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Goretti G., L'incendio della Fenice e le difese collettive. 1997

 

Il giorno successivo al rogo che distrusse la Fenice i giornali riportarono a grandi lettere le parole pronunciate dal Sindaco, che suonavano promessa e impegno a ricostruirla "come era, dove era". Pochi giornali segnalarono che non era la prima volta che quelle parole venivano pronunciate: furono dette infatti nella stessa Venezia, all'inizio del secolo, in occasione del crollo del campanile di S. Marco (*), e nulla di più comprensibile che esse tornassero alla mente in occasione della nuova calamità che colpiva il tessuto urbano.

(*) Per questa e altre notizie di ordine storico e architettonico nel testo, per indicazioni bibliografiche e molte conversazioni in tema di restauro, ringrazio affettuosamente il Prof. Paolo Marconi, titolare della cattedra di Restauro della Terza Università di Roma.

Furono quelle parole a guidare il processo ricostruttivo del campanile, secondo una prassi che non era nuova e che si sarebbe ripetuta. Il dopoguerra ha visto, infatti, rinascere un po' ovunque, dalle macerie delle città distrutte, sotto la spinta di eventi ancora più globalmente ed estesamente catastrofici, cattedrali, abazie, ponti, castelli, nello stesso stile, con le stesse dimensioni, nella stessa area, "come erano, dove erano" in un processo di rinascita che non è, a tutt'oggi, esaurito. Il pensiero va, infatti, alle ricostruzioni attualmente in corso nella Germania orientale, alla cui realizzazione, ossessivamente fedele all'originale, contribuiscono indagini filologiche accurate e competenze tecniche sempre più sofisticate: ed è difficile sottrarsi al dubbio che cultura filologica e competenze tecniche, prodotti elaborati di un processo secondario "puro", non siano poste al servizio di una difesa estremamente primitiva e onnipotente, quella che satura la beanza dolente e disperata del desiderio che un'esperienza dolorosa non si sia verificata con la "allucinata" realizzazione di questo desiderio, asserita contro una realtà misconosciuta e onnipotentemente denegata.

E già Freud, dall'inizio del suo percorso teorico (Freud 1894), vedeva in questa modalità di funzionamento un modo di gestire il dolore che era, certo, "più energico e di maggior successo" rispetto alle difese in atto nella nevrosi ossessiva e nell'isteria che egli aveva precedentemente descritto, ma che irrimediabilmente comprometteva il rapporto con la realtà: perché con la rappresentazione dolorosa che deve essere cancellata, deve anche andare perduto quel pezzo di realtà cui la rappresentazione è intimamente connessa.

Sappiamo che questo concetto ricomparirà nel pensiero freudiano, in connessione con temi svariati (l'evirazione, il feticismo, la psicosi, il lutto) e sarà ancora ricordato nel Compendio di psicoanalisi ove si legge che "l'Io si trova abbastanza spesso nella condizione di doversi difendere da una richiesta penosa che il mondo esterno gli pone, ciò che gli riesce con il rinnegamento delle percezioni che gli rendono nota questa pretesa della realtà" (Freud 1938, 630). Nel "come era, dove era", la pretesa della realtà – che venga riconosciuta l'avvenuta distruzione e la conseguente perdita – viene in un certo senso rifiutata e quella che potrebbe essere una fantasia desiderante – "vorrei che non fosse mai successo" – si trasforma in un'azione, anche molto sofisticata sul piano della sua realizzazione, che permetterà convincentemente di asserire "nulla è successo". Però, da difesa individuale, esposta a quell'umano divenire che può modificarne la portata e gli effetti, tale modalità estrema di gestione del dolore, quando viene assunta dalla collettività, può acquistare un carattere di sostanziale immodificabilità: quando, come si verifica precisamente nei processi ricostruttivi, la collettività che "sposa" il diniego, lo "fissa" nella pietra.

Alle ricostruzioni rese necessarie dall'azione di eventi bellici, calamità naturali o deplorevole incuria, fenomeni che da sempre minacciano l'opera dell'uomo, si aggiungono oggi quelle dovute all'azione di atti terroristici, che sono appannaggio specifico e cupo della nostra epoca: in anni recentissimi abbiamo assistito allo sbriciolamento di parti rilevanti di importanti monumenti la cui ricostruzione, fedele al "come era", sta infatti per essere completata, con una variante rispetto a ricostruzioni del passato. Il progetto ha curato infatti che fosse assicurata la visibilità del punto di giunzione tra ciò che apparteneva al vecchio edificio e la nuova costruzione: una specie di ferita mantenuta simbolicamente e incruentemente aperta, perché gli eventi non vengano cancellati e il tempo della Storia venga rispettato. Vale la pena di ricordare che, in tema di restauro, qualche voce isolata si oppone ancora più radicalmente alla prassi del "come era", proponendo di limitare l'intervento al consolidamento e alla manutenzione delle parti rimaste e ritiene che oltre tale adempimento si debbano aprire le sconfinate frontiere del progetto del nuovo con altre regole e problemi.

Difficile pensare che questi diversi orientamenti non esprimano un sistema di valori e non contribuiscano al sistema di valori delle culture in cui operano. Difficile anche pensare che esse non abbiano radici in qualche area della mente nella quale fantasmi legati all'onnipotenza e alla più totale helplessness, alla distruzione e alla riparazione, alla continuità e alla rottura della continuità vivono una loro vita influenzando erraticamente – e segretamente – ideologie, controversie teoriche, prassi.

Il fatto che modalità arcaiche di funzionamento vengano mobilitate nella fase di progettazione di un processo ricostruttivo non può certo stupire. È perfino troppo ovvio pensare che la distruzione, vuoi di intere aree urbane, vuoi di singoli edifici, vuoi di parti rilevanti e significative di importanti costruzioni, non solo attivino dolorose esperienze di perdita (richiamando, con forza, tutte le precedenti perdite subite), ma, contemporaneamente ad esse o addirittura prima ancora che siano vissute come esperienze di perdita, compromettano quel senso di stabilità, continuità, coesione, appartenenza che, se certamente ha le basi nella storia individuale, si nutre della storia del paese, città, nazione, periodo in cui ci si trova a vivere.

A una tavola rotonda che aveva per tema i problemi posti dalla ricostruzione della Fenice, indetta dall'INARCH (Istituto Nazionale Architetti), uno dei partecipanti, tra il pubblico, si era espresso con queste significative parole: "I veneziani non si sentono più veneziani, senza la Fenice, la rivogliono e la rivogliono subito" e parlava della loro diffidenza nei confronti di programmi che includevano concorsi, commissioni, gare: tempi troppo lunghi, rispetto all'urgenza emotiva di colmare quel vuoto, di correggere quello squilibrio, perché quel vuoto e quello squilibrio che era dell'ambiente, sembrava non tanto che influenzasse il Sé dei veneziani, quanto che direttamente lo riguardasse: come se il processo di separazione dal non-Sé laboriosamente raggiunto potesse, in certi momenti, vanificarsi e portare alla reimmersione in quella situazione di Sé allargato, rispetto alla quale non si può neppure parlare di esterno che influenza l'interno, ma di un sistema unico il cui equilibrio è stato compromesso.

La Fenice avrebbe cioè assolto, su scala più vasta, la funzione che Bollas riconosce agli oggetti generazionali: oggetti, si tratti di un evento storico, una canzone o un personaggio, nella cui conoscenza e nel cui culto una generazione si riconosce (Bollas 1992). Su scala più vasta perché ci sono oggetti, e La Fenice è tra essi, la cui risonanza supera i confini di una generazione, accomunando membri di insiemi diversi, geograficamente e temporalmente dislocati. Per ciascuno di costoro, per ragioni diverse, La Fenice è stata punto di aggregazione, luogo della mente, organizzatore e punto cardinale di un intorno urbano, bene condiviso non solo nella comunità dei pari, ma con le generazioni passate e potenzialmente con le future.

Nella trama dei commenti amareggiati che accompagnavano l'evento, con frequenza mi è capitato di ascoltare frasi del tipo: "Ci andavo con mio padre" o "Ci andavano i miei genitori". Queste frasi testimoniano che si trattava di un luogo nel quale il legame tra generazioni aveva trovato un alimento e ricordano che, con La Fenice, molti sentono di avere perduta anche la possibilità di frequentare ed amare uno dei luoghi amati e frequentati dai genitori e coi genitori: frasi che configurano, quindi, per quei fenomeni di proiezione fantastica tra interno ed esterno, tra passato, presente e futuro che segnano il nostro vivere, un'esperienza complessa, capace di generare sfumati sentimenti di insicurezza, disorientamento, inquietante estraneità. Si tratta di sentimenti così fortemente destabilizzanti che c'è chi ha visto, nella geografia degli ultimi attentati terroristici di Firenze e Roma (la Basilica di S. Giovanni e S. Giorgio al Velabro a Roma, la Torre dei Georgofili a Firenze), non una scelta erratica e casuale, ma l'intento preciso di colpire e distruggere punti nodali dell'identità collettiva, urbana e nazionale. Niente di più comprensibile che il desiderio di ognuno, la spinta di un Sé minacciato nella sua continuità e nelle sue coordinate fondanti, si esprima nella fantasia del "come era, dove era", del "tale e quale"; si esprima nel desiderio di conservare, in un mondo che cambia – e oggi, sembra, più velocemente e con maggior propensione al caos delle epoche passate –, qualche cosa di stabile e invariato in cui ritrovarsi, in cui riconoscersi, in cui pensare come non intollerabilmente traumatico un passaggio generazionale: disposti quindi anche a ri-crearlo dalle sue ceneri, se è andato distrutto, disposti anche ad accontentarsi di qualche cosa che non è l'oggetto vero, ma una sua pallida copia…

Attraverso una rapida incursione nella letteratura specialistica sull'argomento, si arriva a scoprire che a questa opera di ripristino, che tende a ricreare il "come era", dobbiamo un gran numero di costruzioni che fanno parte oltre che del mondo che abitiamo, del nostro universo mentale; scopriamo che il mondo è pieno di architetture che debbono la loro esistenza non solo alla manutenzione e al consolidamento, ma soprattutto al saggio e tempestivo e ben fatto riprodurre: il ponte di Santa Trinita a Firenze, il ponte Scaligero di Verona, l'Abbazia di Montecassino, il già ricordato campanile di San Marco – per non citarne che alcuni e appartenenti all'area italiana –, ma anche buona parte del centro di Varsavia e il suo Castello, il Castello di Berlino, la cattedrale di Praga, il centro di Monaco ci sono stati consegnati, restituiti, potremmo dire, pochissimo difformi dagli originali e ci sono molte probabilità che si finisca per ignorare – perché alcuni hanno dimenticato e altri non hanno mai saputo – che si tratta di copie.

Copie che, mentre ricuciono i lembi di una continuità attaccata,

leniscono, forse anestetizzano, il dolore per la perdita subita. Non troppo diversamente si comportavano i coloni d'America che battezzavano città e regioni del Nuovo Mondo con il nome di città e regioni delle patrie lontane: New Amsterdam e New York, New England e New Jersey dovevano assicurare la continuità col passato, ma assicuravano anche un modo per non "patirlo", per non morire di esso. Nell'intreccio di dinamiche narcisistiche e dinamiche oggettuali, su cui poggia il nostro precario equilibrio, mescolato al senso minacciato della propria continuità, la distruzione di parti importanti del tessuto urbano genera, infatti, importanti sentimenti di perdita che vanno a riattivare tutte le precedenti perdite subite e sono, d'altronde, fortemente influenzati da esse.

Da questo vertice, il "come era, dove era" si configura come un lutto sospeso o un lutto impossibile. Se la capacità di vivere il lutto implica "maturità emozionale e salute" (Winnicott 1989, 430), il "come era, dove era" rivela una patologia collettiva che non riconosce la necessità del lutto o manca di fiducia nelle possibilità individuali e collettive di portarlo a termine: a causa di un dolore troppo pervasivamente destruente, che quasi sconfina nella persecuzione; a causa della consapevolezza di un danno che supera l'umana possibilità di riparare; perché il senso sconfortante della propria inadeguatezza, della propria impotenza a riparare, prolunga il senso dell'impotenza a impedire che il danno venisse perpetrato.

Difesa e protezione dal dilagare di questi sentimenti, è l'asserzione che il danno non esiste o, se esiste, che è poca cosa, si può "aggiustare" (non dicono così anche i genitori a un bimbo in lacrime, per lenire il dolore di un giocattolo rotto?), che tutto può tornare esattamente come era prima… Difesa che riporta il trauma subìto nell'area dell'onnipotenza personale, che trasforma un'esperienza subita al di fuori di ogni possibilità di gestione e controllo in un'esperienza totalmente controllata.

Le ricostruzioni-ripetizioni, quelle che prendono l'originale come modello e fedelmente vi si attengono, implicitamente affermano non solo: "quello che è scomparso può tornare", ma anche: "quello che noi non abbiamo potuto impedire che scomparisse, noi possiamo farlo tornare": un delirio di onnipotenza che trova le ragioni del suo formarsi nella più totale e desolata impotenza di fronte all'evento che ha determinato la distruzione.

Se le ragioni del "come era" possono essere comprese, più arduo è valutare una prassi esecutiva che avendo come scopo un'ecologia della mente oltre che dell'ambiente, sembra per altro ignorare il valore di categorie fondamentali quali il vero e il falso e l'influenza mutilante sul pensiero di un processo che si oppone sia al ricordo dell'evento traumatico che al doloroso eppur naturale processo dell'oblio che al ricordare è intimamente connesso; una prassi che esercita quindi una abnorme influenza sulla stessa esperienza temporale, sul suo percorso progrediente e unilineare, in quanto sembra poter imprimere al tempo un movimento a ritroso e poi un arresto: in un punto che può forse solo essere definito astorico, perché sottratto a un'esperienza temporalizzata.

Prima che il tempo compia la sua opera impietosa e benefica, l'effetto di certe ri-costruzioni non è dissimile da quello prodotto da restauri molto, troppo spinti nell'opera di ripristino del "come era": un effetto di straniamento, irrealtà e artificio che giustifica la battuta di Woody Allen, in visita al palazzo della Cancelleria, in Roma, smagliante nel suo recente restauro, ove si apprestava a tenere il suo concerto. "Credevo", disse, "che palazzi simili esistessero solo a Hollywood". Comicità newyorkese che coglieva la dimensione di ipomaniacalità immanente in queste operazioni architettoniche. Tra i cui costi il più oneroso è forse la rinuncia ad un'autentica attività creativa, di quella creatività che, non immemore del passato, gode però anche della fondamentale libertà di trascenderlo. La cattedrale gotica costruita nel ventesimo secolo o il portico romanico rifatto sono lì, allora, ad affermare non solo un vulnerabilissimo bisogno di continuità; non solo la determinazione ad asserire che la guerra, le distruzioni, le perdite inflitte e subite, l'incuria, il dolo non sono esistiti; sono lì anche ad affermare che altra riparazione del danno non sembra pensabile, che tra quanto è andato distrutto è forse necessario includere anche la fiducia nella propria capacità creativa e nel proprio diritto di creare.

Dai suoi inizi la psicoanalisi ha cercato di comprendere l'impulso creativo, offrendone letture diverse secondo il modello utilizzato, secondo gli indirizzi di pensiero, secondo i singoli autori. Sublimazione degli istinti, quindi, nel pensiero freudiano e all'interno di un modello pulsionale, concezione che presenta molte affinità con quella di Kohut, che vede la creatività collegata a tensioni narcisistiche più o meno efficacemente trasformate. Attività riparativa nei confronti degli oggetti interni sostenuta e alimentata fondamentalmente da sentimenti di amore, cura e preoccupazione nel pensiero di Melanie Klein, i cui collaboratori e seguaci – dalla Segal a Stoke, a Meltzer – hanno posto piuttosto l'accento sull'aggressività immanente nell'atto creativo e sulla possibile fantasia megalomanica che lo sostiene, mentre Paula Heimann ha sottolineato – e come non pensare ad un insight dolorosamente autobiografico – la necessità di distaccarsi e isolarsi dai propri oggetti per compiere, in solitudine, il laborioso travaglio della creazione.

Estese distruzioni, attivando l'angoscia relativa ad oggetti interni profondamente e irrimediabilmente danneggiati, sembra facciano sentire impossibile un'autentica riparazione, che per essere tale deve nascere da una profonda consapevolezza del danno arrecato; ma temibile, troppo temibile anche il trionfo megalomanico; e insostenibile l'abbandono: esse sembrano vincolare ad una fedeltà che si esprime nella ripetizione "come era, dove era". Se lo slancio creatore può nascere, nell'esperienza individuale, dalla possibilità di contemplare il vuoto (Klein 1929), nel "buco" delle macerie sembra esserci un eccesso di pieno che ha per effetto di non consentire un movimento trasformativo congelando gli investimenti narcisistici, cui viene permessa – quale unico sbocco – l'idealizzazione del passato.

Eredi dello scetticismo di Freud relativamente alla possibilità che la psicoanalisi avesse qualche chance di influenzare la vita politica, siamo ugualmente scettici circa la possibilità di influire, con i nostri modelli di comprensione, su teorie e prassi, che pure hanno come teatro di azione quel mondo nel quale i fantasmi interiori trovano innumerevoli possibilità di spostamento ed elaborazione simbolica. Ma se venissimo richiesti di esprimere un'opinione sul "come era, dove era"?

Abituati a rispettare, nel lavoro individuale, un'organizzazione difensiva che serve alla sopravvivenza, ma anche a riconoscere quando ormai non serve all'individuo che la usa, lo coarta, impoverisce la sua esperienza di vita e viene mantenuta per paura o inerzia, potremmo portare questo atteggiamento anche nella valutazione del "come era", riconoscendone la legittimità in momenti di strapotere delle forze emotive in campo.

L'Europa del dopoguerra non poteva probabilmente consentirsi un'esperienza di lutto, quel lutto che Freud riconosceva comportare dolore, fatica e tempo e trovare una conclusione nel ritiro degli investimenti affettivi dall'oggetto di cui, esperienza dopo esperienza, si constatava la perdita. A quel ritiro faceva seguito, o ne era in qualche misura concomitante, un processo della più alta importanza strutturante: l'assunzione dell'oggetto e la sua collocazione nel patrimonio mentale dell'Io (con parole altamente evocative dell'inflenza duratura e inalienabile dell'oggetto sull'Io, Freud aveva scritto nel 1916: "L'ombra dell'oggetto cade sull'Io"). Ai sopravvissuti della guerra non si poteva chiedere di constatare, giorno dopo giorno, che così larga parte di ciò che aveva costituito il loro habitat e la loro storia era andata perduta; di soffrirne e rimpiangerla; di ripensarla e mantenerla viva nel ricordo; e poi, lentamente, incominciare a ricostruire "all'ombra dell'oggetto", cioè con categorie operative della mente nutrite e arricchite dal passato.

Per potere ricominciare a vivere dovevano scomparire, dalle città e dalle menti, i cumuli di macerie; urgeva convincersi che tutto poteva tornare come prima; urgeva trovare rassicurazione nel pensiero che il mondo che i figli avrebbero ereditato non sarebbe stato un mondo depauperato di ciò che era stato sua ricchezza e suo vanto: il "come era, dove era" rispondeva a queste urgenze emotive e curava una collettività, salvandola forse dal pericolo di precipitare nel buco nero di una depressione senza scampo. Diverso, totalmente diverso, il retroterra culturale delle ricostruzioni attualmente in corso a Dresda ove stanno per essere completati la Frauenkirche, il Castello, lo Zwinger ed il teatro di Semper. Non sostenute da spinte emotive forti, dopo un tempo lungo che potrebbe avere permesso di metabolizzare almeno parzialmente quell'atroce lutto, quelle costruzioni acquistano la valenza di un gioco raffinato e sterile, estetizzante e vagamente perverso che, in un mondo sempre più povero di valori, trova un valore in un'area di "come se" culturale, che denuncia, drammaticamente, anche un vuoto di idee.

La Fenice? Dopo il "come era, dove era", è stato detto da più parti che non sarebbe possibile ricostruirla "come era" perché non ci sono gli artigiani capaci di rifare quegli inimitabili stucchi, parole che sembrano collocarsi in un'area intermedia tra lutto e mania perché, mentre riconoscono – realisticamente – un'impossibilità, lasciano pur vivere, in qualche zona remota della mente, l'idea che se ci fossero quegli artigiani… La Fenice…

Forse siamo abbastanza sani per potere rinunciare anche a questo pensiero segretamente consolatorio che rimanda la necessità del lutto e ci tiene ancora un poco nell'illusione; abbastanza sani per consentirci di sapere che "dove era" non c'è più e "come era" può solo essere ricordato, affidandosi alla memoria, alle cartoline o agli archivi. E con la ragionevole fiducia che potrà essere costruita un'altra Fenice, "sotto l'egida" della prima, come direbbe il Meltzer de "La rivoluzione permanente" (Meltzer 1973), ma non una sua copia.

SOMMARIO

Un evento che ha addolorato Venezia e il mondo – l'incendio della Fenice – ha suggerito una riflessione sugli effetti che la distruzione di significativi oggetti culturali ha sulla collettività, in particolare è stato descritto l'impatto destabilizzante sul senso di continuità del Sé, mescolato a vissuti di perdita oggettuale. Vengono prospettati i modi con cui la collettività fronteggia questo tipo di eventi, commentando l'uso, adottato in molte occasioni, di ricostruire secondo il modello originale: un uso che, sia pure basato su modalità molto primitive di funzionamento mentale, trova una legittimazione in situazioni di particolare gravità.

BIBLIOGRAFIA

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Freud S. (1894). Le neuropsicosi da difesa. O.S.F., 2.

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Freud S. (1916). Lutto e melanconia. O.S.F., 8.

Freud S. (1938). Compendio di psicoanalisi. O.S.F., 11.

Heimann P. (1957). Alcune considerazioni sulla sublimazione. In Bambini e non più bambini. Borla, Roma, 1992.

Klein M. (1929). Situazioni d'angoscia infantile espresse in un'opera musicale e nel racconto di un impeto creativo. In Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978.

Kohut H. (1971). Narcisismo e analisi del Sé. Boringhieri, Torino, 1976.

Meltzer D. (1973). Stati sessuali della mente. Armando, Roma, 1975.

Segal H. (1974). Delusion and Artistic Creativity. Int. Rev. Psycho-Anal., 1, 133-141.

Winnicott (1989). Esplorazioni psicoanalitiche. Cortina, Milano, 1995.

Per concessione della Rivista di Psicoanalisi; questo articolo è stato pubblicato nel numero 1 del 1997, pag. 51-61.

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