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Neri C. - Struttura del sentimento sociale e stanza d'analisi (2007)

Struttura del sentimento sociale e stanza d'analisi *

12 ottobre 2007

Claudio Neri

Sommario

Ogni epoca ed ogni società danno vita ad una un clima culturale e ad una mentalità collettiva che rendono possibile provare alcune emozioni e pensare certi pensieri e rendono invece molto difficile pensarne altri. Uno studioso gallese - Raymond Williams - ha chiamato questo fenomeno "struttura del sentimento" di una data società e di una data epoca. Che effetti ha la struttura del sentimento della nostra epoca sulla formazione della personalità dei pazienti che vengono a chiederci aiuto? In che misura contribuisce a dare forma alla loro sofferenza? Come viene avvertita e rappresentata nella stanza d'analisi la struttura del sentimento della nostra epoca? In che modo se ne può tenere conto nella terapia?

Parole chiave:  posizione dell’analista, post-modernità, narcisismo, espressioni patologiche dell’inibizione, tecnica analitica.

Inizierò disegnando uno scenario al cui interno disporrò poi osservazioni ed illustrazioni cliniche. Per costruirlo, impiegherò i contributi di alcuni pensatori che appartengono a campi disciplinari diversi.

Raymond Williams (1961, p. 63) - uno studioso di origine gallese, docente di storia della letteratura e del teatro - ha formulato l'ipotesi che ogni epoca ed ogni società diano vita ad una propria “struttura del sentimento” (qualcosa che può essere avvicinato a ciò che i francesi chiamano mentalité). Ogni epoca ed ogni società, più precisamente, producono un clima culturale che rende possibile (e addirittura facile) provare certe emozioni e pensare certi pensieri, mentre pensarne altri diviene molto difficile. La struttura del sentimento di un’epoca è salda e ben definita (come suggerisce la parola “struttura”), eppure opera nelle parti più delicate e meno tangibili del modo di mettersi in relazione gli uni con gli altri. Le persone di una certa società non possiedono in uguale misura quella certa struttura del sentimento, però essa è comunque posseduta in modo abbastanza esteso e profondo da tutti i suoi membri. La struttura del sentimento di una certa epoca non viene insegnata, quantomeno non viene insegnata in modo organizzato e formale. Piuttosto è come se ogni generazione, con maggiore o minore successo, tirasse la successiva a fare proprio un certo tratto sociale o un dato schema culturale generale. Tuttavia, la generazione successiva possiede sempre una propria struttura del sentimento. È come se questa apparisse dal nulla. Ci sembra così perché il cambiamento avviene proprio all’interno del corpo sociale: la nuova generazione risponde, in un modo che le è proprio, al mondo che eredita. Possono essere rintracciati molti elementi di continuità, la nuova generazione assume numerosi aspetti dell’organizzazione sociale preesistente; tuttavia ogni generazione sente la propria vita (intesa come un tutto) in un modo diverso da come la sentiva la generazione che l’ha preceduta. Ogni generazione dà creativamente forma  a questo sentire, producendo una nuova struttura del sentimento. [i] [ii] [iii]

L'idea proposta da Raymond Williams può essere estesa affermando che la “struttura del sentimento” (des Zeitgeist, lo Spirito del tempo) influenza non soltanto ciò che si può sentire e pensare e come lo si sente e lo si pensa, ma anche la struttura stessa della personalità degli individui che vivono in una data epoca. Isaiah Berlin (1960) - in un piccolo saggio dedicato a Giovanbattista Vico, il filosofo che con la sua concezione della storia ha profondamente influenzato la cultura italiana - scrive: «L'uomo è una creatura che si auto-trasforma; il soddisfacimento di ciascuna serie di bisogni modifica il suo carattere e genera nuovi bisogni e nuove forme di vita [...].» (Cfr. anche Gaddini 1984).

Il sociologo David Riesman nel 1950 pubblica La folla solitaria. Gli Stati Uniti sono all'inizio della transizione che li trasformerà da società industriale (basata sul lavoro manuale e sulla produzione di beni materiali) a società postindustriale (basata sui servizi e sulla tecnologia). La stratificazione per classi sociali viene sostituita dalla segmentazione del mercato. Il capitalismo si ispira sempre meno alla fabbrica e sempre più al supermercato. In questo contesto, Riesman vede emergere un particolare tipo di personalità: l'uomo eterodiretto, cioè l'uomo che è guidato dall'esterno. L'uomo eterodiretto non cerca un'emancipazione dall’immaturità, non vuole sottrarsi alla tutela di autorità esterne (guru, pubblicità). Alla spinta verso l'autonomia è subentrato un pressante bisogno di riconoscimento. Il giroscopio (un dispositivo interno che consente di mantenere la direzione indipendentemente dalle influenze esterne) ha lasciato il posto al radar (uno strumento che cerca segnali scandagliando continuamente l'ambiente esterno). L'uomo eterodiretto cerca l'approvazione degli altri e si sforza di essere come gli altri. È un conformista. È un uomo inseguito dal senso di solitudine e dall'ansia a causa della paura di non essere accettato perché non abbastanza uguale agli altri. L'uomo eterodiretto non trova nella società uno spazio collettivo dove tradurre i suoi disagi e le sue aspirazioni in un progetto culturale e politico. Egli non è parte di un popolo e neanche di una folla, ma di una moltitudine (Cfr. anche Gaburri e Ambrosiano (2003), Lugones 2005, Zaretsky 2004, p. 187, p. 351 e p. 354 dell'edizione italiana e Schorske 1980).

Lo scrittore Philip Roth (2000, p. 119) aggiunge a questo quadro un elemento importante: «Certamente, lo sforzo della prima metà del 1900, l’intero sforzo intellettuale ed artistico è stato vedere dietro le cose. […] Esplorare la coscienza è stata la grande missione della prima metà del secolo, sia che parliamo di Freud o di Joyce, dei Surrealisti o di Kafka o di Marx, di Frazer o di Proust o di chiunque altro. L’intero sforzo è stato espandere la coscienza e ciò che vi è dietro. Questo non interessa più. Stiamo assistendo ad un restringimento della coscienza. […] Il pubblico [di oggi] non è […] interessato a qualcuno che può indicare una strada per penetrare nella coscienza. È interessato soltanto a quanti soldi ha fatto oppure a “dove è lo scandalo”. Perchè? Perchè l’altra roba non serve, non la vogliono. […] Il lato misterioso dell’esistenza, per la gente immersa nella vita pratica [secular], certamente oggi non è un problema urgente.» «[Entrare in contatto con il lato misterioso dell’esistenza] richiederebbe un’attitudine mentale [habit of mind] che è scomparsa. Richiederebbe [serietà, costanza,] silenzio, qualche forma di isolamento e la capacità di sostenere l’attenzione in presenza di un oggetto enigmatico.» «[Non è facile esercitare] un’attività matura, intelligente ed adulta [come questa].» «A meno che la gente non vi sia stata adeguatamente allenata, non sa veramente [come farlo e conseguentemente non sa] che cosa farsene di tutto ciò.» [iv]

Lo psicoanalista Alexander Mitscherlich (1963) porta l'attenzione sul fatto che in Germania ed anche in altri paesi, si va affermando un modello di società nella quale la figura del padre è quasi del tutto cancellata. Come conseguenza di tale declino, l'autorità è svuotata di contenuto. In ragione del fatto che la relazione tra padri e figli è diventata più impersonale e povera, gli adolescenti si rivolgono non alla generazione degli uomini e delle donne che li hanno preceduti, ma l'uno verso l'altro. Gli effetti di questo fenomeno sono un aumento dell'infantilismo e dell'irresponsabilità sociale e personale. Tra gli adolescenti ed i post-adolescenti, le mode divengono più potenti e si diffondono in maniera incontrollata. Gli individui sono più esposti all'emergere di ansia nevrotica e di esplosioni di aggressività incontrollata.

Nel 1978, lo storico Christopher Lasch (1978) pubblica La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive. Egli scrive: «I media [...] incoraggiano l'uomo comune ad identificarsi con le stelle ed odiare il gregge». «Tutto cospira nell'incoraggiare soluzioni di fuga [rispetto] ai problemi psicologici della dipendenza, separazione ed individuazione. Tutto scoraggia quel realismo morale che [solo] rende possibile all'uomo di venire a patti con i limiti esistenziali del suo potere e della sua libertà». «I nostri parametri di ciò che è “un lavoro creativo e significativo” sono troppo gonfiati (exalted) [per permetterci di] sopravvivere alle [inevitabili] sconfitte e disillusioni [che la vita ci riserva ...]».[v] [vi]

 

Manfredi

Manfredi è nato e cresciuto negli anni '50, quando anche in Italia, negli ambienti della borghesia professionale ed imprenditoriale, si andavano affermando modelli culturali e sociali analoghi a quelli degli Stati Uniti e della Germania. Egli inizia un trattamento psicoanalitico nel 2001, a poco più di cinquanta anni. Manfredi è un professionista di successo. Da due anni, ha una relazione stabile con una donna più giovane di lui, che è molto capace ed affettuosa. Questa relazione gli da la motivazione e la forza necessarie per iniziare la terapia.

Il quadro clinico del paziente presenta alcune caratteristiche che potrebbero farlo rientrare nella categoria diagnostica di “lieve disturbo narcisistico”. Nel corso dei colloqui che precedono l'inizio dell'analisi, Manfredi non parla di un problema psicologico o relazionale preciso, ma piuttosto di un'insoddisfazione che permea il lavoro, la vita familiare ed addirittura lo svago. Questo senso di insoddisfazione è accompagnato da una mancanza di vitalità che compare a volte come “impossibilità a raggiungere la pienezza”, altre volte come sentirsi “un po' a lato”, “non potere partecipare al cuore della vita”. Altre volte ancora, il senso di carente vitalità prende la forma di una continua ricerca di qualcosa che è sentito come perduto oppure si manifesta come una condizione di vulnerabilità, che si rende maggiormente presente nelle situazioni meno controllate e più coinvolgenti dal punto di vista emotivo. Manfredi mi racconta che in alcuni periodi della sua giovinezza si chiudeva in casa per settimane ed anche mesi, uscendo soltanto per andare al lavoro. Più avanti negli anni, questi episodi si sono ripetuti con alcune differenze. Prima di tutto, Manfredi non si chiudeva più materialmente in casa, ma si ritraeva dalla vita sociale e dalle relazioni. Mi sono chiesto se questi ritiri corrispondessero ad episodi depressivi. Sono giunto alla conclusione che in parte poteva essere così, in parte però si trattava di qualche cosa di differente. Manfredi si isolava non soltanto perché era depresso, ma anche per seppellire e nascondere una profonda rabbia, causata da qualche cosa che l'aveva colpito nella sua necessità di essere considerato dalle persone intorno a lui come una persona buona, simpatica e molto capace. La rabbia letteralmente giaceva sepolta dietro un muro, dove era accuratamente mascherata. Il ritiro, dunque, era una forma di protezione contro gli sfibranti effetti che avrebbe potuto produrre la sua espressione.

Noterò di passaggio che la possibilità di manifestare sentimenti di rabbia, traendone vantaggio, è legata al fatto di essere in una posizione di relativa forza e sicurezza. Quando invece ci si trova o ci si sente in una posizione di debolezza, esprimere rabbia non fa che peggiorare il proprio senso di impotenza e genera la penosa sensazione di essere immaturi e disadattati.

Tornando a Manfredi: la possibilità di distinguere tra gli episodi nei quali il ritiro era dovuto alla depressione e quelli nei quali era dovuto invece ad una rabbia incontenibile si basava soprattutto su un dato. Manfredi, quando cercava di contenere la rabbia attraverso l'isolamento, non si limitava a stare da solo oppure non si limitava ad escludere dalla sua vita un certo gruppo di amici o colleghi, ma coltivava un fantasticato senso di superiorità rispetto a loro (Strozier, 2001, p. 252).

A Manfredi non è mancata una figura di riferimento nel padre. In questo la sua condizione differisce sostanzialmente da quella descritta da Mitscherlich. Il rapporto con il padre, anzi, è stato la fonte da cui egli ha tratto i valori e l'energia che lo hanno portato al successo nella professione ed anche alla possibilità che il lavoro costituisse per lui un'area piuttosto stabile e rassicurante in tutti i periodi della vita, anche quelli più bui. Il rapporto di Manfredi con il padre non era però soltanto positivo. Ai suoi occhi - quando era ragazzo - il padre si presentava come una figura difficile da affrontare soprattutto a causa della sua contraddittorietà. In alcuni momenti, suo padre si mostrava capace, deciso ed anche autoritario; in altri, appariva fragile e bisognoso di continue rassicurazioni. Ciò che è mancato più di tutto a Manfredi nella sua relazione con il padre, però, è stata l'influenza modulatrice che la madre avrebbe potuto esercitare. Sua madre era troppo occupata da se stessa, dal marito e dal tessere le fila che avrebbero potuto portare al consolidamento della posizione sociale sua e della famiglia, per impegnarsi veramente in tale compito.

Mi è sembrato di trovare traccia della complessa identificazione di Manfredi con il padre in alcune caratteristiche del suo comportamento. A tratti, egli era esuberante ed anche esibizionista; questo suo modo di comportarsi però conteneva l’opposto: insicurezza affettiva e tendenza a rimanere in ombra. Questo secondo aspetto dell’identità si poteva rintracciare - in seduta - non nel discorso verbale, ma nel tono della voce. La sua voce diveniva fragile ed insistente. Era la voce di un piccolo bambino che nessuno aveva mai veramente ascoltato.

 

II sogno del garage trasformato in vetrina

Dopo tre anni di lavoro analitico, Manfredi racconta questo sogno:

«Vedevo uno dei garage che si trovano sotto il grande appartamento dove ho vissuto con i miei genitori. Il garage era stato trasformato in una vetrina. Capivo che dietro la vetrina doveva però essere rimasto dello spazio. Nella vetrina vi erano orologi Cartier piatti. Più che orologi, erano tavolettine bidimensionali, quasi virtuali. Chiamavo la mia compagna per metterla a parte di quello che era successo e vedere se insieme avremmo potuto fare qualcosa.»

Manfredi - attraverso questo sogno - coglie dentro di sé, nella cultura della sua famiglia di origine e nell'ambiente che lo ha circondato durante l'infanzia e l'adolescenza (“il grande appartamento dove ho vissuto con i miei genitori”) un culto per l'apparire (“la griffe di lusso Cartier”). Il culto dell'immagine è associato ad una forte diminuzione dello spazio (“il garage era stato trasformato in una vetrina”). Anche il tempo della vita ha subito un considerevole appiattimento (“gli orologi erano tavolettine bidimensionali, quasi virtuali”). Adesso, però, Manfredi avverte di poter recuperare un po' della sua vita e della sua capacità di pensiero originale (“dietro la vetrina doveva essere rimasto dello spazio”). Egli avverte di potere fare questo insieme con la sua compagna.

 

Contratto narcisistico primario

A partire da questo sogno, potrebbero essere fatte numerose considerazioni. Mi limiterò ad una che riguarda la limitazione dello spazio.

Piera Aulagnier (1975), attraverso il concetto di “Contratto narcisistico primario” (Contrat narcissique primarie), mette in evidenza i limiti che sono posti ad ogni essere umano - già prima che veda la luce - per il fatto stesso di nascere all'interno di una certa famiglia. Piera Aulagnier illustra, prima di tutto, le clausole del contratto. Da un lato la famiglia (la famiglia allargata) deve fare un pre-investimento e poi un investimento narcisistico sul neonato, quale nuovo membro che si viene ad aggiungere alla comunità familiare. Dall'altro, il neonato deve prendervi posto ed assicurare la continuità della linea generazionale rispondendo alle aspettative. Voglio sottolineare che Piera Aulagnier parla non soltanto di un investimento, ma anche di un pre-investimento narcisistico. Con questo vuole mettere in evidenza che l'investimento da parte della famiglia precede la nascita. È un investimento che riguarda il bambino che è stato o che sarà concepito.

Attraverso il pre-investimento e l'investimento narcisistico, il futuro individuo trova un posto nella famiglia e nella linea generazionale. Questo posto e le condizioni alle quali gli viene offerto saranno la base dalla quale l'individuo, via via che cresce, potrà negoziare la realizzazione delle sue personali aspirazioni rispetto alla realizzazione di quelle che sono inerenti al destino che gli è stato assegnato. Manfredi, nel sogno che ho riferito, si rende conto dell'angustia del posto che la famiglia di origine gli aveva assegnato. Egli mostra anche come - dal suo punto di vista personale - gli scopi ai quali si sarebbero dovuti indirizzare i suoi sforzi secondo il mandato famigliare sono futili: gadgets di lusso. Egli può fare questa scoperta perché adesso ha un suo nuovo posto accanto alla compagna, un posto di cui ha scoperto sempre più l'importanza ed il valore attraverso il lavoro analitico.

 

La collega di Perth

Introdurrò più avanti la nozione di “Patto di de-negazione” (Pacte dénégatif), proposta da René Kaës, che si pone in linea di continuità con quella di “Contratto narcisistico primario” di Piera Aulagnier. Prima di fare questo, voglio però affiancare al caso di Manfredi una seconda illustrazione, che permetterà di ampliare il discorso sulla cooperazione e sulla mancata cooperazione tra un individuo ed una famiglia, tra un individuo ed una comunità.

Riferirò un episodio accaduto nel posto più lontano da casa in cui sono stato, a Perth. Avevo presentato alla University of Western Australia un lavoro sulla collaborazione tra il pensiero dell'individuo e quello del gruppo; questo lavoro comprendeva un dettagliato resoconto clinico relativo ad una donna, che era stata aiutata dal gruppo terapeutico di cui faceva parte a portare a termine una gravidanza e a dare vita ad una bambina, mentre le precedenti gravidanze si erano interrotte prematuramente (Neri 2000).

Avevo poi aggiunto, a titolo di commento che nella società in cui viviamo - a mio parere - un carico eccessivo viene fatto gravare sulle coppie. Queste si trovano all'interno di un ambiente sociale che è spesso connotato dalla mancanza della capacità di dare sostegno e condividere l'obiettivo di dare vita ad un bambino.

Alla fine della conferenza si avvicinò una collega, una donna abbastanza avanti negli anni, per ringraziarmi e raccontarmi una vicenda personale. Mi disse, che si era sentita molto sollevata ascoltando il mio lavoro. Aggiunse che quando, molti anni prima, era arrivata in Australia dal suo paese di origine si era trovata completamente isolata; dopo poco tempo era rimasta incinta, ma aveva abortito. Per moltissimi anni si era sentita colpevole. Adesso, per la prima volta, si rendeva conto di non potersi attribuire tutta la responsabilità. Per far nascere un figlio avrebbe avuto bisogno di un gruppo e di un ambiente sociale favorevoli, con i quali condividere la gravidanza e la nascita. [vii]

 

Alcune riflessioni sull'episodio di Perth

Nel lungo viaggio aereo verso casa, ho fatto alcune riflessioni su questo episodio che mi aveva toccato molto.

Un primo ordine di considerazioni riguardava l'andare lontano da casa. Andare lontano da casa comporta l'apertura di uno spazio che si rende disponibile per progetti ed incontri anche radicalmente diversi da quelli consueti. Dunque, può essere propizio per i concepimenti ed anche per il concepimento di un bambino. Il concepimento di un figlio, però, può anche essere un acting, causato dalla percezione del vuoto. Perché l’acting non rimanga tale, per favorire il buon esito di una gravidanza è necessario che il senso di vuoto sia attenuato e controbilanciato. La comunità e la famiglia devono aiutare la persona a costruire un luogo dentro di sé.

I miei pensieri poi si sono rivolti all'Italia ed a Manfredi. Ho pensato che il problema di non essere sostenuto nei propri progetti e concepimenti non riguarda soltanto chi emigra; anzi, le stesse condizioni possono darsi (sebbene in forme diverse) anche per persone che restano tutta la vita nel loro paese. Manfredi, ad esempio, non aveva perso i suoi riferimenti geografici e culturali, ma anzi era stato bloccato proprio da un eccessivo aderire a questi riferimenti. La creazione di uno spazio per far nascere qualcosa di nuovo era legata per lui a quelle esperienze (il rapporto con la sua compagna e l'analisi) nelle quali era riuscito a prendere le distanze dall'ambiente in cui era cresciuto. [viii]

 

Patto denegativo

Come ho anticipato, parlerò della nozione di “Patto di de-negazione” proposta da René Kaës. Per introdurla è utile fare riferimento ad una osservazione di André Green.

Green (1993 e 1995) - seguendo le indicazioni di Freud (1930) - mette in evidenza che l'operare della rimozione e della sublimazione corrisponde ad una condizione generale della vita sociale. Per entrare a far parte di una comunità umana è necessario contenere e trasformare la pulsione in eccesso. Può accadere, però, che questa limitazione della pulsione divenga tout court: «rifiuto di vivere umanamente, per vivere invece sotto l'impero di una negatività distruttrice».

René Kaës (1998 e 2005) - sviluppando una propria linea di pensiero che ha alcune analogie con quella di Green - propone la nozione di “Patto de-negativo”. Il patto de‑negativo è un insieme di accordi che si realizzano tra i membri di una famiglia o di un gruppo istituzionale (ad esempio, l'équipe di un Centro di salute mentale) per costruire e mantenere i legami. Più precisamente il patto de-negativo è un particolare tipo di “Alleanza inconscia” (Alliance incosciente) attraverso cui una famiglia o un'istituzione si organizza come comunità delle rinunce, delle cancellazioni e dei rifiuti; si fonda cioè sulla scelta di lasciare da parte. Tale patto si basa, infatti, sulla proibizione di esprimere determinati bisogni, desideri e pensieri che potrebbero mettere in discussione la convivenza e l'apparente concordia. Esso crea zone di silenzio, sacche di intossicazione, discariche di immondizie e linee di fuga che mantengono le persone che gli sono assoggettate estranee alla loro stessa storia.

Il patto de-negativo può avere, oltre che funzioni limitanti e distruttive, anche funzioni protettive. Lo scopo del patto, infatti, almeno in alcuni casi, non è tanto quello di reprimere l'espressione di bisogni, desideri e pensieri, ma quello di dilazionare l'espressione di tutto ciò che sarebbe troppo difficile sopportare, in attesa di tempi migliori. Il patto de-negativo, dunque, può nascere, da un'esigenza di difesa; però, può venire conservato anche quando la minaccia non esiste più. Mi viene in mente l'analogia con la “contrattura antalgica”: ambedue - alla lunga - possono provocare più danni di quelli dai quali mettono al riparo. [ix]

Garanti meta-sociali e garanti meta-psichici

Kaës (2005) affianca al discorso relativo al patto de-negativo alcune riflessioni su come la crisi dei “garanti meta-sociali” (Garants méta sociaux) e delle “grandi narrazioni” (Grands récits) possa portare ad un cedimento dei “garanti meta psichici (Garants méta psychiques).

Alain Touraine (1969), una delle fonti di Kaës, parte dalla constatazione che nelle società tradizionali (ed anche nella società industriale del 1800 e della prima metà del 1900), il cambiamento sociale era percepito come prodotto dall'esterno. Per darne conto, dunque, vi era la necessità di fare ricorso all'operatività di “garanti meta‑sociali”: Dio, lo Stato, il Progresso. Al contrario, nella società post-industriale - che Touraine preferisce denominare società programmata (Société programmée) - il cambiamento sociale è percepito come effetto dell'azione della società stessa. Conseguentemente non vi è più bisogno di garanti meta-sociali. La società post-industriale produce (o dovrebbe produrre) da sola la sua storicità (historicité).

Jean-François Lyotard (1979) introduce l'espressione “fine delle grandi narrazioni” per indicare l'opposizione a tutti gli schemi universali di pensiero che caratterizza la condizione post-moderna. Nella post-modernità, le “grandi narrazioni metafisiche” (Illuminismo, Idealismo, Marxismo), che hanno giustificato ideologicamente la coesione sociale e hanno ispirato le utopie rivoluzionarie della modernità, non hanno più corso. Nel mondo post-moderno, la conoscenza deve essere funzionale all'economia, alla competizione ed alla politica. Quindi - più in generale - il linguaggio per essere credibile e per convincere una pluralità di fruitori, non può essere una narrazione, ma deve essere dettagliato, argomentato ed oggettivo.[x]

René Kaës - come ho accennato - mette in rapporto queste idee di Touraine e Lyotard con una visione della psiche fondata su garanti meta-psichici. Con questo termine, Kaës si riferisce al divieto dell'incesto, alla rinuncia alla realizzazione diretta delle mete pulsionali, alla funzione paterna ed al contratto narcisistico primario.

Kaës scrive: «Le trasformazioni [della società contemporanea] riguardano le grandi strutture di inquadramento e di regolazione […] del processo sociale: miti ed ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia. Le incrinature, le disorganizzazioni e le ricomposizioni di questi garanti meta-sociali della vita sociale colpiscono i garanti meta-psichici della vita psichica, ossia le formazioni ed i processi dell'ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche di ogni soggetto.» Una conseguenza di questa incrinatura è l'emergenza di «alcune forme di caos dell'identità e di alcuni difetti della simbolizzazione che sono caratteristici delle nostre società post-moderne.» [xi] [xii]

Considerazioni sulle nozioni di Piera Aulagnier e René Kaës

I concetti di “contratto narcisistico primario” e di “patto de-negativo” stabiliscono un ponte tra la psiche ed il sociale (in particolare tra la psiche ed una particolare formazione sociale: la famiglia). Si tratta di concetti importanti perché - rimanendo all’interno della dottrina e del linguaggio di Freud - permettono tuttavia di superare la concezione della psiche vista come un’entità isolata.

Questi concetti hanno anche un’utilità in ambito clinico. Essi, infatti, permettono di comprendere meglio quale posto occupano nell'ambito della loro famiglia (reale e fantasmatica) alcuni pazienti sofferenti di disturbi narcisistici.

L’idea di crisi dei garanti meta-sociali e di incrinatura dei garanti meta‑psichici ha il merito di porre in modo molto esplicito il problema del rapporto tra cambiamenti della società e cambiamenti della vita psichica. Questa idea, inoltre, prende in considerazione la possibilità che il sociale possa esercitare la sua influenza sulla psiche, anche secondo modalità diverse da quelle rappresentate dalla mediazione della famiglia.

In questa idea di Kaës trovo, però, anche un limite consistente. (Bisogna tenere conto che egli ha iniziato a lavorare sulla sua formulazione solo recentemente.) L’idea di crisi dei garanti meta-sociale che  provoca un’incrinatura dei garanti meta-psichici ha un elevato grado di generalizzazione e di astrazione. Questa idea, inoltre, mette in relazione due concetti che sono già estremamente generali. Quando ho provato ad impiegare tale nozione nella clinica, mi sono sentito proiettato ad una distanza enorme da quanto potevo percepire ed osservare in seduta (Neri 2007). 

 

Il disturbo narcisistico e le nuove forme di sofferenza psichica

Negli anni ’80 varie forme di patologia si sono affiancate ed in parte hanno sostituito il disturbo narcisistico. Kaës, nel brano che ho prima citato, parla di «caos dell'identità». Si può fare riferimento anche alla dissociazione nelle sue varie forme, alla patologia borderline, agli attacchi di panico, ai comportamenti impulsivi, ai disturbi dell’alimentazione, all’abuso di farmaci e di sostanze stupefacenti. (Correale 2006)

La galassia di queste nuove patologie è estremamente vasta ed articolata. Dirò brevemente qualcosa soltanto sulla condizione di quei pazienti che tendono a chiudersi in un bunker, confinandosi in una condizione di solitudine, nella quale il rapporto con l’esterno a volte è mediato soltanto da internet. Si tratta di forme gravi di inibizione che possono improvvisamente ribaltarsi in comportamenti impulsivi e solo apparentemente disinibiti.

Il timore di ciò che potrebbe accadere se agisse spontaneamente, la mancanza di immaginazione, l’assenza di un adeguato sostegno da parte delle figure affettivamente importanti portano il paziente ad una condizione di paralisi. Questa può improvvisamente trasformarsi nel suo opposto: l’agire incontrollato e privo del necessario fondamento nell’esperienza.  

Meltzer (1992) e Steiner (1993), per spiegare questa condizione, hanno introdotto i concetti di “Claustrum” e di“Rifugi della mente”. Lydia Pallier (1990) ha segnalato che alla base del ritiro e della inibizione vi possono essere due sentimenti apparentemente opposti: la povertà e la grandiosità. Ambedue sono espressione di un Sé fragile, che non è stato sufficientemente nutrito dall’affetto materno. I clochards sono sporchi e ripugnanti, ma sono anche principi che rifiutano di mischiarsi con la gente comune. [xiii] [xiv] [xv] 

Il sogno del prato quadrettato

Per dare maggiore rilievo a questo breve accenno alla patologia di auto‑confinamento, riferirò un sogno. Il sogno non è stato raccontato nel corso di una seduta di analisi, ma durante una “matrice” di Social Dreaming

La tecnica del Social Dreaming è stata scoperta da Gordon Lawrence (1998). Seguendo questa tecnica, il racconto dei sogni e l’impiego delle libere associazioni è indirizzato non a conoscere le fantasie inconsce, ma a mettere in luce aspetti della situazione sociale condivisa che altrimenti rimarrebbero nascosti.

Io ed alcuni colleghi - da vari anni - impieghiamo il Social Dreaming nell’ambito dell’insegnamento agli studenti di Psicologia. Il sogno che riferirò è stato raccontato appunto da uno studente durante uno di questi workshops. È un sogno che mi ha colpito particolarmente perché descrive in modo vivido un tratto della “struttura del sentimento sociale” degli studenti immersi nella caotica situazione universitaria romana (Cruciani 2006;  Marinelli e Girelli 2007).

«Noi [studenti] eravamo tutti distesi su un grande prato. Il prato era interamente quadrettato. Ognuno stava immobile nel suo quadretto: cercavamo di muoverci il meno possibile per non disturbare i compagni.»

Stanza d’analisi e contesto sociale

Avviandomi alla conclusione, dirò qualcosa su come, nel lavoro di analisi, cerco di rilevare gli elementi del contesto sociale e di tenerne conto.

Un primo apporto mi viene dal rivolgere l’attenzione alla cornice, all’ambientazione di un sogno o di un resoconto del paziente. Presto cioè molta attenzione al modo in cui viene descritto il paesaggio, l’arredo della stanza, le sensazioni di freddo o viceversa di calore che accompagnano la scena del sogno o il resoconto di un certo episodio. Considero questi elementi, non soltanto come rappresentazioni dello stato d’animo del paziente, ma anche come descrizioni del contesto sociale che ha influito su come il paziente ha vissuto se stesso, i propri bisogni e fantasie. Un esempio di questo modo di leggere i sogni è offerto dal “sogno del prato quadrettato.

Un secondo apporto alla comprensione di quale sia il contesto sociale nel quale vive il paziente, viene dal regolare l’ascolto in modo da cogliere lo “scarto” tra come il paziente racconta inizialmente un avvenimento che gli è accaduto nella sua vita di tutti i giorni e come questo racconto (ed i vissuti che lo accompagnano) risultano trasformati, dopo che egli ha veramente preso posto nella stanza d’analisi e la seduta ha proceduto per qualche tempo.[xvi]

Dalle notizie alle esperienze di vita

Per spiegare meglio cosa intendo quando parlo di “scarto”, riporterò un frammento tratto da un intervista allo scrittore Don DeLillo. L’introduzione di questo brano ci porterà momentaneamente lontani dalla situazione analitica, ma permetterà di  ritornarvi poi arricchiti di utili strumenti di comprensione. Don DeLillo dice (1997, pp. 139-140):

«La gente sembra avere bisogno di notizie di ogni genere: cattive, sensazionali, sconvolgenti. […]»

«È come se vedere un tizio con una pistola, del tutto al di fuori della coreografia di un film violento, fosse la nostra ultima esperienza della natura, [degli istinti]. È  strano, ma è come se fosse tutto quello che ci è rimasto della natura, [del corpo, del nostro essere animali tra altri animali].; ma tutto questo avviene sul nostro schermo televisivo»

«Negli anni cinquanta, le notizie erano una sorta di componente sinuosa della vita (sinuous part of life): fluivano dentro e fuori in un modo semplice (ordinary), inavvertito. Ora hanno un grande impatto, soprattutto le notizie televisive: […] gli interminabili video di rapine in banca, sparatorie, persone che vengono picchiate. Queste immagini si ripetono ed è come se […] accelerassero il tempo. […] Inducono nella gente un senso apocalittico […].»

«[… In questi giorni, è stato ucciso a colpi di pistola in una strada di Miami lo stilista Gianni Versace ….]. Immediatamente le immagini sono apparse su tutti gli schermi televisivi e milioni di persone ne hanno parlato.

La gente parla dell’uccisione, ma le persone non sanno veramente ciò che [l’uccisione ed il ripetersi di queste “immagini-notizie”] fa loro. Non sanno che cosa fa al modo in cui pensano, sentono ed hanno paura. Non sanno che cosa [un fatto mediatico come questo] crea in un senso più vasto. Per la verità,  la gente [- quando parla di un omicidio, come quello di Versace -] non sa veramente di che cosa sta parlando. Non credo che lo sappiano. Forse questa è la ragione per cui alcuni di noi scrivono racconti e romanzi (fiction).» [xvii]

Forse, questa è anche la ragione per cui alcuni di noi fanno lo psicoanalista. Una parte del nostro lavoro, certamente, è creare le condizioni (“stanza d’analisi”) perché ciò che il paziente ha sperimentato e spesso semplicemente subito nel contesto della sua vita di lavoro o in famiglia (“le notizie”) si possa trasformare in qualcosa che ha un senso per lui, è accompagnato da sentimenti, può essere assimilato e suscitare pensieri (“esperienze di vita”). [xviii][xix] [xx]


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* Il lavoro verrà discusso il 12 ottobre 2007 al Centro di Psicoanalisi Romano. Non leggerò il testo, ma si avvierà subito il dibattito, che sarà aperto da Anna Ferruta di Milano. Per fruire nel modo migliore della partecipazione è dunque indispensabile avere preliminarmente letto lo scritto.



[i] La traduzione è mia; ho sintetizzato ed in parte trasformato ciò che scrive Williams: «The term I would suggest to describe it is structure of feeling : it is as firm and definite as “structure” suggests, yet it operates in the most delicate and least tangible parts of our activity. In one sense, this structure of feeling is the culture of a period : it is the particular living result of all the elements in the general organization. […] I do not mean that the structure of feeling […] is possessed in the same way by the many individuals in the community. But I think it is a very deep and very wide possession, in all actual communities[…]. And what is particularly interesting is that it does not seem to be, in any formal sense, learned. One generation may train its successor, with reasonable success, in the social character or the general cultural pattern, but the new generation will have its own structure of feeling, which will not appear to have come 'from' anywhere. For here, most distinctly, the changing organization is enacted in the organism: the new generation responds in its own ways to the unique world it is inheriting, taking up many continuities, that can be traced, and reproducing many aspects of the organization, which can be separately described, yet feeling its whole life in certain ways differently, and shaping its creative response into a new structure of feeling.»

[ii] La struttura del sentimento influenza anche il modo in cui vengono avverti sentimenti e valori universali. Williams scrive (1961, p. 60): «If we take a particular work of art, say the Antigone of Sophocles, we can analyse it in ideal terms - the discovery of certain absolute values, or in documentary terms - the communication of certain values by certain artìstic means. Much will be gained from either analysis, for the first will point to the absolute value of reverence for the dead ; the second will point to the expression of certain basic human tensions through the particular dramatic form of chorus and double kommos, and the specific intensity of the verse. Yet it is clear that neither analysis is complete. The reverence, as an absolute value, is limited in the play by the terms of a particular kinship System and its conventional obligations - Antigone would do this for a brother but not for a husband. Similarly, the dramatic form, the metres of the verse, not only have an artistic tradition behind them, the work of many men, but can be seen to have been shaped, not only by the demands of the experience, but by the particular social forms through which the dramatic tradition developed. We can accept such extensions of our original analysis, but we cannot go on to accept that, because of the extensions, the value of reverence, or the dramatic form and the specific verse, have meaning only in the contexts to which we have assigned them. The learning of reverence, through such intense examples, passes beyond its context into the general growth of human consciousness. The dramatic form passes beyond its context, and becomes an element in a major and general dramatic tradition, in quite different societies. The play itself, a specific communication, survives the society and the religion which helped to shape it, and can be re-created to speak directly to unimagined audiences. Thus, while we could not abstract the ideal value or the specific document, neither could we reduce these to explanation within the local terms of a particular culture. If we study real relations, in any actual analysis, we reach the point where we see that we are studying a general organization in a particular example, and in this general organization there is no element that we can abstract and separate from the rest. It was certainly an error to suppose that values or art-works could be adequately studied without reference to the particular society within which they were expressed, but it is equally an error to sup­pose that the social explanation is determining, or that the values and works are mere by-products.»

[iii] La nozione di struttura del sentimento ha parecchi tratti comuni, oltre che con la nozione francese di mentalità, anche con ciò che Erich Fromm (1942) ha definito “carattere sociale”. Un’altra analogia può essere stabilita con la nozione di “modelli di cultura” di Ruth Benedict (1934).  Williams mette in luce alcuni punti di contatto e differenze (1961, p. 63): «Il “carattere sociale - un sistema di comportamenti e di atteggiamenti che è valorizzato – viene insegnato sia in modo formale, che informale. Esso è sia un ideale come una maniera di comportarsi. Il “modello di cultura” è la configurazione e selezione di una serie di interessi ed attività, ed uno specifico modo di valutarli, che produce una determinata organizzazione: un modo di vivere.» «The social character - a valued System of behaviour and attitudes - is taught formally and informally; it is both an ideal and a mode. The 'pattern of culture' is a selection and configuration of interests and activities, and a particular valuation of them, producing a distinct organization, a 'way of life'.»

[iv] L’intervista è comparsa nel 2000 e poi ristampata nel libro di Remnik Reporting. Writings from The New Yorkers (2006, p. 119). La traduzione è mia: «Every year, seventy readers die and only two are replaced. That's a very easy way to visualize it," Roth said. By "readers," he said, he means people who read serious books seriously and consistently. The evidence "is everywhere that the literary era has come to an end," he said. "The evidence is the culture, the evidence is the society, the evidence is the screen, the progression from the movie screen to the television screen to the computer. There's only so much time, so much room, and there are only so many habits of mind that can determine how people use the free time they have. Literature takes a habit of mind that has disappeared. It requires silence, some form of isolation, and sustained concentration in the presence of an enigmatic thing. It is difficult to come to grips with a mature, intelligent, adult novel. It is difficult to know what to make of literature. That's why I say stupid things are said about it, because unless people are well trained they don't know quite what to make of it. Well, I think that the whole effort of certainly the first half of the twentieth century, the whole intellectual and artistic effort, was to see behind things, and that is no longer of interest. To explore consciousness was the great mission of the first half of the century - whether we're talking about Freud or Joyce, whether we're talking about the Surrealists or Kafka or Marx, or Frazer or Proust or whoever. The whole effort was to expand our sense of what consciousness is and what lies behind it. It's no longer of interest. I think that what we're seeing is the narrowing of consciousness. I read the other day in a newspaper that I occasionally see that Freud was a kind of charlatan or something worse. This great, tragic poet, our Sophocles! The writer is just not of interest to the public as somebody who may have an inroad into consciousness. The writer is only interesting in terms of how much money did he get and what's the scandal. That's all they're interested in. Why? Because the other stuff is useless, they don't want it. There has always been a debate over what literature is and what it's for, because it is a mysterious thing, and the mysterious side of existence, certainly for secular people, is not an urgent problem.»

[v] La traduzione è mia: «The media give substance to and thus intensify narcissistic dreams of fame and glory, encourage the common man to identify himself with the stars and to hate the ‘herd’». «But our society tends either to devalue small comforts or to expect too much of them. Our standards of "creative, meaningful work" are too exalted to survive disappointment. […] We find it more and more difficult to a achieve a sense of continuity, permanence or connection with the world around us». «Everything conspires to encourage escapist solutions to the psychological problems of dependence, separation and individuation, and to discourage the moral realism that makes it possible for human beings to come to terms with existential constraints on their power and freedom».

[vi] Si potrebbe anche fare riferimento al concetto di “Ideale dell’Io” di  Freud (1914) considerandolo nella luce delle modalità attraverso le quali la società trasmette alla famiglia e al bambino un portato di valori ed aspettative.

[vii] Il bisogno di socialità non è limitato alle esigenze della difesa e della procreazione. Nell’interazione sociale, l’uomo diviene più consapevole del nucleo vitale della propria personalità (Selbstgefühl). (Humboldt 1814). È importante sottolineare che il bisogno di socialità di cui parla Humboldt non si esercita  in astratto ma è condizionato dalle condizioni reali nelle quali una persona si trova a vivere.

 

[ix] Le osservazioni relative alla possibilità che il patto de-negativo abbia anche funzioni di difesa sono mie. Nel corso di alcune recenti conversazioni, Kaës mi ha detto che era sostanzialmente d'accordo.

[x] Io ritengo utile estendere il discorso di Lyotard a tutte le “grandi narrazioni” condivise nell’ambito di una comunità. Sudhir Kakar (1978, p.142, p.146 e p. 151) - in un piccolo libro, intitolato The Inner World. A Psycho-analytic Study of Childhood and Society India - fornisce un vivido esempio di un corpo di narrazioni che indirizza i bambini nel loro rapporto con i genitori e reciprocamente questi nel rapporto con i figli, particolarmente rispetto all’emergenza di fantasie e pulsioni sessuali. Il ciclo di narrazioni ha al suo centro le vicende della infanzia e giovinezza del dio Krishna.  Kakar considera questo insieme di miti e leggende come centrali nello sviluppo del mondo interno dei bambini in India. In effetti, esistono due serie di narrazioni - dedicate rispettivamente ai bambini ed alle bambine - che differiscono in una certa misura. Le narrazioni dedicate ai maschi sono più accese nei loro contenuti edipici, ma contengono comunque una considerevole dose di gentile benevolenza. «Né il padre, né il bambino sono accecati, svirilizzati, castrati o uccisi. I padri nelle famiglie Hindù non sono visti mai come terribili vendicatori. Irrevocabili atti di violenza di questo tipo semplicemente non hanno corso.» «Krishna [d’altronde] non è una di quelle divinità paterne che attivano nei fedeli un’attitudine di filiale reverenza. Egli [al contrario] invita i devoti a fondersi con lui: dà il permesso di provare gioia e piacere. In termini psicologici, si potrebbe dire che incoraggia gli individui ad identificarsi con un ideale Sé primario […].»

[xi] La traduzione è mia: «Pour préciser mon propos, je voudrais évoquer certaines formes des chaos identitaires et des défauts de symbolisation caractéristiques de nos sociétés post-modernes.»

[xii] Kaës, più avanti, accenna a quali tipi di sofferenza abbia in mente «la cultura del controllo, la cultura dell'illimitato e dei limiti estremi, la cultura della fretta e dell'emergenza, la cultura della malinconia.» «La culture du contrôle […] La culture de l’illimité et des limites extrêmes […]  La culture de l'urgence […] La culture de mélancolie.» Vedi anche Di Chiara (1999).

[xiii] Bisognerebbe tenere maggiormente in conto il fatto che la famiglia è immersa e sottomessa alle pressioni del sociale nel suo insieme e che la famiglia stessa è una formazione sociale in rapido e tumultuoso mutamento.

[xiv] Un apporto molto utile di Kaës è stato anche quello di estendere l’impiego del concetto  “patto de-negativo” all’esame delle piccole istituzioni e comunità.

[xv] Oltre alla nozione di “struttura del sentimento”, riferimenti importante per me sono i concetti di “media” (McLuhan 1962), mentalità di gruppo di Bion (1961), di multipli livelli di realtà (Kafka 1989) che hanno alcuni aspetti in comune con tale nozione. La nozione di “struttura del sentimento” rispetto alle altre ha il vantaggio di fare vedere bene come l’habitat condiviso venga costruito e mostra come muti di generazione in generazione. In effetti, una differenza molto importante tra il mio modo di vedere e quello di Kaës consiste nel fatto che Kaës privilegia l'ottica dei legami, delle alleanze, delle strutture e delle istituzioni. Io mi trovo più a mio agio prendendo in considerazione le atmosfere, i contesti ed il loro mutare. La vita sociale e gli individui che vi sono immersi e la animano - considerati alla luce di questi referenti teorici - appaiono più fluidi, sottili e sfaccettati.

[xvi] In un’intervista, intitolata “Il maestro e il porcospino”, l’intervistatore, Roberto Andò (1980) pone a Corrao una domanda intelligente: “Che echi giungono a Lei - in questa stanza di analista e di studioso, in questa stanza che è foderata di una triplice fila di libri - della città, di Palermo, della mafia, delle sparatorie, della violenza?” Corrao, rispondendo, enuclea dal mito di Odisseo un elemento particolare e fascinoso: il Ciclope. Poi con un ulteriore approfondimento, parla dell’occhio del Ciclope.

[xvii] La traduzione è mia; ho cambiato l’ordine ed in piccolo parte trasformato ciò che dice DeLillo «People seem to need news, any kind - bad news, sensationalistic news, overwhelming news. It seems to be that news is a narrative of our time. It has almost replaced the novel, replaced discourse between peo­ple. It replaced a slower, more carefully assembled way of communicating, a more personal way of communicating. In the fifties, news was a kind of sinuous part of life. It flowed in and out in a sort of ordinary, unremarkable way. And now news has impact, largely because of television news. This happens repeatedly in those endless videotapes of a bank robbery, or a shooting, or a beating. They repeat, and it's as though they're speeding up time in some way. I think it's induced an apocalyptic sense in people that has nothing to do with the end of the millennium. And it makes us - it makes us consumers of a certain type. We consume these acts of violence. It's like buying products that in fact are images and they are produced in a mass-market kind of fashion, But it's also real, it's real life. It's as though this were our last experience of nature: seeing a guy with a gun totally separate from choreographed movie violence. It's all that we've got left of nature, in a strange way, But it's all happening on our TV set." The day we where talking, television was filled with images of the fash­ion designer Gianni Versace shot dead on the Street in Miami Beach. De Lillo was interested not so much in the murder itself as in the instantaneous packaging of the murder, its sudden appearance on every screen and thus in millions of conversations. "People talk about the killing, but they don't talk about what it does to them, to the way they think, and feel, and fear," he said. "They don't talk about what it creates in a larger sense. The truth is, we don't quite know how to talk about this, I don't believe. Maybe that's why some of us write fiction.»

[xviii] Un paziente può venire in analisi o terapia di gruppo e raccontare qualcosa: una cena in famiglia, un compleanno, un colloquio di lavoro, una passeggiata. Quello che si aspetta (fondamentalmente, anche se non soltanto) è poter rivedere lui stesso questo avvenimento immerso nel nuovo contesto sociale della relazione analitica. Il suo resoconto entra in contatto con l’ascolto dell’analista, con le libere associazioni che il paziente stesso può produrre. È oggetto di domande ed osservazioni. Viene trasformato e si ripresenta in una luce diversa. Questo accade, non soltanto per i racconti di avvenimenti, ma anche per il racconto di sogni.

[xix] Parlando di esperienze di vita, mi riferisco non solo al fatto che ad una persona succeda qualcosa (avere un figlio, un incontro sessuale, una disgrazia), ma anche vi sia la possibilità che i sentimenti, i vissuti, tutto quello che riguarda questo evento possa essere sperimentato e in qualche modo compartecipato con altri. Da questo punto, la nostra società è molto povera. I luoghi, le possibilità nei quali questo scambio di esperienze di vita possa avvenire, le situazioni nelle quali sia possibile la compartecipazione di esperienze che uno non ha fatto personalmente ma che può vivere per partecipazione alle esperienze di altri, sono molto limitati. Questo determina un importante impoverimento dell’habitat, dell’humus in cui la personalità può crescere ed evolvere.

[xx] Alexander (1946) parlerebbe forse di esperienza emotiva-correttiva: quello che è sostanziale non è tanto il fatto che al paziente venga illustrato o spiegato ciò che ha vissuto, ma il fatto che egli nell’analisi sia in grado di trovare una risposta diversa. Io credo anche che  sia importante il fatto che dal nuovo contesto (la stanza d’analisi) il paziente sia in grado di guardare l’altro contesto (la famiglia, la propria situazione di coppia, il posto di lavoro) con meno accanimento, anzi se possibile con una certa benevolenza.

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