbattuti, dove si è sviluppata la tecnica di “irrigazione a goccia”, che ha permesso a 150 Paesi nel mondo di aumentare del 40% i raccolti agricoli con un consumo d’acqua ridotto della metà e dove si dà forte impulso agli impianti di desalinizzazione, al riciclo delle acque reflue ed all’energia pulita, avendo ridotto l’uso del carbone dal 65% al 30% negli ultimi tre anni. L’impegno a difendere il Pianeta rappresenta il segno della capacità di tutelare le generazioni future, come insegna il Midrash che racconta di un vecchio intento a piantare un albero di carrube che risponde a quanti lo deridevano perché la sua tarda età non gli avrebbe permesso di goderne i frutti: “come i miei nonni hanno piantato quest’albero permettendomi di mangiarne i frutti, ora io pianto questo carrubo per far sì che i miei nipoti possano mangiarne i frutti”.

Segue poi l’intervento di Sally Weitrobe, Fellow della British Psychoanalytical Society, e socio fondatore della Climate Psychology Alliance: Vivere con i nostri sentimenti sul crollo dei sistemi planetari.

Questo intervento elenca e analizza i sentimenti che possiamo incontrare quando emergiamo dalla bolla del clima e vediamo la dimensione del danno.

Eco-angoscia: molte persone dicono di soffrire di “eco-angoscia” che, a meno che diventi paralizzante, è un segnale di vitalità; è un richiamo alle armi nel senso di affrontare la realtà e fare qualcosa. Dobbiamo sentirci più preoccupati e spaventati e distinguere tra due gruppi concorrenti di angosce: una riguarda ciò che perderemo se non cambiamo e l’altra ciò che perderemo se cambiamo.

Eco-rabbia: la rabbia può far parte di una reazione positiva quando si scopre la verità sulla distruttività ambientale e le falsificazioni dei media.

Eco-futilità e eco-lutto: ci sentiamo tutti paralizzati dalla futilità quando ci rendiamo conto che a nessuno importa niente di noi. Quando i governi non si occupano del nostro destino in presenza dei cambiamenti climatici il pericolo è che la nostra reazione sia l’eco-futilità. L’apparente apatia può essere un segno del fatto che la gente si preoccupa troppo o troppo poco o di melanconia ambientale, come affrontato da Schinaia in mattinata.

Solastalgia: coniato nel 2003 dal filosofo Glenn Albrecht, indica la sofferenza causata dal cambiamento ambientale. Nel 2015 la rivista medica The Lancet ha inserito questa voce nella sua lista degli effetti del cambiamento climatico sulla salute e sul benessere degli umani.

Eco-vergogna: molte persone si vergognano perché gli umani hanno danneggiato il pianeta.

Trauma climatico: sappiamo che persone, gruppi, intere popolazioni possono subire un trauma, che può far ricordare traumi precedenti dimenticati, può diventare cumulativo e i suoi effetti possono farsi sentire da una generazione all’altra. Il trauma supera la capacità di pensare. Le vittime di un trauma possono identificarsi con chi li ha traumatizzati possono trovare molto difficile sia ricordare che dimenticare, sia conservare la propria identità. Zhiwa Woodbury (2019) sostiene che il trauma climatico è “una categoria di trauma di ordine superiore. La nostra sola possibilità di affrontare il trauma climatico è prima di tutto ammetterlo”. D’altro canto non tutta la nostra dissociazione sul clima avviene perché è un trauma.

Trauma bellico: il trauma bellico, pur non essendo la stessa cosa del trauma climatico, ci può fornire una struttura utile per pensare a cosa proviamo sulla questione del clima.

Disturbo da stress postraumatico: la cornice della PTSD è utile perché mette in guardia sulla possibile sofferenza mentale in noi e negli altri. Introdotto dopo il ritorno dei veterani del Vietnam, è conseguenza del trauma che subiscono i soldati in cui il senso di sicurezza è stato distrutto nelle situazioni di prolungata attesa impotente di un evento traumatizzante imminente. Segnala, tra gli altri sintomi, l’“iperattivazione fisiologica”, stato in cui può capitare di rivivere costantemente il trauma nel presente e avere di conseguenza la sensazione che il pericolo possa colpire in qualunque momento. Adesso, nel momento in cui la bolla della negazione del clima sta scoppiando, molti di noi devono combattere con “l’insopportabile” ogni giorno e questo non può che influire sul nostro modo di pensare.

La psichiatra Lise Van Susteren considera il nostro stress in attesa dell’imminente crollo climatico come una forma di disturbo da stress pre-traumatico. “La gente comincia a chiedersi: dove potremo essere al sicuro? Chi si occuperà di noi?” Ciò può indurre rabbia, disperazione e paralisi, l’incapacità di fare le cose oppure un congelamento delle emozioni.

Alcuni di noi si aspettano di essere immediatamente colpiti dal crollo climatico, mentre altri lo stanno già vivendo. Scrive Jim Bendell (2018): “Quando non ci sarà più la corrente elettrica, l’acqua non uscirà dal rubinetto, dipenderete dai vicini per avere del cibo e per scaldarvi. Diventerete malnutriti. Non saprete se valga la pena restare o andare via. Avrete paura di morire di morte violenta prima di morire di fame.” Bendell immagina il tipo di cose che probabilmente succederanno se il nostro sistema di vita crollerà e pensa che le sue immagini ci possano aiutare a superare quello che lui chiama “la negazione del crollo”.

Abbiamo bisogno di immagini, ma abbiamo anche bisogno di essere consapevoli che certe immagini possono indurre reazioni traumatiche.

Quando un membro di Extinction Rebellion ha chiesto come dire alla gente della possibile estinzione senza traumatizzarla, Sally Weitrobe gli ha risposto che, pur non essendo facile sapere come, quello che conta è se si riesce a dare un’immagine sincera del futuro mostrando che ci importa o se invece lo facciamo in modo casuale senza tenere conto di quello che la gente prova.

Riporta poi quello che ha sentito dire a un bambino “A scuola oggi ci hanno detto che il mondo sta per finire. È vero?” La mamma ha risposto “Ma no che non è vero!”. Questa risposta così audace ha abbandonato il bambino. Un ricercatore ha notato che alcuni bambini immaginano il cambiamento climatico come un mondo che esplode. Il mondo che esplode è una di queste immagini traumatiche iconiche? Un giornalista ha chiesto ai bambini di età compresa fra i 6 e i 12 anni di disegnare come immaginano sarà il mondo tra cinquant’anni e ne ha ricevuto quasi solo immagini apocalittiche (Irene Baños Ruiz, 2017).

Immaginare un’esplosione non è necessariamente un segno di trauma. Può essere un atto di contenimento, il modo migliore per simboleggiare l’esperienza della rabbia che scoppia al di fuori dei suoi confini. La rabbia, però, quando fa parte di una reazione traumatica, può essere senza amore e allora tenderà verso azioni di odio, lamentele distruttive e ripetitive e identificazione con l’aguzzino. È per questo che dobbiamo prestare molta attenzione al fatto se ci sentiamo traumatizzati o meno.

Danno morale: Studiare le storie dei veterani di guerra che si trovano a subire un “danno morale” mostra uno schema comune: il senso di essere stati traditi da capi che hanno idealizzato la situazione e nascosto la verità, che hanno svalutato la vita e che hanno mentito; l’impotenza di sentirsi intrappolati in una grande macchina che impedisce di esercitare la nostra coscienza e di agire in modo solidale; il crollo degli ideali interiori e l’essere travolti dal senso di colpa e dalla vergogna; il sentire che le esperienze e il senso di realtà sono cancellati e non contano nulla. Qualcosa di simile succede anche con il problema climatico. L’economia globale oggi struttura il modo in cui le persone vivono e le fa sentire in conflitto con la normale correttezza umana. La vita di tutti giorni è carica di dilemmi morali: vado in macchina o con l’autobus? Compro la verdura fresca che è arrivata in aereo con un pesante costo in termini di anidride carbonica? Mangio quel pollo sapendo che ha vissuto una vita pietosa in un allevamento automatizzato (la parola neoliberale per una grande fattoria)? Compro questo libro online da una società che assume le persone con contratti a ore? Cosa faccio quando quasi tutto quello che vedo al supermercato è confezionato in un contenitore di plastica o avvolto in una pellicola di plastica? Il solo fatto di vivere in questo mondo è dannoso. Come posso vivere con il senso di colpa e la vergogna di partecipare a tutto questo? So che il mio tipo di vita oggi sta causando un rapido crollo dei nostri sistemi vitali.

Il danno morale è lo shock traumatico che provano i soldati quando si rendono conto che la guerra che stanno combattendo è immorale e che partecipando hanno agito contro la loro stessa coscienza. Provare un danno morale è un segno di salute mentale, non di malattia. Significa che la coscienza è ancora viva.

Lo psichiatra delle associazioni dei veterani Jonathan Shay ha usato un termine dal greco antico per descrivere il danno morale. È la violazione della “themis”, cioè di ciò che è giusto, corretto e normale. “I veterani di solito riescono a guarire dall’orrore, dalla paura e dal dolore quando tornano alla vita civile solo se ciò che è giusto non è stato violato”.

Quando hai la PTSD il tuo mondo non è più sicuro. Con il danno morale il tuo mondo non è più morale. Quando PTSD e danno morale compaiono insieme, come spesso avviene, le due più fondamentali basi della cura, rappresentate dalla sicurezza e dalla fiducia, sono distrutte.

Cristallizzazione della coscienza: la guarigione mentale comincia con la capacità di tracciare una linea morale nella sabbia. Oggi molte persone riferiscono sentimenti di rabbia e di impotenza quando vedono che i nostri governanti attuali non sono tanto preoccupati del futuro delle nostre vite e della vita stessa. La “themis”, il senso di ciò che è giusto, comporta essere capaci di avere abbastanza fede nei governanti e i momenti di cristallizzazione della coscienza avvengono quando ci rendiamo conto che la nostra fede è stata malriposta. Primo Levi ha scritto che trovarsi impotente e incapace di aiutare gli altri è una cosa traumatica in sé.

Guarigione: Herman, che ha studiato le persone sopravvissute al trauma, sostiene che l’azione sociale si è dimostrata il più potente antidoto all’esperienza traumatica. Essa crea un’alleanza con gli altri basata sulla collaborazione e su un obiettivo condiviso e fornisce protezione dal dolore e dalla disperazione. Medicare e riparare il danno morale comporta il lavoro psichico di affrontare il rimorso, cercare il perdono, provare una nuova comprensione della propria responsabilità e saperla collocare in un contesto più ampio. È in questo modo che gli ideali distrutti possono essere ricostruiti e si può ritrovare una “themis” fra le cicatrici. Il veterano americano Wesley Clark ha guidato una cerimonia a Standing Rock con i veterani dell’esercito e ha chiesto perdono ai nativi americani: “Non vi abbiamo rispettato, abbiamo inquinato la vostra terra, vi abbiamo ferito in tanti modi ma siamo venuti a dirvi che vi chiediamo scusa. Siamo al vostro servizio e vi preghiamo di perdonarci”.

I veterani cercavano di riparare i loro ideali distrutti ma anche quelli del loro paese. Si sono assunti la responsabilità del trauma causato in passato dai loro predecessori nell’esercito americano. L’autrice crede che sia necessario respingere l’Eccezionalismo, l’ideologia che ha predominato nella storia e non solo oggi, in uno sforzo collettivo di elaborare il lutto, il rimorso e di assumerci la responsabilità della storia. È molto importante che questo venga fatto in uno spirito di perdono per sé stessi e per gli altri. Non è facile chiedere perdono per la terra che abbiamo saccheggiato e inquinato perché la terra tace. Un principio della saggezza dei nativi americani ci potrà aiutare a trattare la terra come una madre che onoriamo e rispettiamo, e potrebbe permetterci di parlare più facilmente alla terra e sentirci ascoltati.

Joshua Casteel, un inquirente dell’esercito americano ad Abu Ghraib, prima di dichiararsi obiettore di coscienza, ha detto “Dobbiamo preoccuparci moltissimo delle decisioni che ognuno di noi deve prendere nei momenti di grande disagio”. I momenti di grande disagio per Casteel esistono nella vita e nell’esercito. Avvengono quando l’azione morale ha conseguenze reali e porta a disagio reale.

Noi, in quanto ultimo gruppo di persone che può combattere per affrontare il riscaldamento globale viviamo in un periodo di grande disagio. Possiamo decidere di partecipare alla lotta o possiamo descrivere la realtà col pensiero onnipotente e continuare a pensare che viviamo in un momento di grande tranquillità come normali consumatori. Perché anche noi non facciamo eccezione. Cian Westmoreland, che aveva lavorato come tecnico nel progetto “reaper drone” (il drone della morte), ha detto che le persone che si fanno guidare dalla loro eccezionalità interiore “devono sapere che il modo in cui vivono ha un impatto molto più duraturo e più profondo di quello che vedono. Viviamo in mondi illusori in cui non siamo esposti alle conseguenze violente di ciò che facciamo”.

Valeria Termini,Professore ordinario di Economia politica all’Università di Roma Tre, è stata Commissario dell’Autorità di regolazione per l’Energia in Italia e in Europa (2011 – 2018)

La trasformazione energetica per la difesa del pianeta 

I cambiamenti climatici sono talmente reali che devono essere valutati nei loro impatti sulla salute e sulla economia. Tale realtà è stata a lungo negata ai fini del profitto, con una cecità volontaria consapevole”. Il fatto che sia l’azione umana ed in particolare siano le emissioni antropiche di gas serra, a provocare il riscaldamento climatico globale è però ormai scientificamente certo.

La responsabilità intergenerazionale per le conseguenze di questi cambiamenti sull’ambiente futuro impone la necessità di soluzioni condivise. Tutte le nazioni e tutti gli individui sono coinvolti.

L’accordo del 2015 sulla lotta ai cambiamenti climatici di Parigi ha visto quasi tutti i paesi, inclusa la Cina, accettare un impegno ad intervenire per ridurre le emissioni. Dopo la sua elezione, il Presidente Donald Trump ha ritirato l’adesione degli Stati Uniti dal trattato per proteggere gli interessi legati all’industria del carbone e del petrolio. Nonostante ciò, molti stati degli USA che hanno politiche autonome, perseguono l’obiettivo di combattere il cambiamento climatico.

Nel paradigma dominante il mercato e il consumatore sono i soggetti eterni e indisturbati. Nelle teorie liberiste, ciascun individuo e ciascuna istituzione della società massimizza la propria utilità singola, consentendo di conseguenza alla collettività di raggiungere il massimo livello possibile di utilità. Ogni persona adotta il comportamento che massimizza la sua utilità personale (misurabile) e riduce le sue pene e sacrifici. Le persone considerano solo l'interesse individuale, non quello sociale o della classe di appartenenza o del contesto.

Già a partire dalla fine dell’800 vennero però introdotte norme che regolamentavano e limitano il potere delle grandi corporazioni per salvaguardare la libera concorrenza e l’interesse generale. In seguito alla crisi del 1929 si manifestò la fallacia della convinzione che i mercati si autoregolino. Solo il New Deal e l’applicazione delle pratiche keynesiane consentirono di uscire dalla crisi.

Durante gli anni di Reagan e Thatcher invece, la filosofia politica e le politiche economiche introdussero una deregolamentazione, in particolare del settore finanziario, dei mercati del lavoro flessibili, della privatizzazione delle aziende statali e della riduzione dell'influenza dei sindacati. Tutto ciò è stato accompagnato da una forte globalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali e da un approccio sospettoso e scettico verso la cosa pubblica.

La grande trasformazione energetica richiesta oggi per rispondere ai pericoli del cambiamento climatico è un’opportunità di cambiamento dei sistemi economici, produttivi, sociali e culturali. Il 1900 è stato il secolo del petrolio innovando e cambiando il mondo in pochi anni. Il 2000 è il secolo della rivoluzione delle fonti rinnovabili di energia e della rivoluzione digitale. Pensiamo all’automobile del futuro prossimo che potrà essere elettrica, interconnessa e con tecnologie di prossima invenzione. La transizione sta avvenendo in modo rapido e riguarda anche aspetti quali la responsabilità dell’individuo sull’uso e consumo dell’energia, l’equità transgenerazionale, il nuovo accesso alla elettricità del miliardo di esseri umani a tutt’oggi al buio, in particolare in Africa. Tutto ciò non è senza rischi. Il cambiamento modifica gli attuali scenari di produzione e consumo introducendo per molti prodotti nuovi sfruttamenti. Ad esempio, la produzione delle batterie per auto elettriche può portare minori a lavorare nelle miniere di proprietà cinesi in Congo.

Occorre affrontare e superare barriere importanti che solo collettivamente possono essere affrontate. Quattro le principali: la dimensione globale del problema, la prospettiva di lunghissimo periodo, l’irreversibilità dei fenomeni e le opposizioni economiche e politiche.

La domenica si apre con Luc Magnenat, Docente e membro supervisore della Swiss Society for Psychoanalysis, dell’International Psychoanalytical Association. Pensare come una montagna, pensare edipico: un contributo psicoanalitico all’etica ambientale”.

In che modo la psicoanalisi può contribuire ad affrontare il cambiamento climatico? La pratica psicoanalitica ci insegna essenzialmente due cose utili in tal senso. La prima è che l’uomo è governato dal suo Inconscio. La seconda è che l’etica e il lavoro della cultura hanno origine nella situazione edipica che è al cuore del nostro funzionamento psichico. I tabù dell’incesto e dell’omicidio sono inerenti a questa situazione edipica la cui instaurazione, durante la nostra infanzia, consente di costituire la società. È nel crogiuolo edipico che Zeus forgia le catene di Prometeo.

Possiamo utilizzare la lente della lettura edipica, centrale nel pensiero psicoanalitico tradizionale, per guardare il modo in cui l’umanità aggredisce il pianeta che ci ha generato e da cui dipendiamo per il futuro.

Ne l’Edipo Re di Sofocle, Tebe si confronta con una catastrofe, la Peste, da cui prende avvio l’indagine edipica. In questa narrazione, Tebe – e il suo re, la sua regina, i suoi oracoli – si mostra parzialmente ostruttiva – pensiamo a Tiresia – parzialmente aperta – pensiamo a Edipo – al caos traumatizzante indotto da questa catastrofe naturale. Si avvia un lavoro del pensiero, un lavoro della cultura che trasforma questo caos in una nuova organizzazione edipica. Un analogo lavoro ci attende oggi con la crisi ambientale.

Come bambini onnipotenti nella biosfera, ai quali la scienza e la tecnologia hanno conferito una forza inaudita e l’economia il suo impulso sfrenato, gli esseri umani non riescono a percepire i limiti entro i quali condurre la loro azione. L’umanità prende coscienza del rapporto inedito e distruttivo che intrattiene oggi con l’ambiente da cui dipende, solo di fronte ad un “no” detto biogeofisicamente all’umanità stessa, per esempio attraverso un riscaldamento climatico fuori controllo (e che divenisse irrimediabilmente incontrollabile).

Questo perché il nostro funzionamento psichico è preso in un terribile paradosso: da una parte noi abbiamo un bisogno vitale di etica affinché le nostre pulsioni ed emozioni siano contenute dentro limiti compatibili con la vita nella società, dall’altra le frustrazioni derivanti dalla rinuncia alla piena soddisfazione delle nostre pulsioni ci fanno odiare l’etica che tuttavia ci umanizza. Questo conflitto è sia intimo, individuale, che sociale.

I tabù dell’incesto e dell’omicidio sono inerenti alla situazione edipica la cui elaborazione durante la nostra infanzia consente di “ampliare la famiglia” e costituire la società. Un pensiero analogo, orientato alla nozione di comunità biotica, potrebbe avere come conseguenza di farci entrare in una famiglia ecosistemica allargata, aggiungendo delle nuove orbite all’esterno della comunità umana. Esse dovrebbero essere accompagnate da nuovi obblighi concernenti i membri non umani di questa comunità allargata e imporci una riflessione etica ambientale, poiché tutte le misure pratiche, personali o politiche, non possono derivare che da una posizione morale. La situazione edipica costituisce la nostra piattaforma umanizzante e la nostra piattaforma di apparentamento al non umano.

L’estinzione di massa delle specie che è in corso, l’omicidio di massa nella nostra confraternita biotica, si dispiega in un relativo vuoto di etica e di giurisdizione.

Ciò che insegna un secolo di lavoro psicoanalitico è che mai Prometeo, l’Es, la nostra vita pulsionale e emozionale, la parte più narcisistica della nostra personalità, è «definitivamente libero dalle catene». Sempre Prometeo incontra uno Zeus che gli pone nuovi limiti, infatti Zeus porta i nuovi nomi che la psicoanalisi ha scoperto per lui: l’«Io» e il «Superio», queste istanze della nostra personalità che nascono dalla situazione edipica.

Il titolo della relazione, Pensare come una montagna, si ricollega al titolo di un racconto contenuto nel Almanacco di una contea di sabbia di Aldo Leopold, ingegnere forestale, sull’esperienza della transizione della Grande Prateria dell’Ovest americano, trasformata da angolo di abbondanza in terra scorticata. Nel racconto, Leopold, dopo l’agognata uccisione di una lupa durante la caccia, capirà che l’estinzione dei lupi comporta un danno all’ecosistema perché la conseguente moltiplicazione dei cervi fa sì che questi ultimi, brucando la montagna, la desertifichino: «solo la montagna ha vissuto abbastanza a lungo per ascoltare in maniera oggettiva gli ululati dei lupi». La storia, che si conclude con la rinuncia alla caccia, è un esempio di «pensare edipicamente» che conduce ad un maggior rispetto della vita ecosistemica. Pensare come una montagnaè la proposta di allargare la visione etica dalla comunità umana alla comunità biotica degli ecosistemi ai quali noi apparteniamo.

Per definizione, la natura è sessuale. Essa comprende tutte le creature viventi che nascono e si sviluppano come il suolo, l’acqua, l’aria di cui queste creature assicurano il ciclo. Tuttavia, come rileva Hanna Arendt, noi scopriamo che l’umanità è capace di innescare dei nuovi processi che «fanno la natura» rendendola artificiale. L’uomo si sostituisce alla sessualità matriciale della biosfera, e noi potremmo vedere la crisi ambientale come il risultato di un incommensurabile attacco contro la sessualità ecosistemica della biosfera. Di conseguenza, “non è ormai più soltanto l’uomo che è governato dal suo inconscio, ma anche la natura fatta dall’uomo, una natura che non è più soltanto sessuale ma che è anche parzialmente artificiale”.

Richiama qui «la scena primaria» che tutti i bambini devono attraversare quando si confrontano con la situazione edipica, la rappresentazione del legame sessuale e amoroso dei genitori al quale il bambino deve la sua vita. Essa suscita la curiosità, l’amore e il desiderio di parteciparvi ed evoca un odio mortale per il terzo rivale in amore. Il dolore d’essere esclusi dal legame amoroso dei genitori suscita molta angoscia e sofferenza. È a questo punto che si situa presso ciascuno di noi una linea di demarcazione tra «colonizzare» la scena primaria attraverso tutti i mezzi che offrono la fantasia o la realtà, per non sentirsi esclusi, o «decolonizzare» sviluppando una capacità di accettare questa esclusione e i tabù dell’incesto e dell’omicidio che sono implicati. Analogamente noi possiamo “decolonizzare” la Natura dalla sua modificazione- colonizzazione da parte dell’uomo.

Costantino Gilardi, Membro ordinario dell’Association Lacanienne Internationale e Padre Domenicano, con Una lettura della lettera di Papa Francesco sulla cura della casa comune, ci propone i messaggi principali collegati al cambiamento climatico contenuti nei sei capitoli della Lettera Enciclica di Papa Francesco sulla cura della casa comune (2015).

La lettera non è catastrofista, ma è responsabilizzante e aperta alla speranza. Propone una visione multidisciplinare partendo dall’analisi degli aspetti scientifici “i migliori frutti della scienza”. L’Enciclica sull'ecologia integrale si basa sulla unitarietà della vicenda umana ed ecologica, di vita e ambiente e sostiene che la nostra terra, maltrattata e saccheggiata, richiede una “conversione ecologica”, un “cambiamento di rotta” affinché l’uomo si assuma la responsabilità di un impegno per “la cura della casa comune”. La destinazione comune dei beni deriva dalla Bibbia: Dio li ha creati per tutti, secondo la cultura cattolica (cp.4). L’ecologia integrale viene proposta come una risposta alla sfiducia sul futuro, come un nuovo paradigma perché l’uomo è connesso alla natura ed essa non è “una mera cornice” della nostra vita (cp.4). Si possono rinvenire le origini ebraico e cristiane della ecologia integrale. “Non ci sono due crisi separate, una ambientale ed un’altra sociale – scrive il Papa – bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”. Di qui, il richiamo alla solidarietà anche tra generazioni la cui lesione “provoca danni ambientali”.

Si parte nel primo capitolo dal “no” alla cultura dello scarto che sembra trasformare la terra, “nostra casa, in un immenso deposito di immondizia”. I cambiamenti climatici sono “un problema globale”, così come l’accesso all’acqua potabile, “diritto umano radicato nell’inalienabile dignità” dell’uomo e la tutela della biodiversità. “Il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”, spesso considerati “un mero danno collaterale”.

L’ambiente è un dono collettivo di Dio, “patrimonio di tutta l’umanità”, “eredità comune” da amministrare e non da distruggere (cp.2). Seguendo il racconto biblico della Creazione, Papa Francesco evidenzia le tre relazioni fondamentali dell’uomo: con Dio, con il prossimo e con la terra. Ogni creatura ha una sua funzione, nessuna è superflua e tutto è “carezza di Dio”, “ogni maltrattamento verso qualsiasi creatura è contrario alla dignità umana”. Serve la consapevolezza di una comunione universale in cui vale il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni: la tradizione cristiana, infatti, “non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, ed ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”.

La tecnologia asservita ad altri poteri diviene forza autonoma che domina il creato (cp.3). Allo stesso tempo, l’antropocentrismo moderno che non riconosce la natura come norma, perde la possibilità di riconoscere il posto dell’essere umano nel mondo ed il suo ruolo di “amministratore responsabile” dell’universo. A fronte del paradigma tecnocratico dominante, solo la dimensione etica, la cultura ecologica e di unitarietà del sapere, può funzionare da argine. Non bastano le soluzioni tecniche.

Padre Gilardi propone una lettura psicoanalitica, che riguarda il declino del padre e del terzo. Siamo in una società sempre più duale e quindi cannibalica. Mentre il terzo garantisce che anche in un rapporto duale entrambi siamo sottoposti ad una legge/terzo/religione e a rispettare il limite. Non basta la tecnica e la scienza, come scrive H. Arendt, “tutta la nostra scienza non ha impedito che il peggio capitasse”.

La vera ecologia riguarda anche la cura delle “ricchezze culturali dell’umanità” (es. “comunità aborigene”) e dell’ambiente urbano, per migliorare la qualità della vita umana negli spazi pubblici, nelle abitazioni, nei trasporti che in molte città, scrive il Papa, comporta “un trattamento indegno delle persone”. Centrale è anche l’accettazione del proprio corpo come dono di Dio per accogliere il mondo intero come casa comune donata dal Padre e vincere, così la logica del dominio.

I Vertici mondiali sull’ambiente hanno deluso le aspettative per mancanza di decisione politica (cap. 5). Cosa possiamo e dobbiamo fare, dunque? La risposta è “dialogare ed agire” in “un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità o le ideologie non ledano il bene comune”. Il dialogo è ineludibile tra economia e politica, affinché “si pongano al servizio della vita”.  Serve una governance globale che si occupi dei beni comuni globali, mentre il dominio assoluto della finanza non ha futuro e potrà solo generare nuove crisi. A livello nazionale, la politica e l’economia devono uscire dalla logica di corto respiro, focalizzata sul profitto e sul successo elettorale dando spazio a processi decisionali onesti e trasparenti, lontani dalla corruzione che, in cambio di favori, “nasconde il vero impatto ambientale” dei progetti. Ciò che occorre, è “una nuova economia più attenta ai principi etici” nel “ridefinire il progresso” legandolo al “miglioramento della qualità reale della vita delle persone”. Infine, il richiamo alla attenzione ai piccoli gesti quotidiani: fare la raccolta differenziata dei rifiuti, ridurre il consumo di acqua, spegnere le luci inutili, coprirsi un po’ invece di accendere il riscaldamento. La felicità richiede di saper limitare quelle necessità che ci stordiscono, lasciandoci invece aperti alle “molteplici possibilità che offre la vita”.  In questo modo, diventa possibile sentire che “abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo.

Stefano Caserini,Ingegnere ambientale, Docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, La scienza del clima fra negazione e catastrofe.

Le evidenze scientifiche del cambiamento climatico e del ruolo giocato dall’uomo in esso sono ormai incontrastabili. I dati del cambiamento climatico, a lungo silenziati ed ora comunicati assiduamente dai media possono avere l’effetto ansiogeno o di assuefazione da “Pierino e il lupo”. Ma come comunicare queste evidenze per sensibilizzare le persone? Riviste internazionali quali Time e The economist dedicano copertine all’allarme per l’accelerazione del Global Warming. Libri e pubblicazioni parlano ormai di catastrofe con titoli quali “cronache da una catastrofe” e “confronting catastrophe”. Ma cosa stiamo vivendo? Una crisi? Una catastrofe? Oppure quella che Origene nel III secolo d.C. coniò come Apocatastasi, tempo della fine che non finisce di finire? È un processo peggiorativo costante, una malattia degenerativa che progressivamente conquista spazio fino alla vittoria. Non un'apocalisse con un tracollo repentino, ma una catastrofe al rallentatore. L’apocatastasi funziona nella nostra vita quotidiana. Ci permette di continuare a sopravvivere, di tappar falle, di agitarci e di non deprimerci.

Per riuscire a comunicare su cosa basare una speranza è fondamentale il collegamento tra le scienze hard e quelle soft, obiettivo di questo convegno. Caserini raccomanda di ricercare informazioni su fonti attendibili, indipendenti e accessibili a tutti. l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPC) pubblica «Rapporti di Valutazione» e «Rapporti speciali» su specifici temi disponibili gratis sul sito IPCC (www.ipcc.ch). Tra questi Cesarini consiglia “Summary for policymakers”, meno tecnico. I dati dimostrano inequivocabilmente che il cambiamento climatico è dovuto alle attività dell’uomo - utilizzo di combustibili fossili, deforestazione, allevamento intensivo - attraverso l’emissione di gas-serra (CO2, NOx, CH4). Il riscaldamento globale è causato dall’intrappolamento della radiazione infrarossa all’interno della atmosfera dovuto ai gas serra e ai molteplici feedback concatenati. La concentrazione di CO2 negli ultimi 10.000 anni ha avuto delle fluttuazioni rimanendo attorno ai 280 parti per milione (ppm) mentre negli ultimi 100 anni, è aumentata più del 40%, raggiungendo i 415 ppm. Il pianeta non ha mai vissuto un tale incremento, siamo usciti dalla variabilità naturale. Anche gli altri gas-serra mostrano un analogo incremento. Purtroppo, alcuni processi innescati sono irreversibili, i gas serra sono così stabili che rimarranno in atmosfera per centinaia di anni. Un suggestivo video della NASA rappresenta l’animazione del riscaldamento globale. https://www.meteo.expert/news/clima/clima-cambia-video/

Gli effetti del cambiamento climatico, previsti dagli scienziati già da alcune decine d’anni, oggi si impongono nella realtà delle persone e dei paesi: ondate di calore, estati torride, incendi di boschi e foreste, siccità, inondazioni, innalzamento del mare, scomparsa della barriera corallina che è culla di biodiversità. L’aumento delle variabilità coglie le persone impreparate. Sono aumentati i motivi di preoccupazione per gli impatti dei cambiamenti climatici. Perciò l'obiettivo di lungo periodo dell'Accordo di Parigi 2015 è quello di contenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2 °C oltre i livelli pre-industriali, e di limitare tale incremento a 1.5 °C, poiché questo ridurrebbe sostanzialmente i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici.

Se si vuole limitare il riscaldamento globale, è estremamente urgente la riduzione delle emissioni dei gas-serra, climalteranti. Più si aspetta, più rapide e drastiche dovranno poi essere le riduzioni future. Pensare a questo problema non è affatto semplice, anche perché le persone sono bombardate da informazioni confusive e negazioniste che trasmettono “niente sta cambiando; il clima è sempre cambiato; l’uomo non c’entra; non dobbiamo preoccuparci; il riscaldamento globale fa bene; fare qualcosa costa troppo; ormai è troppo tardi”. La morale comune non fornisce una guida etica per affrontare il cambiamento climatico che è un problema globale e collettivo. Ognuno di noi con le sue azioni quotidiane, come guidare una macchina o riscaldare l’appartamento o scegliere l’alimentazione, contribuisce in piccola parte a un risultato di cui non sente la responsabilità personale, perché l’effetto delle azioni individuali è dilazionato nello spazio e nel tempo, non è diretto, contingente e locale.

Cosa possiamo fare per affrontare seriamente il problema dei cambiamenti climatici?

·           Riconoscere l’esistenza del problema dei cambiamenti climatici: smettere di negare e di rinviare

·           Comprendere meglio quello che sta succedendo e che succederà, i motivi diretti e profondi

·           Adattarsi ai cambiamenti climatici: ridurre i danni dei cambiamenti climatici in atto e inevitabili in futuro (monitoraggio, soccorso, modifica tecniche costruttive e di coltivazione).

·           Mitigare i cambiamenti climatici: ridurre le emissioni e aumentare l’assorbimento dei gas serra già in atmosfera. (fonti di energia alternativa, efficienza energetica, stoccaggio CO2 …)

È sempre più chiaro che il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del presente e del futuro. Prendere sul serio l’Accordo di Parigi comporta drastiche riduzioni delle emissioni in tempi rapidi: ridurre del 90%le emissioni di CO2 in tre decenni; assorbire CO2 dall’atmosfera; azzerare la deforestazione. È una sfida che possiamo affrontare con elementi di speranza, non solo di ansia. Ci sono molte possibilità per ridurre le emissioni. Riceviamo dal Sole molta più energia di quella che ci serve. Le energie rinnovabili sono ormai competitive in termini economici con le fossili. Le politiche sul clima hanno molti co-benefici, non sono solo costi. Lo sviluppo sostenibile porta al raggiungimento di obiettivi climatici insieme all'eliminazione della povertà e alla riduzione delle disuguaglianze (economiche, genere, di istruzione, diritti e benessere.

I momenti di discussione delle due giornate sono stati di fertile contaminazione incrociata tra le diverse discipline. Un intervento da segnalare è stato quello dell’Ing. Giorgio Boldini, esperto di Adattamenti Climatici (Verde Architettonico, Sistemi Idrici Nazionali) che ha comunicato la necessità in un contesto psicoanalitico di prendere coscienza della realtà. Boldini ha spiegato che sarà difficile fermare i Cambiamenti Climatici, per vari motivi: la popolazione mondiale ha superato i 7,5 miliardi, con un incremento di 5 miliardi negli ultimi 50, la produzione di gas serra è direttamente proporzionale alla popolazione, l’anidride carbonica è un gas stabile che richiederà tempi molto lunghi per ridursi. La mancanza di una visione della realtà genera instabilità psichico/sociale. Ricollegandosi agli interventi di Zanchini, Van Aken e Caserini, ha evidenziato che, mentre cerchiamo di de-carbonizzare la nostra società (serviranno almeno 100 anni), sarebbe opportuno concentrare l’attenzione sugli adattamenti indispensabili per compensare gli effetti dei Cambiamenti Climatici: che riguardano il verde, l’acqua, la progettazione di verde urbano ecc.

Durante la discussione, Sally Weintrobe ha annunciato che l'IPA ha appena istituito un nuovo comitato, The IPA CLIMATE COMMITTEE, e ha nominato Sally Weintrobe come presidente con rappresentanti di ciascuna delle quattro regioni IPA (Europa, Nord America, America Latina e Asia Pacifico). Sally Weintrobe ha accolto con favore questa iniziativa indicando che l'IPA si sta assumendo la responsabilità di riconoscere la crisi climatica come un problema di salute mentale.

 

 

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LINK

https://www.youtube.com/watch?v=KLK6Z8LQuiw

https://www.meteo.expert/news/clima/clima-cambia-video/

https://www.ipa.world/IPA/en/News/climate_change_schinaia.aspx

http://beautifulisrael.org.il/?siteLang=12;

https://www.facebook.com/beautifulisraelitalia.

https://www.ipa.world/ipa/iParts/Common/ContentBlock/PostDefault.aspx?iUniformKey=c7df7163-a91a-4a75-9a66-dc9a401cbeb0#Comments&WebsiteKey=64d4266c-36f4-4f8e-8e94-ef18d7283059

www.sisclima.it/

https://www.ipcc.ch/

www.climalteranti.it

www.caserinik.it

www.italiaclima.org

www.caserinik.it/aqp

www.aqualcunopiacecaldo.it

 


 

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