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Mancia M., Sulle molte dimensioni della memoria: neuroscienze e psicoanalisi a confronto. 2000

1. La memoria analitica

 

Il concetto di memoria attraversa tutta l’opera di Freud a cominciare con il Progetto di una psicologia del 1895. Qui Freud offre un modello di relazione mente/cervello e traccia, con un linguaggio apparentemente neurofisiologico ma di fatto metaforico, le linee essenziali della nuova psicologia che andava scoprendo (Mancia, 1987). Freud parte dal concetto che la memoria è una delle caratteristiche fondamentali del sistema nervoso, intesa come «facoltà di subire un’alterazione permanente in seguito ad un evento». Egli postula che da un lato i neuroni conservino traccia delle energie in essi fluite e dall’altro mantengano immutata le condizioni di ricettività originaria, così da poter realizzare ogni volta un approccio non precostituito al reale. La complessità del problema è risolta da Freud sostenendo che vi sono due classi di neuroni, i neuroni φ permeabili che soddisfano la funzione percettiva e i neuroni ψ impermeabili, che presiedono alle funzioni della memoria.

Nella concezione «idrodinamica» di Freud, l’energia nervosa è rappresentata come un fluido che, scorrendo, si scavi un passaggio nel contesto di un mezzo che gli oppone una certa resistenza, così che in una successiva occasione il fluido prenderà preferibilmente la strada precedentemente tracciata. Così i neuroni vengono alterati in modo permanente dal fluire dell’eccitamento. «La memoria è rappresentata dalle facilitazioni tra i neuroni ψ» (Ibid., p. 206), o meglio la memoria è rappresentata dalle differenze delle facilitazioni che esistono tra i neuroni in quanto la memoria stessa è costituita dal selezionarsi e distinguersi di una via di conduzione nervosa tra le altre. E i diversi gradi con cui la permeabilità dei neuroni viene alterata costituiscono la base su cui la selezione si inscrive.

La metafora idraulica del Progetto suggerisce che come un fiume si allarga e rende più profondo il proprio letto quanta più acqua vi scorre e quante più volte l’evento si ripete, così «la memoria [...] dipende da un fattore chiamato "entità dell’impressione", e dalla frequenza con cui una stessa impressione si ripete» ovvero «la facilitazione dipende dalla Qή che passa attraverso il neurone durante il processo di eccitamento e dal numero di ripetizioni del processo» (Ibid., p. 206).

In uno scritto successivo del 1923 (Nevrosi e psicosi), Freud ritornerà su questo punto, parlando di un «patrimonio mnestico di percezioni precedenti, che in quanto "mondo interiore" rappresentano un possesso ed un elemento costitutivo dell’Io stesso».

Nella Traumdeutung il concetto di memoria non cambia sostanzialmente. Immaginando l’apparato psichico come uno strumento composto di sistemi spazialmente orientati tra loro in modo costante, Freud (1900) scrive: «Supponiamo dunque che un sistema più avanzato dell’apparato accolga gli stimoli percettivi senza conservarne nulla, non abbia dunque memoria, e che dietro a questo si trovi un secondo sistema che traduce l’eccitamento momentaneo del primo in tracce durature» (p. 491-492). L’idea di fondo è ancora quella dei neuroni appartenenti ai due sistemi φ e ψ. Tuttavia ne L’interpretazione dei sogni è esplicitata una concezione molto più avanzata della memoria secondo la quale questa funzione è deputata a collegare tra loro le nostre esperienze e percezioni. Ma proprio negli anni in cui stava elaborando la sua teoria dei sogni, Freud pensava con curiosità alla dimenticanza dei fatti e delle esperienze dei nostri primi anni dell’infanzia. Egli sottolinea l’importanza patogena delle impressioni o esperienze della prima infanzia dimenticate perché rimosse ma capaci di lasciare «tracce indelebili» nella nostra mente (Freud, 1899). Freud sembra intuire qui il concetto di memoria implicita (caro alla psicoanalisi e alle neuroscienze contemporanee) ma per introdurne un altro: quello di ricordi di copertura, intesi come il risultato di una rimozione di alcuni fatti o di un loro spostamento su fatti contigui (in senso spazio-temporale). «I nostri primi ricordi infantili – sottolinea Freud – saranno sempre oggetto di particolare interesse perché il problema (...) come (...) sia possibile che le impressioni più importanti per tutto il nostro futuro non lascino di solito alcuna immagine mnestiche, induce a riflettere sulla genesi dei ricordi coscienti in generale» (p. 451).

Freud sembra riferirsi alla memoria implicita, ma non nell’accezione attuale. Egli pensa con questa idea di memoria di validare la sua ipotesi fondante l’inconscio: quella della rimozione. I ricordi di copertura sono per lui falsificazioni tendenziose della memoria che servono agli scopi della rimozione e della sostituzione delle esperienze perturbanti o spiacevoli, un po’ come il contenuto manifesto di un sogno nei confronti del contenuto latente.

Leggendo Ricordi di copertura, si ha l’impressione che Freud (1899) non abbia potuto cogliere l’importanza della memoria implicita nel processo ricostruttivo dell’analisi poiché interessato a privilegiare nella sua teoria della mente la fase edipica dello sviluppo, caratterizzata dallo sviluppo del linguaggio. Conseguentemente aveva sottovalutato le più profonde esperienze edipiche precoci (Klein, 1928, 214-226) riferibili ad epoche pre-verbali e che sono archiviate nella dimensione affettivo-emotiva della memoria implicita. È per questo che i riferimenti che appaiono in Ricordare, ripetere e rielaborare (Freud, 1914) sembrano diretti alla memoria esplicita o dichiarativa che può essere recuperata attraverso le associazioni libere dell’analizzato. Nel riferirsi ai ricordi di copertura come mascheramento delle esperienze memorizzate nell’infanzia e dimenticate, Freud sembra inoltre introdurre un’analogia tra memoria implicita e falsa memoria. I ricordi di copertura, infatti, presentano analogie con i falsi ricordi in quanto riguardano esperienze mai accadute e quindi mai vissute ma che si sono inserite «illegalmente» tra i ricordi della prima infanzia. Può essere interessante qui un richiamo alle esperienze neurocognitiviste più recenti che attribuiscono la memoria implicita e la falsa memoria alla funzione delle stesse strutture cerebrali (Schacter, Curran, 2000).

Freud ritorna al problema della memoria in analisi in Nota sul «notes magico» del 1924, in cui recupera le idee del Progetto di una psicologia del 1895. Com’è noto, il «Notes magico» è una tavoletta di resina o di cera ricoperta da un duplice foglio trasparente, che può offrire una superficie sempre disposta ad accogliere nuovi messaggi, ma anche a conservare tracce di annotazioni precedenti. Freud sottolinea le analogie tra il «notes» e la nostra memoria poiché il nostro apparato psichico è in grado di offrirci entrambe le prestazioni del «notes» in quanto si ripartisce fra due diversi sistemi tra loro interconnessi (i sistemi φ e ψ di antica memoria, appunto).

La nota sul «Notes magico» ci interessa in modo particolare perché è nel lavoro elaborativo e ricostruttivo in analisi che i due sistemi possono entrare in contatto. In questo caso gli eventi depositati e le emozioni vissute nel passato e archiviate nel sistema della memoria (implicita?) vengono riportate alla luce, rivissute nel transfert e rappresentate nel sogno. Freud dice che quel notes veramente e doppiamente magico siamo noi, che in opportune condizioni riusciamo a portare alla luce ciò che in noi si è inscritto. Queste condizioni sono quelle che si presentano nel lavoro analitico che tende a far sì che il paziente possa ripristinare il ricordo di determinati episodi nonché dei moti affettivi da essi suscitati, che al momento risultano in lui dimenticati. «Noi sappiamo – conclude Freud (1937) – che i suoi sintomi e le sue inibizioni attuali sono la conseguenza di tali rimozioni». Freud afferma, con una metafora storico-archeologica che compare ne Il disagio della civiltà (1930), che ciò che si è esperito non può comunque essere cancellato: «Da quando ci siamo accorti che sbagliavamo nel credere che il dimenticare presupponesse una distruzione delle tracce mnemoniche, abbiamo adottato il punto di vista opposto e ritenuto che nulla di quello che una volta si costituì nella nostra psiche possa poi perire; che tutto possa in qualche modo sopravvivere e, a certe condizioni, essere riportato alla luce delle coscienza (...) limitiamoci perciò a concludere che, per la nostra psiche, il fatto che il passato sopravviva nel presente è piuttosto la regola che l’eccezione» (pp. 562-564).

È dunque al passato che sopravvive nel presente che si rivolge il lavoro analitico in virtù della presenza del transfert che promuove il ritorno di relazioni affettive significative per il paziente. In Costruzioni nell’analisi, Freud (1937) entra nel vivo del problema della memoria e del ricordo, basi della costruzione analitica: al paziente il compito di ricordare, all’analista quello di «costruire il materiale dimenticato, a partire dalle tracce che di esso sono rimaste» (p. 543). A questo punto, Freud (1937) introduce un’altra e più precisa metafora archeologica, «il suo [dell’analista] lavoro di costruzione o, se si preferisce, di ricostruzione, rivela un’ampia concordanza con quello dell’archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio» (Ibid., p. 543). Freud sembra usare indifferentemente, come se fossero sinonimi, il termine costruzione e il termine ricostruzione, anche se quel «o se si preferisce» appare ai nostri occhi oggi carico di ambiguità (Mancia, 1998). Entrambi, l’archeologo e l’analista, ricostruiscono mediante integrazioni e ricomposizioni del materiale che si è ritrovato. Ma l’analista è più fortunato dell’archeologo perché lavora in condizioni più favorevoli. Questo perché il transfert è l’elemento che fa da motore alla ricerca e garantisce che le reazioni del paziente sono ripetizioni del passato, traggono origine cioè da epoche remote. Nel transfert, dunque, la storia passata ritorna; tutto l’essenziale vi è presentato e anche ciò che sembra dimenticato è ancora presente in qualche modo e in qualche parte. L’analista costruisce, recupera cioè per l’analizzando un brano della sua storia passata e dimenticata, il trauma rimosso che ha segnato le tappe più significative dello sviluppo della sua mente, sulla base di frammenti, ricordi, associazioni, sogni e altre sue manifestazioni. Il lavoro dell’analista è quello ad un tempo di storico e di archeologo che compie un lavoro che potremmo definire di «anastilosi» che da frammenti ricoperti di sabbia gli permette di recuperare e ricostruire, ad esempio, un’antica colonna o un antico tempio e dare loro un nuovo significato. Ma in modo più specifico l’analista opera come un «trasformatore di memoria» del trauma rimosso così che il «fantasma» (persecutorio) creato dal trauma e il cui ricordo è fonte di sofferenza, sia elaborato e trasformato in fantasia e in pensiero (Giaconia e Racalbuto, 1997).

Ma in che cosa consiste la storia passata e dimenticata? È la storia relazionale dei primi periodi preverbali della vita nascosta nella memoria implicita che appare oggi fondante l’organizzazione della personalità e del carattere dell’individuo.

Lo studio dello sviluppo della mente infantile a partire da prima della nascita conferma l’importanza della memoria nella organizzazione delle sue prime rappresentazioni. Le esperienze sensoriali del feto all’interno della cavità endouterina e in particolare quelle senso-motorie e uditive, ritmiche e costanti che riceve dal contenitore materno e dall’ambiente esterno, partecipano alla formazione di una memoria di base che assisterà il bambino alla nascita e gli permetterà di vivere una continuità psichica nel passaggio dall’ambiente interno a quello esterno, passaggio non privo di una certa traumaticità fisiologica (Mancia, 1981). Alla nascita le esperienze del neonato e conseguentemente la loro memoria, si condensano sulla sensorialità: l’odore della madre, le sue parole, il modo con cui il neonato si sente contenuto e guardato veicolano cariche affettive fondamentali per l’organizzazione delle sue prime rappresentazioni. Queste dunque sono intrise di memoria. Il loro ricordo si integrerà con la memoria di base e comincerà a riempire quello spazio metaforico che chiamiamo mondo interno del bambino. Questo dunque non sarà soltanto il contenitore di un desiderio rimosso, ma anche di quella processualità traumatica (macro e microtraumatica) che ha caratterizzato le prime esperienze preverbali del bambino e di quelle difese (come la scissione e la identificazione proiettiva) che questi ha dovuto mettere in opera per ridurre la sua angoscia. Stiamo parlando qui di un nuovo modo di concepire l’inconscio rispetto a Freud, un insieme di processi (non solo collegati al desiderio) archiviati nella memoria più arcaica, che non hanno raggiunto la coscienza ma che continuano ad operare anche nell’adulto e che ritroviamo nel transfert e in particolare nel sogno, teatro per eccellenza della memoria. È questa la memoria implicita o procedurale che interessa le neuroscienze (Schacter, Curran, 2000) e la psicoanalisi attuale (Fonagy, 1999) e di cui parlerò in seguito.

Il sogno è il luogo privilegiato dove la memoria può operare senza resistenze, presentando non solo il desiderio che era stato archiviato con la rimozione, ma tutta quella processualità traumatica, di cui ho appena parlato, con le difese che caratterizzano la personalità del sognatore, come la scissione e la identificazione proiettiva. Quest’ultima poi opera in modo massivo nel sogno permettendo a parti del Sé e ai loro conflitti inconsci di manifestarsi. La memoria e in particolare quella implicita, quindi, per noi oggi più che per Freud, entra a far parte attiva del processo analitico e del sogno, dove l’attivazione della memoria permette un confronto tra le esperienze attuali e quelle del passato, un pontifex, che collega la realtà attuale con l’esperienza di un tempo e unisce in una situazione unica il mondo oggettuale dell’adulto con quello del bambino, che si è formato in epoca preverbale.

La memoria si inserisce così nella esperienza del transfert e diventa, dello stesso, parte integrante e struttura ontologica. Memoria intesa, per noi oggi, non tanto nel senso di una riattivazione di esperienze storicamente definibili quanto nel senso di una facilitazione del confronto e della integrazione del vissuto attuale e di quello di un tempo riattivato dal transfert. Memoria quindi come processo centrale della ricostruzione in analisi, intesa non tanto in senso storico quanto come processo di recupero emozionale e affettivo delle esperienze passate e dimenticate e loro integrazione con le esperienze attuali vissute nel transfert. Quindi come passaggio obbligato nel collegare le emozioni e le modalità difensive presenti nel transfert con le esperienze vissute dal paziente con le figure più significative della sua infanzia e archiviate nella memoria implicita. Il recupero di questa memoria diventa, nel contesto dell’analisi e in particolare del sogno, la base per ciò che Freud ha definito come Nachträglichkeit, intesa come capacità della mente di rivivere antiche esperienze e attribuire loro nuovi significati attraverso una ritrascrizione della memoria resa possibile dalla relazione analitica. Le scienze cognitive (Schacter, Curran, 2000, 829-840) e la neurobiologia (Kandel, 1998) convengono con la psicoanalisi attuale (Fonagy, 1999) nel parlare di due sistemi di memoria che possono operare nella mente umana: la memoria esplicita o dichiarativa e la memoria implicita o procedurale. La prima raggiunge la coscienza, riguarda il passato e fa parte della memoria autobiografica; la seconda non raggiunge la coscienza, si collega alle esperienze dimenticate più arcaiche delle prime relazioni del bambino e può essere conosciuta o recuperata solo attraverso una esperienza soggettiva o nelle rappresentazioni del sogno. Essa è presente nel transfert e, in virtù di modalità preverbali, in particolare la identificazione proiettiva, può essere riconosciuta attraverso i sentimenti controtransferali che induce nell’analista. Le esperienze dimenticate e archiviate in questo sistema non possono essere «ricordate» come può accadere per la memoria esplicita o dichiarativa, né possono essere verbalizzate (trattandosi di esperienze pre-verbali), ma solo rappresentate e rivissute nel transfert e nel sogno.

La ritrascrizione della memoria, a partire dalla implicita, permette la storicizzazione dell’inconscio e un vissuto di continuità rispetto alle esperienze discontinue distribuite diacronicamente nel tempo. Resistenze e difese possono operare nel sogno e nel processo analitico opponendosi proprio all’attivazione della memoria e alla formazione del pensiero capace di funzioni elaborative e simboliche. Ecco perché l’attacco alla memoria diventa anche un attacco all’analisi e alla ricostruzione (spesso dolorosa) che l’analisi comporta.

In sintesi, memoria implicita e memoria esplicita partecipano ambedue al processo analitico. La prima permette un recupero di esperienze preverbali (e forse prenatali) che hanno partecipato in maniera fondante alla costruzione del mondo interno del bambino; la seconda, oltre al recupero di esperienze passate nel corso della vita, ha il compito di facilitare l’emergere della memoria implicita nel processo di ricostruzione (Holmes, 2000). Presa nel suo insieme, la memoria in analisi: a) collega le esperienze delle varie sedute e rende quindi continua una relazione analitica discontinua; b) promuove il ricordo di esperienze passate attraverso il recupero della memoria esplicita; c) promuove il recupero di esperienze preverbali più arcaiche, depositate nella memoria implicita, essenziali al processo di ricostruzione; d) promuove il ricordo dei sogni e, attraverso di essi, la rappresentazione di quelle esperienze che non possono essere verbalizzate; e) promuove l’elaborazione di quanto viene detto e vissuto in seduta anche al di fuori di essa; f) mantiene nella separazione la rappresentazione interna dell’analista come oggetto di contenimento stabilizzante il mondo interno del paziente.

 

2. La memoria biologica

 

Trascuro per ragioni di spazio le esperienze più classiche e le osservazioni che la clinica neurologica e la neuropsicologia hanno portato per chiarire i meccanismi cerebrali della memoria a breve (operativa) e a lungo termine. Mi limiterò alle esperienze più recenti che provengono dalle neuroscienze cognitive e dalla biologia molecolare. La memoria operativa si organizza essenzialmente nella corteccia prefrontale dove neuroni specifici organizzano «campi di memoria». Essi sono un esempio di compartimentalizzazione del processo di memorizzazione poiché ciascun neurone si attiva selettivamente per una specifica informazione (ad esempio un volto o un oggetto con specifica forma) ed è collegato funzionalmente con altre aree associative e in particolare con la parietale posteriore (Goldman-Rakic et al., 2000, 733-742). Il lobo temporale mediale è l’organo per eccellenza della memoria, immagazzinando informazioni nella corteccia rinale (che include sia la interinale che la peririnale) considerata responsabile del riconoscimento di oggetti nella loro forma e della loro memorizzazione. L’ippocampo partecipa alla localizzazione dell’oggetto nello spazio mentre l’amigdala è essenziale per le risposte emozionali che l’oggetto può evocare (Murray, 2000, 753-763).

Particolare attenzione nelle neuroscienze cognitive è stata dedicata alla distinzione tra memoria dichiarativa o esplicita e memoria non-dichiarativa o procedurale o implicita. La memoria implicita si esprime attraverso il comportamento del soggetto senza che ci sia un ricordo cosciente. Essa comprende molte abilità di tipo motorio e percettivo, come il priming (inteso come abilità del soggetto di identificare uno stimolo come risultato di una sua precedente esperienza), l’apprendimento grammaticale e categoriale (Schacter, Curran, 2000). La memoria implicita non dipende dall’attività del lobo temporale mediale e delle strutture diencefaliche che sono invece indispensabili per la memoria dichiarativa. Le strutture coinvolte nella memoria implicita sembrano essere piuttosto le aree corticali associative posteriori e, per l’attività motoria, altre strutture come i nuclei della base e il cervelletto (Markowitsch, 2000, 781-795). La memoria esplicita si riferisce ad eventi che sono ricordati coscientemente. Essa dipende dall’integrità del lobo temporale mediale (corteccia rinale e paraippocampale), dell’ippocampo e dei nuclei diencefalici della linea mediana. L’amigdala, indispensabile per il ricordo di emozioni, non appare indispensabile per la memoria dichiarativa (Squire, Knowlton, 2000, 765-799).

La ricerca biologica più attuale ha portato un contributo molto rilevante allo studio dei meccanismi molecolari responsabili dell’archiviazione delle informazioni. Il presupposto della biologia molecolare è che il processo stesso della memoria si realizzi attraverso degli eventi biochimico-molecolari e strutturali che si mantengono nel tempo nell’ambito dei punti di congiunzione dei neuroni e cioè nelle sinapsi. Le sinapsi sono organismi molto complessi che funzionano in virtù del potenziale d’azione che raggiunge il bottone presinaptico e produce una serie di eventi fisiologici: entrata dello ione Ca++ nella membrana presinaptica, rottura delle vescicole contenenti il trasmettitore chimico, unione del trasmettitore con il recettore proteico specifico situato nella membrana post-sinaptica, variazione di permeabilità della membrana stessa a determinati ioni e conseguentemente modificazioni funzionali della sinapsi. I canali della membrana pre- e post-sinaptica sono formati da proteine che a loro volta sono espresse da geni in ciascun neurone. È attraverso un’azione sulla espressione genica del neurone che lo stimolo o l’esperienza può modificare nel tempo la funzione della sinapsi, essenzialmente agendo sull’organizzazione proteica della membrana presinaptica che regola l’entrata del calcio da cui dipende la potenza stessa della sinapsi (Mancia, 1995).

Le prime esperienze su queste strutture altamente differenziate hanno dimostrato che se, ad esempio, si stimola una radice dorsale del midollo spinale (che conduce la sensibilità) con impulsi elettrici ad alta frequenza (tetanizzazione) e si registra la risposta riflessa dalla radice ventrale (che conduce la motricità) che è collegata con la radice dorsale da un’unica sinapsi, ci si accorge che a seguito di questa stimolazione la normale risposta è potenziata e questo potenziamento rimane nel tempo (potenziamento post-tetanico). Questo semplice esperimento suggerisce l’ipotesi che a livello di questa congiunzione sinaptica del midollo spinale siano avvenute delle stabili modificazioni plastiche strutturali della membrana che si rendono responsabili della persistenza nel tempo del fenomeno del potenziamento (Bliss & Lömo, 1973). Alla stessa conclusione portano i più vecchi esperimenti della Di Giorgio (1929) relativi alla persistenza nell’animale spinale di asimmetrie posturali e motorie indotte dall’ablazione cerebellare precedente al taglio spinale.

Un contributo interessante alla memoria biologica viene dagli esperimenti di «potenziamento a lungo termine» (LTP), che consistono nel dare stimolazioni ripetute a delle strutture centrali (ad esempio l’ippocampo) che potenziano le loro risposte per un lungo periodo di tempo come se avessero conservato «memoria» dello stimolo ricevuto (Kornhuber, 1978). Le sinapsi, dunque, con ripetute stimolazioni possono andare incontro a delle modificazioni plastiche strutturali: ipertrofia e creazione di nuove sinapsi per stimoli ripetuti, atrofia e riduzione del numero delle stesse per mancanza di stimoli.

Un notevole passo avanti nella comprensione dei fenomeni biologici responsabili della memoria è stato compiuto dalle ricerche neurochimiche di Stephen Rose (1992). Questo autore ha potuto mettere in evidenza nei pulcini una memoria genetica affidata al DNA dei cromosomi. Questo tipo di memoria permette a questi animali un comportamento particolare innato in presenza di determinati stimoli. L’apprendimento dunque prodotto da questi stimoli (una figura in movimento, come nell’esempio classico dell’anatroccolo descritto da Lorenz) dura tutta la vita ed è fondamentale per la sopravvivenza della specie. Lo stesso autore ha poi dimostrato che durante questo apprendimento il cervello va incontro a delle alterazioni biochimiche che riguardano l’acido ribonucleico (RNA) che è implicato nella sintesi proteica. È la sintesi proteica allora che diventa importante per la formazione di nuove proteine e quindi di nuove sinapsi che diventano responsabili di nuove reti e di nuovi circuiti che premettono di consolidare a lungo termine le informazioni ricevute.

Numerose sono le prove oggi che nella memorizzazione a lungo termine anche di un determinato comportamento motorio (nello sport o nel suonare degli strumenti) si ha un aumento dei livelli di RNA nelle sinapsi dei neuroni coinvolti e quindi un aumento della loro sintesi proteica che facilita l’ipertrofia delle sinapsi, l’organizzazione di nuove sinapsi e quindi nuovi circuiti nervosi.

Molto recentemente, Kandel et al. (1994) hanno studiato il fenomeno dell’apprendimento e sua memorizzazione in un mollusco marino, l’aplysia californica. In questo animale, la stimolazione ripetuta del sifone produce una retrazione della branchia. Questo riflesso elementare che coinvolge essenzialmente due o tre neuroni, può andare incontro ad abitudine. Quest’ultima è una forma elementare di apprendimento che si mantiene nel tempo e che consiste nella diminuzione progressiva dell’intensità della risposta, fino alla sua scomparsa per ripetute stimolazioni. Registrando dai neuroni coinvolti nel riflesso, Kandel ha potuto dimostrare che per stimolazione ripetuta i potenziali post-sinaptici eccitatori di questi neuroni diminuiscono progressivamente di ampiezza fino a scomparire. La causa di questo processo è rappresentata da una inattivazione dei canali del Ca++ della terminazione presinaptica. Questa è conseguente ad una modificazione dei canali ionici prodotta da un cambiamento dell’espressione genica che induce una variazione, che si mantiene nel tempo, della sintesi proteica della membrana pre-sinaptica. Al contrario dell’abitudine, nella sensibilizzazione del riflesso (un’altra forma di apprendimento che può essere memorizzata) si ha una facilitazione pre-sinaptica da parte di sinapsi axo-axoniche che usano la serotonina come trasmettitore. Tale facilitazione, che si mantiene nel tempo, è prodotta da un aumento dell’ingresso di ioni Ca++ conseguente ad una variazione della sintesi proteica della membrana presinaptica caratterizzata da un aumento del numero dei contatti sinaptici e delle vescicole dei neurotrasmettitori.

Stickgold et al. (2000) hanno sottoposto dei soggetti con lesioni bilaterali del lobo temporale e dell’ippocampo all’apprendimento di un semplice gioco prassico al computer di organizzazione spaziale per poter saggiare le loro capacità di memorizzazione. I soggetti normali, dopo alcune prove, non avevano difficoltà a ricordare il gioco. I soggetti con lesioni ippocampali avevano una completa amnesia del gioco appreso, ma all’addormentamento potevano sognarlo. L’interesse di queste ricerche sta nel fatto che è possibile memorizzare un apprendimento anche al di fuori dell’ippocampo attraverso circuiti che permettono l’immagazzinamento dell’informazione direttamente nella neocorteccia. Questi esperimenti dimostrano anche che la memoria dichiarativa era abolita dopo lesione ippocampale, ma che una memoria «non cosciente» poteva essere rappresentata nel sogno durante l’inizio del sonno (una forma di memoria implicita o procedurale). Questi autori non parlano di alcune specifiche aree corticali coinvolte. Sia le esperienze di Sperry (1974) in soggetti commissurotomizzati che quelle più recenti in primati (Schacter, Curran, 2000) suggeriscono l’ipotesi che l’immagazzinamento di questa informazione non-cosciente possa coinvolgere le aree corticali posteriori (parieto-occipitali) in particolare dell’emisfero destro.

 

3. Neuroscienze e psicoanalisi a confronto

 

Le prime domande che vengono alla mente sono le seguenti: che relazione può esistere tra l’approccio neuroscientifico alla memoria e l’uso che della memoria viene fatto in analisi nell’ambito di una relazione basata sul transfert e il controtransfert? Quali sono, se ci sono, i punti di intersezione tra psicoanalisi e neuroscienze riguardo alle due essenziali forme di memoria: la esplicita o dichiarativa e la implicita o procedurale? Poiché la memoria (in particolare la implicita) ha le sue radici nell’inconscio, che relazione può esistere tra i vari concetti di inconscio che sono stati elaborati in questi anni, a partire dall’inconscio dinamico di Freud sino all’inconscio della psicoanalisi più attuale e il concetto di inconscio proposto dalle neuroscienze? Che relazione esiste tra il concetto di «inconscio» proprio della psicoanalisi e quello di «non-consapevolezza» o «non conscio» che interessa la neuropsicologia? Innanzitutto, come ho descritto nel corso di questo lavoro, è necessario riconoscere il significativo contributo che alcuni neuroscienziati hanno portato alle trasformazioni biologiche che sottendono l’archiviazione delle esperienze nella memoria a lungo termine. Mi riferisco, in particolare, all’imponente lavoro di Eric Kandel (1998) che ha proposto una «cornice» biologica all’interno della quale inserire i processi psicologici e psicoterapeutici. Per questo autore, tale «cornice» può riassumersi in cinque principi:

a) tutti i processi mentali normali e patologici derivano da operazioni del cervello;

b) i geni e le loro espressioni proteiche determinano i pattern di interconnessione tra i neuroni, quindi una componente della malattia mentale è genetica;

c) fattori relazionali e sociali esercitano un’azione sul cervello modificando la funzione dei geni, cioè la loro espressione proteica che interessa le sinapsi e quindi i circuiti neuronali. Ne consegue che la «cultura» può esprimersi come «natura»;

d) anomalie psichiche indotte da situazioni relazionali e sociali possono essere prodotte attraverso modificazioni dell’espressione genica delle proteine;

e) la psicoterapia può produrre cambiamenti a lungo termine del comportamento agendo sull’espressione genica delle proteine che modificano la struttura e la potenza delle sinapsi neuronali.

Quest’ultimo principio è particolarmente interessante per il problema dell’interazione tra psicoanalisi e neuroscienze. La regolazione, infatti, dell’espressione genica da parte di esperienze relazionali fondate sulla parola, affetti ed emozioni, così come da parte di fattori sociali, fa sì che queste esperienze siano incorporate biologicamente nell’alterata espressione proteica di geni specifici in specifiche cellule nervose di specifiche regioni del cervello.

Su questa base, dal momento che le esperienze relazionali possono modificare l’espressione genica, modificando il legame dei regolatori di trascrizione del DNA tra loro e con le regioni regolatrici dei geni, può essere legittimo avanzare l’ipotesi che diversi disturbi della personalità dalla nevrosi alla psicosi risultino da difetti reversibili nel sopradescritto processo di regolazione genica.

È chiaro che queste trasformazioni non sono trasmissibili geneticamente in quanto non riguardano la struttura dei geni, ma la loro funzione. Esse dunque costituiscono l’essenza della evoluzione culturale cui va attribuito il grande cambiamento che ha interessato l’umanità nel corso dei millenni. Poiché non c’è apprendimento né esperienze interpersonali, né cultura, senza modificazioni dell’espressione genica, possiamo supporre – è l’idea di Kandel (1998) – che ogni processo mentale sia in una certa misura organico. Anche se la tecnologia attuale, per quanto sofisticata, non permette di osservare direttamente quelle modificazioni a livello cellulare o sinaptico, che sottendono il processo in questione.

Per la verità storica, vorrei qui ricordare che circa venti anni fa, in una ricerca su bambini e adolescenti con manifestazioni di tipo epilettico (documentate elettroencefalograficamente), Mariateresa Bonaccorsi (1980) ha potuto osservare in questi pazienti significative modificazioni dell’elettroencefalogramma parallelamente a un miglioramento del quadro clinico a seguito di intervento psicoterapeutico. Questa osservazione, a quel tempo, non aveva possibilità di una spiegazione soddisfacente sul piano scientifico. Oggi, dopo la ricerca di Eric Kandel, possiamo pensare che anche in quei casi una prolungata psicoterapia avesse potuto modificare l’espressione genica di alcune proteine e quindi cambiare l’attività di sinapsi, neuroni e circuiti, responsabili della patologia di quei pazienti.

Riguardo all’ultima questione da me posta e cioè del rapporto tra il concetto di inconscio scoperto da Freud e quello di non-conscio o non-consapevole usato dalle neuroscienze, penso sia importante definire questi concetti per evitare pericolose confusioni semantiche ed epistemologiche.

Le esperienze neuroscientifiche, e in particolare neuropsicologiche, riguardano essenzialmente la non-consapevolezza di un evento. Ad esempio, non si è consapevoli dello spazio extracorporeo (neglect), del tempo, di parti del proprio corpo (asomatognosia), di volti familiari (prosopoagnosia), della propria malattia (anosognosia), del significato di una percezione o di una esperienza (agnosia visiva, uditiva, ecc.). Queste non-consapevolezze non riguardano il proprio Sé in quanto non sono radicate nella storia affettiva ed emozionale del soggetto né nella sua memoria implicita. Questi ultimi aspetti invece riguardano essenzialmente il concetto di inconscio della psicoanalisi sia nella sua dimensione freudiana classica di inconscio dinamico legato alla rimozione che nella sua dimensione più attuale, non rimotiva legata alle esperienze affettive e alla processualità traumatica essenzialmente preverbale e presimbolica delle prime relazioni del bambino con l’ambiente, archiviate nella memoria implicita. L’inconscio della psicoanalisi attuale è il contenitore di queste esperienze relazionali che hanno prodotto rappresentazioni interne delle figure più significative e modalità difensive tra cui emergono la scissione, l’identificazione proiettiva, la negazione e l’idealizzazione. Esso dunque ha una storia affettiva che si manifesta nel presente ma è radicata nell’infanzia e può spingersi indietro fino all’epoca prenatale. Questo inconscio è il referente esclusivo e specifico della psicoanalisi.

 

 

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Articolo pubblicato sulla rivista Psiche, 2000 (2), pp. 181 - 192

 

Vedi anche

Report di Veronica Nicoletti su “Archeologia della mente. Le difese come regolazioni adattative” (16 gennaio 2021)

 

Report di Pirrongelli C., L'inconscio oggi: intrecci prospettici tra Psicoanalisi e Neuroscienze (Società Psicoanalitica Italiana, Webinar 26 settembre 2020)

 

Report di Elisabetta Greco sulla Giornata Seminariale "Gruppo di studio: Archeologia della mente. I sistemi motivazionali/emozionali nella dinamica delle relazioni umane" (14 gennaio 2017)

 

 

 

 

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