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Report di Stefano Lussana e Report di Giuseppe Riefolo sul XVII Congresso Nazionale SPI (Milano, 22-25 maggio 2014)

BREVE NOTA DI COMMENTO AL XVII CONGRESSO NAZIONALE SPI

STEFANO LUSSANA

Non è mia intenzione svolgere un breve resoconto di tutte le relazioni principali dell’ultimo Congresso Nazionale SPI, dal titolo “All’origine dell’esperienza psichica. Divenire soggetti”, i cui scritti potete trovare sul sito web e nella pubblicazione degli atti. Vorrei soffermare l’attenzione dei lettori su alcuni aspetti del tema in discussione e porre l’accento su un paio di interventi che, a mio avviso, sono andati al centro del problema proposto.

         L’origine dell’esperienza psichica, il “ big bang” mentale in ciascuno di noi, è un evento non sondabile in modo diretto, ma analizzabile attraverso svariati strumenti a disposizione, il lavoro sui sogni, l’analisi del transfert e il racconto degli altri, per limitarci agli essenziali, che ci consentono di avvicinarci al “brodo primordiale” del funzionamento mentale. Per dirla usando lo slang bioniano, un contenuto psichico ha bisogno del contenitore di un soggetto per poter diventare un soggetto psichico. Può essere fondamentale osservare che il termine soggetto non fa parte del vocabolario analitico. E’ una parola presa in prestito dalla filosofia con il quale si intende, da una parte, un soggetto pensante contrapposto all’oggetto del pensiero e, dall’altra, un individuo singolo in quanto al centro di un esperienza cosciente. Così congegnato l’essere umano, dall’incontro e dallo scambio tra due menti possono nascere le emozioni e i pensieri. Naturalmente per un analista l’esperienza include anche l’esplorazione degli abissi dell’inconscio. L’approccio intersoggettivo, in un ottica analitica, è quello che sembra più accostarsi a questo modo di scrutare la realtà. Secondo questo modo di considerare il rapporto con l’altro, il soggetto può essere indifferentemente sia il paziente sia l’analista. Se il soggetto ingloba anche il concetto analitico di Io – me o Iness , quindi non nell’accezione della seconda topica freudiana, e di Sé in relazione ad un oggetto, allora il discorso può ampliarsi anche ad altri orientamenti di tipo teorico clinico. In ogni caso il soggetto è in costante divenire, fino al punto di assumere le sembianze di una nuova persona, tanto che si preferisce parlare di soggettività o processo di soggettivizzazione, che dura tutta la vita, non solo nei periodi canonici dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche in età adulta e perfino nella vecchiaia.

         Se posso esprimere una critica agli organizzatori del congresso, mi pare sia mancato anche un intervento che potesse mettere in luce quanto sia importante all’interno di un processo di soggettivizzazione, non solo la presa di coscienza di un vissuto doloroso rimosso o scisso, la condivisione di una sofferenza solitaria e ancestrale nella relazione analitica, ma anche un’assunzione di responsabilità da parte della coppia paziente analista di quanto si va apprendendo dall’esperienza in divenire. In altre parole sorge il bisogno di un etica psicoanalitica che promuova una spinta al cambiamento, opera di trasformazioni mentali del campo, a beneficio del nostro mondo relazionale.

         E’ risultato particolarmente fecondo il dialogo intrattenuto con altre discipline, a cominciare dalle neuroscienze, rispetto alle quali mi viene da dire che la psicoanalisi ha l’imperativo di comunicare costantemente e costruttivamente con questo importante settore del sapere, per trovare delle correlazioni tra il nostro linguaggio e quello neuroscientifico. La psicoanalisi deve liberarsi di una sorta di complesso d’inferiorità, di non essere in grado di camminare sulle proprie gambe, di aver bisogno di una specie di legittimazione da parte delle neuroscienze per poter esistere. Per caso i neuroscienziati hanno bisogno del riconoscimento degli psicoanalisti per poter operare?

         Ho considerato particolarmente emozionante il contributo di Castaldo, giornalista di Repubblica, che ci ha raccontato la storia tormentata di alcuni celebri divi del rock. Commuovente il riferimento a John Lennon, traumatizzato dalla morte precoce della madre, che canta, a scopo terapeutico, Julia, un brano nostalgico in ricordo della madre e anni dopo Mother, una denuncia rabbiosa per la perdita della madre di cui avrebbe avuto estremo bisogno. Potremmo pensare che per una completa elaborazione del lutto avrebbe dovuto scrivere mummy, come realmente si chiama affettuosamente una madre, non l’amichevole Julia o l’asettico mother. Il rapporto con il ritmo e la melodia musicale, incorporando in questo la voce umana, potrebbe rappresentare una nuova frontiera di stimolante ricerca per il mondo analitico?

         La relazione introduttiva di Nino Ferro, “Senza titolo. Da Freud a Bacon”, merita attenzione per il tentativo di indagare con rigore le origini dell’esperienza psichica nel divenire soggetti della propria esistenza. Oltre ad aver esposto numerose esemplificazioni cliniche, come è nello stile dell’autore, sul versante teorico ha cercato, in termini postbioniani, un’interessante correlazione tra l’O (per caso tra i vari significati attribuitegli c’è anche quello di origine dell’esperienza psichica?) e gli elementi beta. L’O a cui si fa riferimento è quello bipolare modellato da Grotstein: O1 le preconcezioni innate e acquisite provenienti dall’inconscio non rimosso e O2 gli stimoli sensoriali dell’esperienza emotiva grezza interna ed esterna. L’elemento beta rappresenta una struttura composta proveniente da due origini distinte e separate, il primo beta 1 di formazione dalle preconcezioni si trasforma in realizzazioni, in quanto concezioni, concetti ed il secondo beta 2 di derivazione sensoriale si trasforma in elementi alfa, per essere assegnato ai diversi aspetti del funzionamento mentale.

         Ho trovato molto interessante e in sintonia con il tema del nostro congresso la relazione del brasiliano Elias Mallet da Rocha Barros. Secondo l’autore nel lavoro terapeutico l’attenzione dell’analista è polarizzata verso la speranza di aiutare il paziente ad apprendere dall’esperienza e ciò significa provare a diventare una nuova persona incorporando nel sé ciò che Ogden chiama un io interprete che media “tra la persona e l’esperienza personale vissuta”. Un soggetto capace di riflettere sulla propria vita conscia e a volte inconscia. Rocha Barros prende posizione sulla questione della soggettivizzazione: “Il soggetto non e né nel conscio né nell’inconscio, ma in una relazione dialettica tra queste due istanze.” Tutto questo fa pensare anche al terzo analitico di Ogden, il soggetto non appartiene né al paziente , né all’analista, ma è una sorta di cocostruzione mentale tra paziente e analista.

 

 

 

 

“All’origine dell’esperienza psichica. Divenire soggetti”

 

Giuseppe Riefolo 

 

 

 

Il mio congresso è iniziato il venerdì mattina. Pertanto non ho potuto seguire gli interventi di Nino Ferro, Tiziana Bastianini e di Sergio Anastasia. Mi è dispiaciuto anche perché soprattutto ai primi due sono legato da livelli di amicizia e condivisione di approcci teorici. Pertanto ho indagato verso alcuni colleghi ed ho trovato che i loro interventi erano stati molto intensi ed apprezzati. Ho colto alcune considerazioni sui loro interventi che, per me, suonano come riconoscimenti altamente positivi. Ovvero che erano estremamente legati a precise posizioni teoriche quali quella bioniana per Ferro ed intersoggettiva per Bastianini. Conoscendoli, non mi sorprendo e mi fa piacere che il contesto di un congresso – e ancor più i loro ruoli istituzionali – non li abbiano costretti a mediazioni che in questi casi suonerebbero di impoverimento della proposta teorica che è bene sia presentata proprio in un contesto di congresso.

 

Il venerdì si apre con l’intervento di Domenico Chianese di Chiara Cattelan e di Gianluigi Monniello. Il filo che li lega è il divenire soggetti a partire dalle prime fasi dello sviluppo: l’infanzia come processo continuo in divenire (Chianese); le sospensioni gravemente autistiche colte nella toccante descrizione del caso di un bambino di tre anni (Cattelan) o nelle prime organizzazioni del Sé colte nel campo delle relazioni madre-bambino (Monniello). Le tre relazioni mi è sembrato abbiano indagato i vari livelli e momenti di integrazione dell’esperienza sensoriale. Monniello, dopo aver premesso la psicoanalisi “non come teoria della psicopatologia, ma piuttosto come teoria dei processi e della plasticità dei percorsi”, propone, nella linea di Meltzer, il primo livello di tale integrazione come base dell’esperienza estetica che si organizza attraverso la condivisione. Lo sviluppo colto come comunicazione intersoggettiva che procede dalla sensorialità che, declinandosi sul piano relazionale, si organizza come “sensorialità del momento”. Interessante la sottolineatura che il sensoriale permetta di emanciparsi dal pulsionale e dal campo dell’attaccamento, introducendo in un campo intersoggettivo che continuamente integra e modula il sensoriale: “la mobilità del sensoriale permette di cogliere l’istante”. Mi è sembrato che questa posizione fosse l’eco di qualcosa che coglievo nella presentazione clinica di Cattelan che, sebbene muovendosi secondo ipotesi teoriche differenti, mi sembrava soffermarsi sulla capacità dell’analista di sintonizzarsi sulla comunicazione sensoriale e presimbolica (come è giusto che sia nei casi di autismo…) attraverso momenti di intensa e toccante partecipazione emotiva (direi: poetica) dell’analista al mondo del suo paziente. Quindi Nemo, casualmente trovato dal bambino nella libreria dell’analista, diventa il filo che permette l’accesso alla comunicazione analitica: “Ti piace Nemo?”, chiede il bambino all’analista e la risposta, prima che analitica è bella: “mi piace perché ci fa capire le tue paure!”

 

Intense e, sicuramente, molto attese le due successive proposte. Ammaniti, nella linea di Stern e del gruppo di Boston, introduce i concetti di “intersoggettività primaria” dove gli scambi contingenti nel campo fra madre e bambino, concorrono alla coordinazione e alla fiducia. Colpisce, per il senso di continuità che mi piace cogliere nelle posizioni teoriche, la sottolineatura, appena accennata da Ammaniti, del passaggio intersoggettivo realizzato da Bion delle iniziali tesi kleiniane. Un video di poche scene di allattamento al seno, vengono poi a proporre l’evidenza dei concetti, molto utilizzati nell’intervento, di “sintonizzazione affettiva”; “compartecipazione dell’attenzione” “scambi contingenti” e dei contatti e veri e propri dialoghi visivi fra bambina e madre. Ovviamente molto atteso era l’intervento di Vittorio Gallese che da qualche tempo ha inaugurato un intenso dialogo fra le ipotesi del suo gruppo e la psicoanalisi soprattutto italiana. Un dialogo, come lui ha esordito, “fra scienza, cervello e psicoanalisi”. La premessa è chiara: “il cervello è necessario per la mente. Il problema, semmai è quando esso è solo sufficiente”. Gallese dichiara subito che si occupa dell’insieme costituito da cervello e corpo uniti dalle leggi fisiche, quindi, sostanzialmente nella linea di Damasio: “neurobiologia che studia il sistema cervello/corpo in relazione alle risposte dell’altro”. L’intervento si è soffermato soprattutto sulla definizione della funzione “relazionale” dei neuroni specchio, ovvero “la cognizione motoria come elemento di relazione intersoggettiva” e del concetto di “simulazione incarnata” ovvero l’intenso campo di conoscenza intersoggettiva che si svolge attraverso la simulazione implicita con cui si intrattiene un continuo dialogo con l’altro. Ciò permette l’organizzazione e la continua modulazione del Sé ancorato ad una matrice intersoggettiva. Il versante psicopatologico, persino di ordine psicotico, si affaccia nella possibile cesura tra le sensazioni e le intenzioni. Mi ha fatto piacere considerare come la descrizione di questi movimenti interni al corpo si svolgesse soprattutto a livello di micro configurazioni che, continuamente mobili ed instabili, potevano organizzarsi nella linea della composizione sia fisiologica che patologica. Anche nella relazione di Gallese, ho colto un particolare accento sulla sensorialità che, a questo punto, sembra essere il leit motive delle relazioni della mattinata. Nel caso di Gallese, la sensorialità non si esaurisce come “ricettacolo” e luogo della composizione del Sé, ma si coniuga a (e quindi si amplia in) una particolare “modalità proiettiva della relazione”. Nella linea del senso dell’azione nel campo analitico Gallese introduce, quindi, alcune domande: “controtransfert; enactment; identificazione proiettiva: quale psicoanalisi?”. La simulazione incarnata può essere rappresentata come “processo emozionale inconscio”? e allora, inevitabilmente, si rende più complesso il campo in cui rappresentare il concetto (il dispositivo) di “inconscio, in quanto le neuroscienze aprono sempre più al campo dell’inconscio non rimosso che Freud riconosceva, ma a cui, in sostanza non attribuiva particolare valore dinamico se non di necessità. In questa linea, ho trovato interessante la definizione di intersoggettività come “processo inconscio di senso di ordine implicito”.

 

A questo punto un momento su cui è utile, a mio parere, si rifletta. L’intervento di Elisabetta Facella, un’allieva, mi è sembrato ben articolato e proposto con chiarezza. Mi sono chiesto come mai, proprio dagli allievi venisse la sottolineatura di posizioni teoriche “classiche”, in questo caso la posizione teorica di O.M.B. di Eugenio Gaddini a fronte delle tesi di “simulazione incarnata” proposta da Gallese. Personalmente mi riconosco nelle tesi di Gaddini, ma ho pensato che fosse giusto che gli allievi chiedessero soprattutto teorie classiche e ben radicate nella cultura psicoanalitica soprattutto italiana. Nei corridoi, durante la pausa, sentivo che questo poteva sorprendere qualche analista esperto per il fatto che la proposizione di teorizzazioni classiche venisse proprio dai più giovani. Invece, un problema un po’ più critico: se dopo Taormina, è stata accolta la richiesta degli allievi di poter figurare e partecipare attivamente al dibattito congressuale, forse è il caso di chiedersi se un piccolo spazio lasciato alla fine di due o tre intense relazioni sia il luogo giusto dove valorizzare – se di valorizzare, e non semplicemente di concedere, si tratta – i contributi degli allievi. A mio parere è sembrato uno spazio molto esiguo, ma soprattutto “sacrificato”. In genere, quelli che si occupano di dinamiche mediatiche, sanno che se si vuole valorizzare una comunicazione poco accreditata bisogna collocarla non alla fine, ma prima di una comunicazione molto attesa dall’audience. In questo caso bisogna comunque considerare che, nello schema proposto, si tratta di “allievi che pongono una domanda”, né, mi rendo conto, si può affidare una relazione plenaria ad un giovane candidato. Non saprei. Tocca pensarci.

 

Il sabato si apre con il contributo di Alessandra Lemma. La sensazione che ne ricavo è di particolare lucidità metodologica ed estremo rispetto della complessità e della “realtà” evitando soprattutto di indulgere a posizioni di facile decodifica attraverso un registro simbolico analitico e soprattutto evitando di cogliere a tutti i costi la psicopatologia in comportamenti che comunque introducono un registro comunicativo regredito, mentre lo sforzo della Lemma era di cogliere il progetto comunicativo vivo nell’uso dei tatuaggi e dei piercing: “non vale l’equazione Tatuaggio/piercing verso disagio”, mentre vale il progetto di usare il corpo per sperimentare diversità e “controllare il rischio che gli altri possano essere Sé”. Inoltre il piercing richiama comunque il ruolo dell’altro nella “intimità condivisa con un altro che ti tocca mentre ti segna il corpo”. Mi è sembrato che la proposta di Lemma sia quella di porre il corpo al centro dei passaggi dei cicli vitali e che l’organizzazione mentale debba seguire e modularsi di conseguenza ai cambiamenti proposti dal corpo. Questo risulta evidente soprattutto nelle fasi adolescenziali indagate dalle ricerche di Lemma, ma gli analisti possono rintracciare questi stessi percorsi necessari anche in altri momenti “cerniera”, come li ha definiti Nino Ferro (2002), dello sviluppo fino alle fasi dell’età di mezzo anch’esse particolarmente segnate dai cambiamenti del corpo.

 

Claudio Neri, ha avuto la delicatezza di ricordare Eugenio Gaburri fra i suoi compagni di percorso nella teorizzazione del “Campo” sia nella stanza di analisi che nei gruppi e nelle istituzioni. La proposta di Neri è suggestiva e, potrebbe risultare utile nella gestione clinica di contesti analitici, sia gruppali che individuali, che semplicemente psicoterapeutici o, persino nella lettura di contesti relazionali sociali. La proposta è quella di individuare altri tipi di campi persino all’interno e simultanei al campo analitico principale. Il campo che propone Neri è definito da modalità sufficientemente coerenti e sintoniche fra loro che individuano modalità precise di funzionamento di un sistema. Oltre al “Campo bipersonale dell’incontro” di cui parlano i Baranger, si tratterebbe di porre attenzione ad organizzatori di campo quali i registri transgenerazionali, quelli istituzionali, quelli parentali, ecc.. Ognuno di questi campi organizza ed è oggetto di interferenze e perturbazioni. In modo più preciso vengono proposti quattro tipi di campo: 1. Il campo “Sociale ufficiale”, organizzato da regole gerarchiche che definiscono le relazioni; 2. Il campo “psicologico” relativo all’istituzione in cui ci si muove”. Si tratta del campo che i pazienti portano in seduta organizzato attraverso le caratteristiche dei loro luoghi di vita o di lavoro (pazienti che portano il loro “campo azienda”) e che comportano vissuti particolari quali di costrizione, perdita, imprigionamento, eccitamento reattivo, ecc. 3. Il campo del “racconto” dove ogni racconto è al tempo stesso oltre che narrato, anche fictional, speculare al campo psicologico attraverso la narrazione. Infine vi è il campo “analitico” regolato da setting, intimità, franchezza, non intrusività. Il campo analitico non è solo una cornice, ma un apparato di messa in evidenza. E’ interessante la suggestione che propone Claudio Neri per spiegare l’esistenza e la dinamica di questi campi multipli: “le soste improvvise e nette, le sospensioni, le interruzioni che troviamo nei sogni o nei racconti dei pazienti (e, mi permetto di aggiungere io, nel nostro funzionamento mentale…) rappresentano l’irruzione di altri campi nel campo analitico di base”.

 

Nella seconda parte della mattinata la proposta di G. Kluzer sul tema del trauma, mi è sembrato si diffondesse particolarmente sulle topiche classiche delle varie posizioni teoriche sul trauma. Quindi: Freud, le “carenze di cure primarie” di Winnicott e del trauma cumulativo di M. Kahn fino ad Aulagnier e al concetto di “seduzione generalizzata” di Laplanche. Penso sia mancato il riferimento alle tesi più attuali sul trauma – sicuramente di altro indirizzo teorico - quali quelle del gruppo di Boston, R. Meares, e sicuramente la teorizzazione di Shore e Bromberg. Infine l’intervento particolarmente articolato e colto di Alessandro Bruni che, forse, proprio per la gran quantità di riferimenti teorici e il rimando a discipline parallele quali la filosofia e l’antropologia, può essere risultato complesso da seguire nella situazione plenaria.

 

Le due relazioni finali della domenica mi sono sembrate un buon livello di commiato alla nutrita platea di partecipanti al congresso. Da un lato la relazione di Stefano Bolognini che ha presentato al congresso le prospettive ed i cambiamenti in atto in una società rappresentata come “un Sé di cui si è finalmente parlato in questo congresso” (!!), delineando progetti prossimi di relazioni a livello IPA tra psichiatria e psicoanalisi. Mi è sembrata importante la sottolineatura del problema – non solo italiano – di quelli che ha definito “Desaparecidos”, ovvero gli analisti che si isolano dopo l’associatura mancando a quello che Bolognini ha definito il quarto pilastro della formazione analitica, ovvero il training e la capacità a “lavorare insieme”. L’intervento di chiusura di Rocha Barros ha permesso di sospendere i lavori con un’apertura sia alla clinica che al confronto con modelli teorici plurimi e, come in questo caso, internazionali. Rocha Barros mi è sembrato tendesse soprattutto a mettere in discussione e ad ampliare l’uso psicoanalitico della interpretazione spesso confinata nei classici limiti della storia, del passato e del rimosso, suggerendo attraverso una esemplare e “leggera” esemplificazione clinica, la possibilità di costruire interpretazioni nell’intersezione della storia con quanto accade nel campo intersoggettivo. Alla base dell’interpretazione e della posizione dell’analista Rocha Barros propone l’attenzione soprattutto alle reazioni dell’analista alla comunicazione (incarnata?) del paziente.

 

Due ultime e brevi considerazioni. Da un lato mi è sembrato che la lezione di musica, tenuta da Gino Castaldo, sia risultata alla fine molto “ingessata” dal contesto in cui Castaldo sentiva si realizzasse. Conosco bene le lezioni che Castaldo con Ernesto Assante propongono da anni sulla musica rock e le ho sempre trovate leggere e ricche, mentre questa volta mi è sembrato che la cornice del contesto “Psicoanalitico” imbarazzasse Castaldo che vedevo sforzarsi di aderire ad ipotetici canoni psicoanalitici che forse la cultura comune attribuisce agli psicoanalisti. Penso che sia un tema che deve sempre far riflettere gli analisti quando si incontrano con la cultura comune che, inevitabilmente, a mio parere oggettiva gli psicoanalisti in una posizione “fuori dal mondo”. Infatti quella che doveva essere una lezione sulle origini della musica e (mi attendevo) particolarmente sulle origine del rock è diventata la affannosa ricerca di situazioni traumatiche alle origini di particolari personalità geniali del rock: Lennon, Syd Barret, Jim Morrison…

 

Infine una considerazione sui Panel che personalmente amo molto come dispositivo fertile di incontro e confronto all’interno dei congressi che, altrimenti si risolverebbero in semplici passerelle per autori e teorie di cui potersi occupare attraverso libri e riviste. Ovviamente ho partecipato solo a due Panel e ne ho ritrovato la conferma dell’importanza della partecipazione plurale e viva che emerge in questi contesti. Troverei difficile partecipare a congressi che non prevedessero piccoli gruppi di discussione in cui i partecipanti possano avere l’occasione di sentirsi protagonisti attivi in un gruppo ampio che altrimenti si risolverebbe in una sollecitazione a dinamiche di semplice dipendenza.

 

 

 

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