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Solano L. - Discussione del lavoro del dr. Alessandro Bruni et al. "Il caso di Anna. Un'interpretazione patobiografica di una malattia" (2009)

12 giugno 2009

Discussione del lavoro di Alessandro Bruni et al. "Il caso di Anna. Un'interpretazione patobiografica di una malattia".

Luigi Solano

   Per non interrompere l'atmosfera suscitata da questo caso così emotivamente pregnante e coinvolgente cercherò anzitutto di portare un contributo in questo ambito, cercando di costruire delle ipotesi, a partire dalle tracce presenti nel testo, leggermente diverse anche se non alternative a quelle proposte.

  Mi sembra che, dopo una discussione di gruppo articolata e liberamente fluttuante, gli autori giungano alla conclusione – per dirla in modo molto sintetico, naturalmente - che la comparsa del tumore di Anna possa per lo meno essere associato (se non in rapporto causale) con una aggressività scissa, mai vissuta consapevolmente, nei confronti della figura materna, rappresentata dai seni/torri gemelle, aggressività derivante dall'essere stata posta in un ruolo di Cenerentola che deve accudire tutti mentre altri - il fratello Giuseppe - ricevono ogni privilegio.

   Pur trovando pertinente questa  interpretazione, volevo appunto seguire una traccia leggermente diversa, peraltro anche questa accennata nel testo, a partire dal ricorrere due volte, nella storia di Anna, della parola trionfo, a proposito del successo all'esame di maturità e alla laurea. Sappiamo bene che, se nel linguaggio comune il termine trionfo può avere una valenza positiva, per un analista è un termine sospetto, che allude a onnipotenza e maniacalità; il suo utilizzo nel racconto del caso fa pensare che qualche risonanza del genere ci possa essere stata. Se poi seguiamo la storia della paziente in quel periodo, ci rendiamo conto che possiamo leggere la vicenda seguendo il filo di un prevalere di un atteggiamento di onnipotenza narcisistica, in contrapposizione ad una dimensione di azione sociale e  collettiva, peraltro condivisa con un'altra persona, il marito. Un totale prevalere dell'"Io" rispetto al "noi". "I pezzi grossi chiamano, i vassalli si accodano" dice il sogno. Possiamo ipotizzare che questo atteggiamento si sia sviluppato, essenzialmente in fantasia, nei primi anni di vita di Anna, come reazione ad una dimensione reale di asservimento, di mancato riconoscimento dei suoi bisogni; possibilmente anche in identificazione con l'aggressore, la madre nobile decaduta, pronta ad asservire gli altri, essenzialmente Anna, alle sue necessità.

   Possiamo pensare che dopo anni di impegno nel sociale Anna abbia percepito questo come troppo vicino all'oblatività di un tempo, per cui abbia inconsapevolmente attivato un aspetto onnipotente nel perseguire invece un'autoaffermazione solo personale.

   Possiamo però anche rilevare che l'impegno nel sociale non è affatto descritto come solo oblativo, ma si parla di "lotta politica", di femminismo" di "scoperta del mondo". Anna sembra quindi fosse anche riuscita a realizzare in modo soddisfacente una dimensione "di grande coinvolgimento personale", di realizzazione piena delle proprie potenzialità, accanto ad una dimensione anche affettiva nel matrimonio. Il ripiego, così mi viene da chiamarlo, su una dimensione limitata ad una affermazione di sé peraltro essenzialmente fantastica, nel collezionare titoli di studio che mi sembrano vissuti più nel senso di titoli nobiliari che come strumenti di realizzazione, finisce per intaccare non solo la dedizione agli altri, ma la sua sfera affettiva più profonda, la sua possibilità di sperimentare un ricevere, oltre che un dare. "Anna sei sprecata" più che rappresentare un invito ad una maggiore realizzazione, mi sembra in questa visione la voce dell'onnipotenza narcisistica tradita, eco dei vissuti della madre nobile sposatasi con il pescatore e costretta alla vita di un comune essere umano.

   A questo punto il cancro, che dall'esterno può apparire come una aggressione all'organo interessato, può anche essere visto - ed è stato detto diverse volte in letteratura - come estrema espressione di un "narcisismo cellulare" laddove le cellule mutate in senso canceroso perdono qualunque limite alla loro crescita, quella che in termini biologici si chiama perdita dell'inibizione dal contatto, in quello che potremmo chiamare un delirio di espansione senza limiti, certamente ai danni proprio dell'organo che in massimo grado rappresenta l'oblatività e la dipendenza, ma non tanto e non solo in termini di aggressività reattiva, ma di attacco a qualcosa vissuto come un intralcio.

   Rispetto all'esperienza della patobiografia nel suo insieme, non posso che sottolineare la mia vicinanza con una impostazione, fondata sulle dinamiche dei gruppi, che vede non solo il disagio psichico, ma anche la malattia somatica come legati a dimensioni relazionali anche transgenerazionali; e di conseguenza utilizza il gruppo nel comprendere tali dinamiche, sulla scia anche dell’esperienza di Balint. Ho trovato particolarmente interessante e originale il concetto di "oggetti mentali ipercompressi", che mi hanno fatto pensare ai documenti "zippati" del computer; il lavoro analitico del gruppo ma anche, immagino, individuale, come decompressione, "de-zippaggio" di questi oggetti formatisi per successive incrostazioni nel corso degli anni.

   L'idea che in 4-5 incontri si possa capire molto di una persona, e che quanto possiamo restituire possa essere molto significativo per il soggetto, al punto da costituire un punto di svolta, mi trova molto sintonico, anche se posso immaginare che negli ambienti psicoanalitici possiate avere incontrato obiezioni. Il punto che vorrei ricordare è che interventi di questo tipo ci permettono dii raggiungere persone che autonomamente non avrebbero forse mai, o chissà quando, richiesto un intervento psicoanalitico; abbiamo quindi la possibilità di arrivare prima, e di raggiungere persone molto "vergini" rispetto ad un intervento psicoanalitico, per le quali anche pochi incontri possono "aprire un mondo" per usare  le parole di Anna. In fondo il lavoro non è così diverso da quello che svolge il Servizio di Consultazione del Centro Romano, che ha sempre assegnato piena dignità agli incontri che svolge, anche indipendentemente dall'eventuale invio. Lo sento anche vicino ad alcune iniziative che ho promosso in ambito univrersitario, come l'inserimento di uno psicologo nello studio di medici di base, allo scopo appunto di dare senso al disturbo somatico nell'ambito del mondo relazionale passato e presente del soggetto e del momento del suo ciclo di vita. I tempi in cui si interviene sono spesso anche più brevi dei vostri, anche se naturalmente si tratta di forme di disagio molto più iniziale.

   Non ho peraltro nulla da obiettare in linea di principio a che la psiconalisi si occupi di un testo anche prodotto al di fuori di un rapporto terapeutico: il bassorilievo che abbiamo di fronte (la Gradiva) ci ricorda quante cose interessanti si possono trarre dall'analisi di un testo letterario o da una biografia anche non raccolta da noi, come nel caso Schreber. Poiché però in questo caso c'è una relazione con un analista, vi chiederei se possibile di dirci qualcosa sui motivi della scelta, nella metodologia proposta da Chiozza e mi sembra anche vostra, di mettere un po' in secondo piano le dinamiche di transfert/controtransfert, concentrandosi sopratutto sulla storia.

   Sul piano teorico più generale non posso che concordare con la posizione toerica per cui "psichico e somatico non corrispondono a piani ontologicamente distinti della realtà come siamo abituati a pensare, ma dipendono unicamente dalla posizione dello spettatore, e dalla modalità della sua osservazione e comprensione". E' una posizione cui stanno giungendo diversi gruppi che si occupano di mente/corpo, come il nostro coordinato da Carla De Toffoli, e un anche un gruppo del Centro Milanese coordinato da Claudia Peregrini, che ha riportato recentemente una citazione di Spinoza molto pertinente a riguardo[1]. Il fatto che più gruppi giungano in modo abbastanza indipendente alle stesse conclusioni fa veramente pensare che questa proposta, così distante dal comune sentire sia dei medici che degli psicologi - oscillante tra un monismo riduzionista e un dualismo che rischia di cadere nel metafisico - possa avere buone probabilità di riflettere l'inconoscibile "realtà in sé", ed avere un valore euristico notevole.

   Applicare questo principio nel concreto non risulta però facile per nessuno.

Ritrovando nel vostro lavoro la metafora dell'hardware e del software, ad esempio, che ho usato io stesso fino a ieri, mi sono reso conto di quanto sia poco adeguata all'interno di una visione unitaria, in quanto finisce per ripristinare un dualismo: l'hardware dei computer (di un dato modello) è uguale in tutti, definito a priori: viene immesso il software, come il soffio vitale che Dio immette nel fango nella genesi, o la res cogitans di Cartesio che dà forma alla res extensa. L'immissione del software peraltro non modifica l'hardware, che rimane immutato per tutta la "vita" del computer.

  Nell'essere umano, e nel vivente in generale, le cose non stanno così. Ogni esperienza, dal primo formarsi dell'embrione, si imprime nell'organismo attraverso modificazioni che possiamo rilevare come somatiche: dal numero e localizzazione delle sinapsi; al numero di recettori che vengono eliminati nell'ippocampo a seguito di esperienze traumatiche, mentre si rinforzano i circuiti dell'amigdala; alla quantità di ormone della crescita prodotta dalle carezze della madre e alla maturazione del sistema vestibolare indotta dal suo cullare[2]. Naturalmente tutte queste modificazioni hanno dei corrispettivi mentali. Hardware e software si sviluppano e si modificano simultaneamente, e sono in realtà una sola cosa. Anche ciò che ci deriva dalla genetica, come ricordava Freud, non è che l'esito delle esperienze delle specie lungo miliardi di anni. Mi sembra si possa quindi affermare che una differenza tra un essere umano e un computer è la mancanza nel primo della distinzione tra hardware e software.

   Concludo sottolineando quanto mi ha fatto piacere e mi è sembrata utile questa occasione di incontro con un gruppo che si occupa di mente/corpo diverso da quello di cui faccio parte, nella convinzione che qualcosa di nuovo e  di  originale possa nascere sopratutto da quelle che con un termine oggi diffuso si chiamano "contaminazioni", anche se debbo dire che questa sera ho sentito più consonanze che differenze; ho cercato di sottolineare più queste ultime proprio nella speranza di attivare qualcosa di nuovo e di non annoiare l'uditorio.


[1] "...La Mente e Il Corpo sono una sola e stessa cosa che viene concepita ora sotto l'attributo del Pensiero e ora sotto l'attributo dell'Estensione ... l'ordine delle azioni e delle passioni del nostro Corpo è simultaneo per natura con l'ordine delle azioni e  delle passioni della Mente." Baruch Spinoza, Etica, Parte III.

[2]mi riferisco agli studi sui "regolatori nascosti" di Hofer (1984)

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