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Ciocca A. - Dissociazione psicosomatica ed autosensualità nelle anoressie e bulimie (2009)

20 marzo 2009

Dissociazione psicosomatica ed autosensualità nelle anoressie e bulimie.

Antonio Ciocca 

ABSTRACT

L’osservazione psicoanalitica mette in luce fenomeni di profonda disarmonia del rapporto corpo/mente come la dissociazione psicosomatica e la autosensualità per cui il corpo diventa un oggetto persecutorio e la mente si chiude in se stessa e diventa un sistema autoriverberante. La psicoanalisi corre allora il rischio di colludere con questi processi considerando il corpo come fosse solo un oggetto mentale, un prodotto della attività mentale della persona. Se consideriamo il corpo nella sua realtà sensoriale e la mente come un apparato che modula, elabora e trasforma questa realtà sensoriale, possiamo riflettere che il corpo è l’occasione della nascita, crescita ed evoluzione dei processi mentali ma anche il loro limite critico, il limite critico della onnipotenza della mente. Gli esempi clinici mostrano come la percezione della sensorialità possa diventare in analisi un fattore di contenimento, integrazione e trasformazione.

 1- Qualche considerazione iniziale. Parlo di anoressie e bulimie al plurale, perché vorrei suggerire una molteplicità e diversità di situazioni e di cause che però nel lavoro di questa sera resteranno necessariamente sullo sfondo. Cercherò infatti di mettere a fuoco un unico aspetto, quello che riguarda il vissuto del corpo, il nucleo più intimamente soggettivo di angosce e difese che a mio parere le caratterizza. Per esplorare questo vissuto, propongo i concetti di dissociazione ed autosensualità. Essi riguardano una visione “drammatica” del rapporto corpo-mente in cui il vissuto della identità si può spaccare fino a costituire corpo e mente come estranei ed in conflitto tra loro. Mi servirò poi di un breve passo dall’analisi di una paziente anoressica per proporre alla discussione il problema di come questi fenomeni, al limite tra fisico e mentale, possono essere affrontati nella clinica.

2- Nella anoressia il conflitto con il proprio corpo va ben al di là del sintomo alimentare e non può essere ricondotto solo alle difficoltà legate alla immagine estetica o sessuale. Basti pensare ai casi di grave anoressia in ragazze congenitamente cieche studiate da Bemporad (1989). Il conflitto riguarda in modo profondo l’esperienza stessa del corpo, di avere un corpo, anzi, di essere un corpo. L’esperienza anoressica  può essere compresa come una forma di dissociazione psicosomatica (Sacksteder,1989): quando si perde l’interezza ed integrità del vissuto e la persona vive e si percepisce come se fosse divisa tra corpo e mente, tra esperienze fisiche ed esperienze mentali. 

3- Ma di che corpo si tratta?

Ad un certo punto della sua analisi, una grave paziente anoressica mi dice di non voler più vomitare perché si è accorta dell’odore “schifoso” del suo vomito che, in precedenza, non aveva mai percepito. Anzi, aggiunge, con il rigurgito percepiva il sapore dei cibi che invece, osserva pensierosa, non sentiva al momento della loro ingestione.

Il corpo con cui la paziente ha a che fare non è più un corpo reale con il suo flusso di sensazioni, un oggetto reale in contatto con la realtà ma un oggetto mentale, una creazione od un prodotto della sua attività mentale. Il corpo è il tramite della realtà, ed il suo controllo mentale può dare l’illusione del controllo della realtà, in particolare l’illusione, come per un atto di magia, di poter tener ferma la realtà che cambia. Un desiderio folle perché naturalmente il corpo non può che continuare a dar segnali di sé e quindi anche della realtà, anzi segnali sempre più forti ed intensi che tendono ad invadere tutta la mente della paziente, che non le permettono di pensare ad altro e la costringono a non riuscire mai a fermarsi nella ricerca di quel peso zero capace di far infine tacere il corpo.

4- Quando la mente si dissocia dal corpo non può più fare esperienza della realtà e nemmeno quindi evolvere con essa e così si trasforma in un sistema chiuso in se stesso, autoriverberante (Ferrari, 1992). In tali condizioni, le operazioni di pensiero non mirano più ad elaborare il significato della realtà ma a proteggersene, a rendere irreale la realtà stessa, cioè a sostituirsi ed a fare meno della realtà.  

Come esempio vorrei citare Dora, il suo secondo sogno. Ricordate: lei è sola, una città che non conosce, il padre è morto, tutti sono al cimitero; e poi la Madonna Sistina, la donna inviolata, e la statua: scomparse le fiamme dell’incendio del suo primo sogno, quelle per cui voleva tornare alla sua infanzia quando l’amato padre la proteggeva, ora più nessun pericolo dalle emozioni. E vorrei ricordarvi l’aggiunta al sogno: “Vado in camera mia ma niente affatto triste e comincio a leggere un grosso libro che sta sul mio scrittoio.” La Fisiologia dell’amore di Mantegazza, il libro della sua curiosità sessuale e della complicità tradita con Peppina, la Signora K. Allora, per Dora non c’è più bisogno di vivere le emozioni, affrontare l’incendio che esse provocano, basta leggere, “pensare” invece di vivere: questa è la soluzione anoressica (blühend).

5- Onnipotenza/impotenza della mente.

Quando si perde la possibilità di un funzionamento armonico tra corpo e mente, da una parte la mente perde il legame con la esperienza e con la realtà dall’altra il corpo diventa un insieme di sensazioni fisiche scisse e persecutorie. Ricordo alcuni concetti della letteratura psicoanalitica: l’intelletto scisso di Winnicott (1949), la intellettualizazzione di Anna Freud (1936), il conflitto di Bion tra pensiero e azione che proprio Paola Camassa (1998) ha utilizzato per illuminare la dinamica della anoressia  ed anche concetti psicologici come la idealizzazione di Mary Main (1994). Che sia, in origine, un atto di onnipotenza o di impotenza o meglio di entrambi, quando si produce questo tipo di scissione nella personalità e la mente si separa dal corpo, il lavoro di analisi diventa estremamente difficile e richiede all’analista di prestare la massima attenzione ai fenomeni di confine tra fisico e psichico dove si gioca la scissione e quindi anche la sua possibilità di ricomposizione.

6-  Il valore della sensorialità.

Ho notato che, con le pazienti anoressiche, è spesso la comparsa della sensorialità, la prima percezione di una sensazione, cominciare a sentire ed a sentirsi a segnalare un cambiamento decisivo nella loro esperienza, cambiamento che, a questi livelli, posso rappresentare con l’immagine di  un rivolgimento della mente di nuovo verso il corpo e non più via dal corpo. Può trattarsi di percezioni elementari: “Sono stanca”, “Ho caldo”, “Ho freddo”, “Il cuore mi batte” o più complesse: “Mi scusi, il mio stomaco ha fatto crac-crac”. Una paziente mi disse di aver provato fame per la prima volta ma che questo non l’aveva portata a pensare di mangiare, ma solo ad aspettare che le passasse, come se la percezione del bisogno rimanesse confinata fuori dal processo mentale. In  un’altra paziente, invece, la percezione della sete aveva potuto attivare la sua capacità di provvedere ai suoi bisogni (Cargnelutti et al., 2002).  

Nel lavoro analitico prestare un’attenzione sistematica in seduta alle manifestazioni del rapporto dinamico corpo-mente permette di cogliere la mancanza di contatto, i livelli di conflitto, i blocchi, le inversioni di direzione. Nell’esperienza vissuta del paziente la percezione della sensorialità va considerata, ed è, in quel momento per quella persona il tentativo di massima integrazione possibile, tentativo che deve essere valorizzato analiticamente per mostrare al paziente come la sua mente funzioni per accogliere e tollerare le sensazioni oppure per evitarle e cancellarle.

7- Come trattare il corpo?

L’importanza del corpo, della fisicità stà ricevendo un ampio riconoscimento nella letteratura psicoanalitica. Per riferirmi solo all’ambito intersoggettivo, molto sensibile a questi temi, ricordo Mitchell (1996) ed i due libri nati dal lavoro di ricerca da lui promosso (Aron e Sommer Anderson,1998 e Sommer Anderson, 2007).

Ma proprio questi esempi rivelano come ancora oggi il corpo sia un oggetto difficile da focalizzare dentro il campo di osservazione analitica, un oggetto che tende a rimanere sostanzialmente extra-analitico. Ed a questo proposito Meissner ha notato come sia spesso proprio l’atteggiamento mentale dell’analista a costituire un ostacolo da elaborare (Meissner, 2007). Ed infatti è facile accorgersi quanto nella nostra esperienza quotidiana siamo portati a svalutare tali fenomeni come spesso mostra anche la terminologia che usiamo in modo quasi automatico: contenuto povero della seduta, solo sensazioni, mancanza di simbolizzazione, paziente antianalitica, tanti agiti, nessun pensiero … Proprio il sottotitolo del libro Bodies in Treatment: The Unspoken Dimension ci permette una riflessione. Non ancora detto è come se il rapporto dinamico corpo-mente lo vedessimo sempre dall’alto, notando quello che manca ad essere pienamente detto. Ma se proviamo a vedere dal basso, allora potremmo renderci conto che non si tratta di un difetto della simbolizzazione o della comunicazione, ma della forza stessa delle cose.

In effetti, per percepire ed apprezzare questi fenomeni  è utile avere l’aiuto di una teoria psicoanalitica capace di porre in continuità fisico e psichico: sensorialità, emozione e pensiero e che, come la Griglia di Bion,  permetta di considerare come la mente funzioni e si disponga non solo verso i suoi prodotti più evoluti (pensieri, sogni, racconti…) ma anche verso i suoi elementi più sensoriali e basici: sensazioni, percezioni, emozioni incoate, tutto quello che Bion chiama elementi β.

8- Autodistruttività e percezione del corpo.

Recenti dati epidemiologici svedesi segnalano un rischio di morte sei volte più alto che nella popolazione generale. L’autodistruttività nelle anoressie è ben conosciuta nella letteratura psicoanalitica, l’anoressia come lento suicidio, l’impermeabilità alla terapia. Ricordo il lavoro straordinario di Thomä (1967) sulla angoscia di morte e la sua negazione e prima ancora gli studi sui sogni di morte di von Weizsäcker nel 1937. E poi il caso Ellen West descritto da Binswanger nel 1944 incentrato sulla morte che la paziente ed il medico accettano in una sorta di tragico suicidio assistito. Vita e morte possono però intrecciarsi in modi profondamente enigmatici.

Vi sono fenomeni autolesivi come ferirsi, tagliarsi, farsi del male che hanno spesso un significato vitale: alleviamento della angoscia, difesa dalla dissociazione, generazione di sensazioni e stati d’animo, ricerca del contatto con il corpo, un modo non per fuggirlo ma per farne esperienza.

Caroline Kettlewell, che si tagliava le braccia, in Skin Game (1999) così ricorda la sua esperienza: “Quella prima volta, a dodici anni, fu come un miracolo, una rivelazione. La lametta scivolava facilmente, senza dolore nella mia pelle. Come un fulmine segnò una divisione definitiva tra prima e dopo. Tutte le sensazioni caotiche, i rumori e la furia, l’incertezza, la confusione, la disperazione svanirono istantaneamente e per la prima volta mi sentii solida, coerente, intera. L’indistruttibile sè. Avevo tracciato un confine, segnato il mio corpo come mio, la carne ed il sangue che mi appartenevano”.

La sensorialità in tutte le sue manifestazioni è stata spesso intesa solo come una barriera autistica impenetrabile allo strumento analitico. Ma questo è un limite del nostro modo di vedere le cose troppo “mentalizzato”.

La ricerca del contatto con il corpo, con la fisicità è spesso in primo piano nella esperienza di quelle ragazze ed è il suo ripetuto fallimento che innesca comportamenti abusivi e trasgressivi in tutti i campi, non solo quello alimentare alla ricerca di un accumulo delle sensazioni fisiche che però non riescono a organizzarsi significativamente né ad evolvere. Things are louder than words dice un’altra ragazza che si taglia (Klonsky,2007): le cose pesano più delle parole, le parole sono leggere, non hanno il peso delle cose; semmai possono venire dopo, servono a capire, ma …dopo. Anche il piacere e la forza tratte dalla paziente dal palparsi le “ossa che sporgono”, sono sì il segno della capacità estrema di scarnificarsi, eliminare la debolezza della carne che nutre il bisogno, ma anche permettono di sentire qualcosa di duro, che resiste, che malgrado tutto esiste, un contatto con la realtà. Certo una realtà povera ed essenziale, nuda, di pietra, ma pur sempre una realtà, non il nulla, il vuoto.

Tustin, nel suo libro del 1990, ha proprio sottolineato, a proposito dei fenomeni di autosensualità, l’importanza di capire la funzione che essi svolgono, se di chiusura autistica tesa alla negazione dell’esistenza di sé e del mondo oppure di protezione aperta allo sviluppo. Una responsabilità ben difficile.

9- Un breve passo clinico.

Darò solo brevi notizie della paziente e della sua storia in modo che  la vostra attenzione si concentri su quanto avvenuto in seduta. Si tratta di un esempio di come il lavoro di analisi spesso ci cimenti con la necessità di estendere l’attenzione e l’ascolto analitici ad ogni vissuto e ad ogni comunicazione del paziente per poterne cogliere l’intera sua esperienza, in modo da accompagnarlo nell’affrontarla, sostenerlo ed aiutarlo a capirne il significato.

A. è una ragazza ventiduenne, di aspetto attraente. Fidanzata, famiglia borghese, madre che si è posta in vari campi come modello irraggiungibile per la figlia, padre emotivamente lontano. E’ anoressica da qualche anno, è capitato che svenisse e la madre l’ha costretta ad iniziare l’analisi.  Lei ha accettato, ma attua una sorta di resistenza passiva, di gentile non collaborazione che però sento corrispondere, al suo interno, ad una condizione vera di blocco e di vuoto. L’analisi, al ritmo di tre sedute la settimana, risale a molti anni fa. I passi che presento si sono svolti nell’arco breve di alcune sedute invernali.  

A. rifiuta tenacemente di alimentarsi, oppure vomita tutto quello che mangia, non perché voglia dimagrire (le sembra di essere già abbastanza magra) ma perché vorrebbe sentirsi libera: libera di mangiare solo quello che vuole, quando vuole e come vuole, senza sentirsi obbligata dalla fame e dal bisogno, contro cui tutto il suo essere si ribella.

Il tentativo di emancipazione della paziente non è rivolto quindi solo verso la dipendenza conflittiva dall’oggetto esterno, la madre, ma in modo più radicale e “folle” contro la dipendenza in sé, il sentirsi in bisogno e per proteggersene la paziente fà in modo di non sentirsi più niente.

10- La seduta.

…. (materiale clinico riservato)

11- Dalle sedute successive.

 ….(materiale clinico riservato)

12- Commento.

Vorrei subito dire che, in questa sequenza la mia partecipazione emotiva è stata intensa e drammatica, dalla paura reale per quanto stava accadendo al bisogno controtransferale di fare comunque qualcosa, stati d’animo che mi hanno guidato empaticamente nei miei interventi che sono stati interpretazioni tese ad aiutare la paziente a cogliere la profonda natura conflittiva del suo star male attivando il dialogo tra il suo corpo e la sua mente (Lombardi,2003). Riassumo ora gli elementi della situazione clinica che ho descritto: la paziente, il suo vuoto, poi il suo freddo; il plaid che ho preparato ed io che sono presente nella parte prima della madre ambiente e poi dell’oggetto conflittivo (Winnicott, 1963) (Ricordo che per Winnicott il rapporto con la madre-ambiente è basato sul sentire condivisibile, sulle sensazioni condivise (sensuous co-existence) mentre quello con la madre-oggetto nasce dalla tensione interna che differenzia la percezione iniziale di sé dal non sé).

La dinamica che si manifesta mi sembra lineare: la paziente non vuole provare nulla per non avere bisogno di niente e di nessuno; cominciare a provare qualcosa la fa sentire sola e disperata ma anche l’aiuta a cominciare a tollerare l’angoscia e ciò avvia il riconoscimento della realtà (interna ed esterna, la presenza dell’altro) e la sua differenziazione (l’altro che aiuta e l’altro che invece intrude e soffoca). Come si vede, in questo esempio, il conflitto con ciò che si prova, con quello che si sente è davvero centrale e vitale. Il vuoto che la paziente si provoca le impedisce di fare esperienza di se stessa e quindi la costringe a dipendere totalmente dall’oggetto esterno (la madre, i libri nell’esempio dello studio, etc.). Lei se ne sente schiacciata, ma non sa come difendersene, letteralmente non ha i mezzi per farlo. Il vuoto, però, la protegge dall’angoscia più profonda, quella di sentire qualcosa, sentirsi, iniziare a percepirsi, perché questo la fa subito sentire sola e disperata, in preda a bisogni, desideri, paure che lei teme di non sapere assolutamente come affrontare, di non avere la capacità di farlo.

Il lavoro analitico focalizzato sulla percezione sostiene ed espande proprio le capacità della paziente di vivere e contenere l’angoscia, l’aiuta poi a riconoscerle, queste capacità, a vederle in opera, sia negli aspetti difensivi di fuga ed evitamento che in quelli che invece le permettono di rimanere dentro l’esperienza vissuta, di affrontarla e darle un significato. Cito quanto ha detto Bon de Matte: “ aiutare il paziente in ogni suo vissuto a dar posto alle relative emozioni, sopportandole e facendone esperienza; fargli vedere l’uso che fa della sua mente che, spesso, sembra più indirizzato a mantenere le difese contro le emozioni che ad essere presente nelle situazioni del momento” ( Bon de Matte e Zavattini, 1990).

13- Il corpo, ancoraggio della mente.

La transizione tra sensazione ed emozione, vale a dire tra processi più direttamente legati al corpo e processi con significato psicologico implica procedure di elaborazione psichica che permettono di dare significato e contenuto emotivo alla esperienza.

Non è un processo semplice. Sappiamo che Bion, più che alla definizione di cosa fossero gli elementi β ed α, era interessato proprio alla linea che li unisce e che li separa cioè alla dinamica di base dei fenomeni mentali, dinamica bidirezionale complessa che Bion alla fine proponeva di vedere come tante ulteriori Griglie che si dispiegano in profondità. “ (per) investigare più profondamente precisamente quest’area che si trova tra il fatto corporeo ed il fatto psichico…tra le linee A e B della Griglia si possono vedere in profondità ulteriori Griglie…indefinitamente” (Bion,1974). E vorrei anche far notare che, benché noi si sia sempre portati a  privilegiare il pensiero, la mentalizazzione, la simbolizzazione, Bion sosteneva che sono gli elementi β ad avere una forza di attivazione propria che sopravvive agli attacchi distruttivi della mente e che spinge continuamente alla crescita ed allo sviluppo mentali secondo il concetto avanzato ne Gli elementi della psicoanalisi di “psicomeccanica del pensare […] che fornisce il legame tra fila e fila” (Bion,1963) lungo l’asse verticale della Griglia.

Il caso che ho presentato si propone di indicare come la funzione della percezione della sensorialità possa essere utilizzata e valorizzata nel lavoro analitico per aiutare il paziente a identificarsi come soggetto e come soggetto differenziato, a partire proprio dalla percezione del proprio corpo nel contesto della esperienza analitica. In questi casi, è compito primario del lavoro di analisi cercare di collegare i vissuti sensoriali del paziente con i suoi stati mentali, anche quando essi sembrano assenti, o meglio presenti solo nella loro forma negativa, di disconoscimento e di rifiuto, sostenendo così in definitiva quel tipo di funzionamento psichico a contatto con la realtà di cui parlava Freud in Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (Freud,1911).

Vorrei concludere citando una autrice americana, Marilyn Charles. Il titolo del suo ultimo libro: Patterns,: Building Blocks of Experience (Charles,2002) definisce a mio parere molto bene il lavoro che l’analista si trova a fare in queste situazioni che mi sono proposto di discutere: promuovere e valorizzare pezzi di esperienza, blocchi di esperienza che partono dalla percezione della sensazione, il corpo come presenza attiva che manda segnali, che si fa sentire; l’accettazione, la tolleranza della sensazione; il suo riconoscimento, la discriminazione tra le sensazioni; la comprensione del loro significato; la esperienza dell’io di fronte ai suoi bisogni che può essere di impotenza, angoscia, rabbia, rifiuto, disconoscimento; il riconoscimento dei propri mezzi e delle proprie possibilità; il confronto con la realtà, il rapporto con gli altri.

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