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De Luca J. - Associazioni sul mito di Medea (2007)

20 aprile 2007

ASSOCIAZIONI SUL MITO DI MEDEA[1] [2]

 ABSTRACT

Recenti studi sul mito di Medea hanno messo in luce alcuni fattori, legati alla crescita della futura madre, che favoriscono l’insorgere di impulsi pericolosi verso i figli. Associando sul mito, come suggerisce Bion, si descrive, attraverso cinque casi clinici, il possibile destino di questi impulsi. Possono arrivare alla coscienza, oppure essere negati, scissi, proiettati o rimossi. Spesso trovano la possibilità di essere rappresentati in un’ideazione ossessiva che permette comunque di “trattarli” e di mettere in atto misure protettive verso i bambini. Altre volte invece comportano l’auto-destituzione dalla funzione materna, con l’affidamento dei bambini ad altri. Infine, possono essere vissuti nella generazione successiva come una forte spinta all’autodistruzione.

 

Una madre

La donna, distesa sul lettino, parla sommessamente: la sera prima, come ogni sera, le ha telefonato la figlia dall’ospedale dove è ricoverata.
Questa telefonata, colma di accuse violente, ha lasciato la donna spossata e piena di timori profondi. Durante la notte ha fatto un sogno.
Aveva in braccio sua figlia che nel sogno era molto piccola, sapeva che doveva lasciarla, la bambina era stata affidata alle nonne perché lei aveva combinato qualcosa. Non sa cosa avesse combinato: era qualcosa di molto brutto e non poteva più tenere la bambina con sé.
Nel sogno la bambina aveva quattro mesi.
Nessun pensiero le si affaccia alla mente e vorrebbe liquidare subito il sogno: non era successo niente di particolare quando la bambina aveva quattro mesi.
Poi un episodio: c’era stata una volta in cui la bambina aveva pianto per molto tempo e lei non era riuscita a calmarla. Ricorda che allora si era messa a piangere disperatamente anche lei, perché, mi dice molto imbarazzata, si era innervosita.

La paziente, dopo un lungo silenzio, mi risponde:
- Quando lei mi parla di cose così io mi dico penso che non le ho mai pensate. Mi sembrano “fuori”: i sentimenti di intolleranza verso la bambina per me sono impensabili. -

Pensare l’impensabile

L’impossibilità di pensare i sentimenti di intolleranza verso i figli sarà il tema di questo lavoro: andrò in un primo momento lontano dalla clinica, dove le cose sono troppo brucianti per ripercorrere un mito antichissimo dove questa intolleranza è portata alle sue conseguenze estreme, Medea.
Tempo fa, con un gruppo di colleghi mi ero trovata ad esaminare gli elementi in gioco in questo mito e, seguendo il suggerimento di Bion, a cercarne le “congiunzioni costanti” [3].
In quell’occasione avevo rivisto il film di Pasolini interpretato dalla Callas.
Il regista coglie la famosa cantante lirica negli anni del suo precoce tramonto. È stata lasciata da Onassis per Jaqueline Kennedy ed ora, lei che è stata una delle più grandi interpreti dell’opera di Medea, non può più cantare. Privata della sua voce, ha solo occhi. 
Verso la fine del film, quando ci si sta avvicinando all’epilogo della tragedia, il suo sguardo si posa sul coltello in fianco a lei. Sembra quasi che succeda per caso, sta cullando il bambino, ma è come se in quello sguardo si potesse vedere l’intensità del pensiero che le si affaccia alla mente: si tratta di un pensiero tremendo che, una volta pensato, non può più essere dimenticato.
Quello sguardo posato sul coltello mi ha riportato ad altri sguardi ed ho cominciato a ricordare i racconti delle donne che avevano temuto di prendere impulsivamente un coltello e trasformarsi in una Medea in un momento in cui solo la tenerezza avrebbe dovuto avere il diritto di esistere.
Vi sono elementi che non possono stare insieme: nel momento in cui questi pensieri si imponevano alla loro mente senza replica, queste donne li sentivano come estranei e staccati dal resto.
A questo punto,visto che questo mito mette insieme questi elementi inconciliabili[4] il suo racconto avrà una certa importanza[5].

Medea

Medea era una giovane principessa della Colchide, una terra ai piedi del Caucaso. Non era un paese ospitale: si racconta che suo padre, il re Eete, facesse uccidere tutti gli stranieri al loro arrivo dal mar Nero.
In Euripide più volte le viene ricordato che proviene da un paese barbaro, “paese che agli occhi dei greci appariva dominato da una cultura incomprensibile e sanguinaria”[6].
Il padre, figlio del Sole, è un padre importante, mentre la madre, Idia, ninfa oceanina, non sembra molto rilevante.
Mi ero chiesta allora: quale madre per Medea?
Avevo trovato risposte nel libro “Medea memorie di sangue“ dove alcune studiose mettono in luce l’esistenza di versioni del mito in cui la madre è Ecate, divinità primigenia, sovrana di tutte le maghe e madre di Circe.
La principessa era stata consacrata a questa dea ancora bambina.[7]
Ecate è una dea antichissima, legata agli inferi: è la dea dei parti e degli aborti, dei legami ancestrali di sangue, dei filtri che danno la morte e la vita, che rendono fecondi. È una dea tremenda e crudele:
“Ecate è il nome di tutto ciò che esiste, di quella potenza oscura che dal niente, da Ade, trae esistenza: Ecate è in greco il nome di un sacro terrore“[8].
La sua sacerdotessa deve essere vergine per non perdere la sua potenza nell’unione col maschio e nel partorire figli, conosce le arti magiche ed è capace di preparare filtri che danno la vita, la morte, la fertilità.
La nostra giovane non viene allevata per essere madre ma per essere sapiente: Medea è collegata etimologicamente a Metis, colei che dà il buon consiglio, e Metis a Medha, da cui medicina[9]. Il futuro che le è destinato non è il focolare domestico.
Ed è proprio mentre sta andando al tempio di Ecate che incontra il giovane Giasone: il
principe greco è molto bello ed è l’eroe che guida la spedizione degli Argonauti, è uno dalle grandi imprese.
Apollonio Rodio (III° a.C.) ci descrive un eroe dagli aspetti anche poco nobili: gli dei gli suggeriscono di sedurre la fanciulla perché con uno dei suoi filtri può proteggerlo dalle scottature mortali dei tori d’Efesto che Eete lo costringerà ad affrontare.
Per questo lui l’aspetta sulla via del tempio, un piccolo dio potente l’aiuta:
 “Eros giunse per l’aria chiara, invisibile, violento, come si scaglia sulle giovani vacche l’assillo che i mandriani usano chiamare tafano (…) scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le prese l’anima, (…) e il cuore, pur saggio, le usciva per l’affanno dal petto, non ricordava nient’altro e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo.”[10]
È amore a prima vista e la scelta, come la pulsione, é violenta.
“Loro due stavano in silenzio, uno di fronte all’altra (...) lei non sapeva quale parola dire per prima: voleva dire tutto insieme nello stesso momento.
Poi senza esitazione trasse dalla fascia sul petto il magico filtro. Giasone esultò e lo prese nelle mani.”[11]
 uindi Giasone ha raggiunto l’obbiettivo e le promette fedeltà eterna.
Le vicende poi si susseguono drammatiche: Medea lo aiuta ad ingannare il padre e ad impossessarsi del vello d’oro, che era fonte di ricchezza e protezione per quelle terre.
A questo punto è costretta a fuggire e gli Argonauti, non senza riserve, la accolgono sulla nave.
La fuga è tale da rendere impossibile il ritorno. Medea, appena uscita dal suo stato di maga bambina, fugge con la crudeltà e la determinazione di un’adolescente violenta: per rallentare l’inseguimento da parte del padre uccide e smembra il fratellastro, tanto da costringere il re Eete a fermare le navi per raccogliere i pezzi del corpo straziato.
Tradisce il padre e la sua terra, ma tradisce anche se stessa, il suo voto. La sua è una vita da esule: a Corinto, nel film di Pasolini, vediamo la sua casa fuori delle mura della città. Partorisce i suoi figli lontano dalla propria terra, lontano dai legami familiari, lontano dai riti e dagli affetti che sostengono gli eventi cruciali della vita.
Certo, come dirà Giasone, in una terra civile lei potrà passare dalla violenza alla giustizia, conoscerà le leggi, ma sarà sempre una “barbara”, mai completamente integrata.
Nemmeno per lui c’è quella sicurezza che è data dalla propria terra.
Dopo dieci anni lascia Medea per sposare la figlia del re di Corinto assicurandosi così dei legami più solidi con la patria d’adozione - un matrimonio più onorevole e sicuro dell’unione con una barbara - e l’eredità del trono di Corinto[12].
A questo punto comincia il racconto di Euripide: Medea furiosa e disperata impreca e minaccia vendetta. Il tema della lontananza dalla terra d’origine è martellante nella sua mente, la sua condizione di straniera ora si fa atroce. L’abiura dei propri legami è la fonte della sua disgrazia attuale: nel momento del dramma non c’è madre, né padre né fratello che l’accolga. È apprezzata da tutti per le sue cure, ma non si sente compresa nel suo dolore di esule.
Umiliata pubblicamente, ha reagito con minacce ed ora è in pericolo: deve andarsene, ma non sa dove trovare rifugio. Di nuovo l’esilio, questa volta sola e impotente.
L’unica cosa che le può restituire dignità e liberarla dalla vergogna intollerabile[13] è la vendetta e questa vendetta non sarà appagata solo dall’uccisione della rivale, ma dovrà privare Giasone dei figli.
Fino a qui il mito con la sua concatenazione di fatti che portano al tragico esito.

 Prima madre

Era cresciuta in un vecchio quartiere di una grande città del sud, affidata ad una nonna un po’ strega che le insegnava la sapienza antica e l’interpretazione dei sogni.
Il padre la adorava, la madre invece, troppo occupata da un fratellino sempre malato, non l’aveva tenuta accanto a sé, in casa, ma l’aveva mandata ”a servizio”, ancora bambina.
Quando aveva incontrato il marito era giovanissima: lui veniva dal Nord, era un tecnico impegnato in grandi imprese: lei se ne era innamorata. Se ne era andata con lui, incinta del primo figlio, nelle grandi città italiane, seguendolo nei suoi progetti grandiosi.
Aveva partorito lontano dai suoi, sola, a parte il “coro” di amiche che subito si era creata, grazie anche alle sue capacità “divinatorie”, alle sue arti curative e ai buoni consigli per cui era molto apprezzata.
Il rapporto con il bambino, fragile e ammalato, era fatto solo di dolore.
Dopo pochissimo tempo, era di nuovo incinta: le era nata una bambina vispa e sana ed in quel momento, di colpo, le si erano affacciati alla mente pensieri terribili: nella solitudine dell’appartamento, aveva temuto di uccidere d’impulso la piccola con un coltello.
Così era cominciata la sua lunga lotta: i coltelli, sorvegliati evitati, mai dimenticati, erano diventati il tormento segreto e feroce che l’avrebbe accompagnata tutta la vita.
Spesso la propria morte le era sembrata l’unica via d’uscita.
Il marito, ignaro di quello che accadeva nella mente della sua giovane moglie, ad un certo punto aveva dovuto abbandonare le grandi imprese. Insieme avevano iniziato una piccola attività commerciale che era diventata poi la loro fortuna.
Lui sottolineava sempre le umili origini e l’“ignoranza” della moglie: era cresciuto in una cittadina raffinata, aveva studiato e conosceva il mondo; lei non aveva nemmeno coraggio di scrivere se lui la guardava, ma chi sosteneva tutta l’attività era poi questa donna intelligente ed ingegnosa.
Nel suo magazzino, sempre più grande e popolato, insieme ai suoi prodotti dispensava ai suoi clienti consigli sapienti: adorata da tutti, interpretava i sogni secondo un’arte antica; molti le affidavano le loro confidenze e perfino i loro risparmi.
Ora, dopo alcuni anni dal momento in cui ha dovuto ricorrere al mio aiuto, quando mi viene a trovare per un improvviso tormento nei pensieri, il marito l’accompagna e a volte entra per salutarmi: è decisamente un bell’uomo, mi spiega che la tratta con molta generosità e mi dice che le fa sempre più concessioni .
Io so che non potrebbe muovere un passo senza di lei, malgrado le sue affermazioni; so anche che lei è ancora totalmente votata a lui.
Ma dobbiamo lasciare per il momento anche questa storia.

Seconda madre

Fin dai primi incontri, mi colpisce il suo sguardo: mobile e guardingo, scandaglia la stanza continuamente, come per cercare la via di fuga più prossima, mi fa pensare ad un animale selvatico chiuso in gabbia.
Mi ricorda la Callas quando, senza via di scampo, percorre la stanza a grandi passi, agitata, lanciando il suo sguardo furioso.
Mi dice che deve andarsene, ha l’ossessione di partire: deve cambiare città, perché dove lavora le cose stanno volgendo al peggio. E’ una donna di scienza, le sue scoperte le hanno procurato una grande stima, ma i colleghi cercano di non farla lavorare per paura che la sua fama oscuri la loro. Lei sente che la situazione è pericolosa e che, malgrado il suo contributo sia unico, potrebbe essere cacciata. Non sa dove andare.
Qui sente la gente fredda e non ha legami, non si è mai sentita veramente accolta. È sempre rimasta una montanara, mai veramente integrata nell’ambiente cittadino, e la sua sapienza non l’ha aiutata.
(Medea a Creonte che la sta cacciando )”Non è la prima volta, ahimè, che la mia fama mi reca danno e mi procura grandi sciagure (…) Chiunque  sia per natura  sensato non deve mai far istruire i figli oltre misura (…) si procura un’invidia malevola da parte dei cittadini: se sarai ritenuto superiore a coloro che hanno fama di possedere una cultura brillante, in città apparirai persona molesta, io stessa condivido questa sorte. Per il mio sapere c’è chi mi invidia, e chi invece mi odia, c’è chi  mi ritiene innocua e chi pericolosa”.[14]
 Non sono questi però i dolori che l’hanno portata in analisi. Pian piano, con cautela, mi parla del motivo che l’ha spinta a cercare aiuto: dal momento del parto un pensiero terribile le si presenta alla mente: liberarsi del bambino, oppure uccidere sé stessa.
Il secondo pensiero è conseguente al primo ed ha un significato preventivo e punitivo nello stesso tempo[15].
Non c’è nessuna possibilità per la paziente di capire perché le si affaccino alla mente  immagini così terrificanti, trova una spiegazione nella sindrome premestruale, l’arrivo del sangue è individuato come il momento in cui le brutte idee passano: sangue che purifica (che placa gli dei? forse sangue del sacrificio?), ma anche sangue che mette in pace con l’essere donna, che calma la presenza dei temuti ormoni maschili che reclamano per sé la possibilità di prescindere dai figli, dal senso materno.
Medea : “di tutte le creature che hanno anima e cervello noi donne siamo le più infelici (…) dicono che viviamo in casa lontano dai pericolo mentre loro vanno in guerra: che follia! E’ cento volte meglio imbracciare lo scudo che partorire una volta sola”.[16]
Comincio a cercare di conoscere la sua storia: è difficile, parla a fatica, non è certo eloquente. Il paese “barbaro” da cui proviene è in una valle isolata di montagna, è un mondo popolato di riti e paure antiche, nei cui racconti si intrecciano magia e terrore, bambini uccisi da malefici e una madre che perde i figli.
IL padre, lavoratore serio e severo, investe su questa bambina le sue più grandi aspettative; fin da piccolissima le affida compiti importanti. È un padre di poche parole, che lei ammira e teme.
Quando va a lavorare lontano per guadagnare i soldi che serviranno a far studiare la figlia nel liceo della città più vicina, affida tutto a questa intelligentissima e diligente adolescente.
Lei però non deve in nessun modo occuparsi dei ragazzi o dell’amore, solo studio, incarichi di responsabilità, sacrifici. Del resto, da sempre, è lei che si occupa dei numerosi fratellini.
Così, nei suoi pensieri segreti, decide di votarsi ad un futuro a servizio dell’umanità, seguendo la strada che le era già stata assegnata[17].
Poi l’università, per la prima volta lontana da casa: tenace studentessa, sacrificando tutto si laurea prestissimo.
E poi ancora via, sempre con l’ossessione di partire: un’altra città, borse di studio, ricerca. Va avanti con grande determinazione, stimata e capace, produce risultati importanti.
Può parlare pian piano di tutto questo, ma non c’è alcun sollievo alla sua sintomatologia. Io, intanto, leggo Euripide e mi chiedo perché non mi parla mai del marito. Elude l’argomento, o lo liquida velocemente. Lui lavora lontano, sembra non aver alcuna importanza per lei.
Aiutata da qualche interpretazione fortunata, riesco a conquistarmi un po’ della fiducia di questa donna così perseguitata che paga le sedute una per una, come se dovesse andarsene per sempre ogni volta.
A contatto con quella che poteva essere la pietosa omissione di un’umiliazione subita, devo avvicinarmi a questo argomento con molta cautela.
Il racconto infatti sarà segnato dalla ferita narcisistica subita.
Incontra il marito quando sta finendo gli studi: lui è più grande, ma è ancora molto lontano dalla laurea. Con la dedizione che ha caratterizzato da sempre i sui rapporti, lei lo aiuta passo dopo passo a completare gli studi e ad inserirsi nel mondo del lavoro.
Credo che non saprò mai quanto fosse innamorata di lui, oggi la vergogna per questo amore è troppo forte.
Si sposano, ma lui è subito impegnato in imprese estreme, è sempre via e lascia a lei tutte le responsabilità della famiglia.
Quando dovrà partorire il suo bambino, sarà completamente sola: il marito, unico visitatore, l’andrà a trovare solo il giorno dopo il parto.
Forse con invidia per le sue capacità, le rimprovera le sue umili origini: lui viene da una famiglia colta ed è cresciuto in un ambiente raffinato; lei compra mobili antichi, impara il galateo e cerca di non gridare nei momenti di rabbia come fa la sua gente un po’ barbara[18].
Lui le dice che è fortunata, che ora vive in un posto civile, e sembra aver dimenticato quanto le deve.
Medea: “ Oh scellerato ! Io ti ho salvato, il drago che custodiva il vello d’oro io uccisi, e sono stata io che tradendo mio padre e la mia casa sono venuta con te più desiderosa del tuo bene che saggia (…).
Giasone: (…) in cambio della mia salvezza hai ricevuto più di quanto  tu mi abbia dato (...) abiti in Grecia anziché in un paese barbaro, conosci la giustizia e sai servirti della legge (…) tutti  i greci si sono accorti che sei saggia e ne hai ottenuto fama, se invece tu abitassi agli estremi confini della terra non si parlerebbe di te.”[19]
Nella tragedia di Euripide, Medea medita la sua vendetta perché nessuno possa ridere di lei, nessuno deve permettersi di dire che lei ha subito impunemente [20], l’umiliazione per l’amore ferito può essere lavata solo con il sangue e lui dovrà rimanere senza figli per sempre.
In analisi introduco pian piano l’idea che il bambino che deve essere ucciso sia il “figlio di lui”, l’idea cioè che la rabbia verso il marito possa far sì che lei desideri togliergli il figlio.
È allora che viene attraversata dal pensiero di uccidere d’impulso il marito.
Sembrava non vi fosse alcun pensiero su di lui, alcuna rabbia, ma a questo punto dell’analisi il suo sintomo si modifica, la sua ossessione cambia obbiettivo e il pensiero di far male al bambino scompare.
Il sollievo è immediato: è molto diverso essere tormentati dal pensiero di poter uccidere il proprio figlio inerme rispetto alla paura di poter uccidere il proprio marito, il quale, oltretutto, può difendersi.
Comincia così una progressiva diminuzione dell’ideazione ossessiva e, in analisi, l’inizio di una nuova consapevolezza ed elaborazione.
C’è una fugace riapparizione del sintomo durante una vacanza: durante un’escursione, sta per raggiungere un posto da cui si può ammirare un panorama unico.
Ha atteso molto questo momento, c’è poco tempo ed il bambino la rallenta: di nuovo, per un attimo, riappare l’idea di gettarlo via. Come osserva Rita Calabrese [21], le gambe che non sono legate dalle braccia dei bambini corrono più veloci.
Se non ci fosse il figlio questa donna potrebbe molto più agevolmente seguire il progetto di lavoro a cui aveva dedicato tutta la sua vita.
Uccidendo i figli, Medea cancella la maternità e restaura lo stato di sacerdotessa vergine che aveva contraddistinto la sua crescita.
(…)Una mala sorte l’aveva portata ad essere madre, lei che vergine e maga non avrebbe dovuto mai essere donna .”[22]

Qualche considerazione

Nella mitologia greca troviamo vari esempi di madri che uccidono i propri figli, le  congiunzioni del “fato” che possono portare a questo esito sono varie. Lo stesso mito di Medea ha molte variazioni.
La domanda che mi ero posta durante lo studio del mito - quale madre per Medea? - mi ha portato a collegare ed organizzare gli eventi psichici secondo alcuni elementi.
L’impossibilità di radicamento nella madre (madre-terra), evidenzia una vulnerabilità narcisistica di fondo, che porta negli investimenti successivi, a spingersi su un versante poco adatto a formare un terreno sicuro dove radicare la maternità.
Ecate è una madre che richiede una dedizione sacerdotale[23] e non permette alla figlia di identificarsi né come madre, né come donna.
Lo sguardo di Giasone è il primo sguardo dove Medea vede riflessa la sua femminilità. L’innamoramento è inevitabile e la dedizione al nuovo dio seguirà l’unica modalità che lei ha a disposizione: il voto di tutta sé stessa.
“Medea in quel momento tutto il cuore gli avrebbe dato: tutto strappandoselo dal petto se glielo chiedeva”[24].
Per questo quando lo perde, lei si ritrova a perdere tutto quello che ha.
La vendetta diventa il tema centrale in quanto reazione adeguata per eccellenza alle mortificazioni che vengono subite quando ci si muove nel terreno del narcisismo ferito[25].
Questo aspetto è ben evidenziato dalla componente “barbarica” presente nel mito di Medea.
Vorrei a questo punto riassumere gli elementi di questo mito che ho valorizzato nel mio racconto.
La Colchide, ovvero l’emigrazione che evidenzia la presenza di uno scarto culturale, quindi una “migrazione interna”. Il passaggio da una modalità impulsivo/istintuale ad una “legale”, che viene così sottolineato, si fonda però su uno sradicamento, sulla perdita della terra-madre, su una rottura violenta dei legami familiari. Un esilio quindi non solo geografico, ma interno, un esilio dai propri legami e dalla propria storia. La maternità viene vissuta in un ambiente straniero e in solitudine: la solitudine di queste pazienti, ben espressa nella loro condizione sociale, è prima di tutto interna.
Decisivo è poi il fatto che l’elemento dell’emigrazione e dello sradicamento si ripresenti in un secondo momento nella storia, con la cacciata di Medea e la prospettiva di un nuovo esilio.
Eete, la predominanza della presenza paterna, ovvero un forte investimento del padre sulla figlia, investimento che esclude la possibilità di un altro uomo, che di conseguenza può essere scelto in opposizione al padre.
Ecate, una madre infera, dea tremenda e crudele, sottolinea che la crescita non è legata alla maternità, cioè alla vicinanza alla madre, ma ad una scelta verginale, ad esempio in nome della scienza o della professione. In tutte queste donne ritroviamo un’identificazione materna debole, o più precisamente un’ identificazione con gli aspetti di dedizione e rinuncia alla propria femminilità che è stata loro richiesta prima dalla madre, e poi dal padre, con una conseguente disposizione alla cura, al consiglio.
Eros, la scelta pulsionale, violenta e ineluttabile, ci descrive anche la tragica forza che ha primo amore per chi non è mai stato visto prima.
La forza di questo innamoramento “barbarico” ha poi un suo corrispettivo direttamente proporzionale nell’espressione estrema della vendetta[26].
Giasone, l’eroe bello, affascinante ed eloquente, eroe che ha bisogno di essere investito narcisisticamente e non riesce ad assumersi la paternità. Per questo la scelta di Medea ha un aspetto ineluttabile: lei sa che in ogni caso i suoi figli non sarebbero sopravvissuti all’abbandono del padre .
Questi elementi hanno valorizzato analogie nelle storie cliniche di queste madri.
Altre volte, la stessa concatenazione di elementi mi si è evidenziata ad un secondo esame, utilizzando questi elementi come una griglia “preconscia” nelle storie in cui ho incontrato un sintomo che riportava alla luce l’impulso di uccidere un figlio, portando a evidenziare elementi mancanti.
Il lavoro sul mito, funziona come un momento di “espansione” della mente dell’analista.
Bion osserva: “Il mito incarna le congiunzioni costanti e le variabili valide (...); le libere associazioni ascrivono alle variabili i valori attuali in quel momento e lo studio del materiale (del paziente) svela il problema, che è il passo essenziale per la sua soluzione, se ve n’è una”[27].
Questo, nel caso della seconda madre, ha avuto una grande utilità terapeutica: collegando l’impulso omicida alla vendetta, ho potuto evidenziare una connessione che ha innescato una serie di insight.
Davanti alla possibilità che vi sia un impulso ad uccidere un figlio la mente umana non può che essere sconvolta, eppure deve trovare i mezzi per far fronte a questo, deve trovare una rappresentabilità.
Nei casi presentati si rende evidente alla mente, in una qualche forma, un impulso o un’emozione del tipo descritto nel mito di Medea.
In particolare, in questi casi questo elemento appare come pensiero ossessivo, il contenuto rimosso è fedelmente conservato e riportato nell’idea ossessiva [28].
La rappresentazione proposta violentemente alla mente con la produzione ossessiva riporta alla luce inalterato l’impulso inaccettabile e costringe la mente a prendere in considerazione questo pericolo e a farvi fronte con un lavoro faticoso ed incessante[29].
Tutto il pensiero è occupato nel lavoro intorno all’impulso sottostante che viene così sorvegliato, arginato, contenuto; in più vengono create barriere protettive e formazioni reattive. La prima madre, con la sua ossessione per i coltelli, ci pensa continuamente, e riesce, ad esempio, a far in modo di non essere mai sola con bambini.
Inoltre il continuo lavorio della mente toglie pian piano forza all’impulso.
Formazioni reattive potenti ed efficaci hanno portato la seconda madre a fare di un lavoro molto utile socialmente, lo scopo della sua vita.
Temendo di aver in qualche modo danneggiato il bambino con i suoi pensieri, è attenta a come lui cresce, cerca consultazioni specialistiche che aiutino lei e il bambino, sorveglia se stessa quando è con il figlio cercando, dubbiosa, l’impulso anche sotto mentite spoglie. Si costringe così ad un continuo ed incessante esame, attenta, come può, alla possibile infelicità del bambino.
In ogni caso potremo dire che c’è un elemento che viene comunque preso in considerazione e trattato, c’è un grande sviluppo di angoscia. Il pericolo, reale, è tenuto ben presente[30].
Il crollo temuto determinerebbe il passaggio ad un funzionamento indifferenziato dove fare figli o eliminarli fa parte dello stesso potere materno.
La mente quindi fa fronte a suo modo a questo pericolo e imbriglia, nella fitta rete delle costruzioni ossessive e delle misure contro-fobiche, questo impulso.
Fino a qui ho seguito le tracce di Medea in pazienti che in qualche modo avevano presente questo elemento.
Il lavoro però non si è fermato qui.
Ad un certo punto ho cominciato a chiedermi dove era finita Medea in situazioni in cui cominciavo ad aspettarmi che apparisse. Quando la concatenazione degli elementi storici e familiari si incanalava “fatalmente” nel senso indicato dal mito (Colchide / Ecate / Eete / Eros / Giasone) ho cominciato a mettere in conto la produzione di una certa quantità di pensieri degni di Medea e quindi a cercare impulsi rivolti all’eliminazione dei figli.
Lo stesso Freud, quando parla di questa idea ossessiva in una signora che lo aveva consultato, accenna subito dopo alla sua “pietosa situazione matrimoniale”[31].
Sappiamo da Winnicott[32] quanta rabbia i bambini possano suscitare naturalmente nelle loro madri e credo dobbiamo chiederci comunque che fine facciano questi sentimenti e come la mente riesca a “trattarli”.
Ho visto in atto la negazione, l’idea ossessiva. Ho potuto osservare alcuni esempi di quello che succede quando questo elemento viene preso in considerazione dalla mente e vi appare in una qualche forma.
Ma cosa può succedere se, in situazioni in cui si potrebbe prevedere l’apparire di un  “elemento Medea”, non vi è alcuna possibilità per la mente di rappresentarsi questo impulso?

Terza madre

Vorrei tornare al frammento clinico con cui ho iniziato questo lavoro evidenziando come, davanti al mio tentativo di ampliare la tollerabilità delle emozioni suscitate dal pianto della bambina, la pensabilità, nucleo vitale del lavoro della mente, si sia arrestata: la paziente dice: - è impensabile! -.
Siamo verso la fine del primo anno di un’analisi che questa signora ha iniziato dopo che aveva dovuto ricoverare la figlia adolescente in fin di vita perché il timore di quello che ingoiava le impediva di alimentarsi.
Fin dall’inizio questa madre si chiedeva disperatamente cosa poteva aver portato la figlia ad ammalarsi in maniera così grave. Il rapporto era sempre stato idilliaco. Anche davanti alle durissime prove che la malattia della figlia le aveva fatto attraversare lei continuava a garantirle (e a garantirsi) che si erano sempre volute bene. Infatti prima della malattia non c’erano mai stati conflitti e la figlia, fin da bambina, era stata buonissima, diligente ed affettuosa.
Lei stessa sembrava non avere conflitti con nessuno: sul lavoro le persone la adoravano, e nella relazione analitica, la mia ricerca scrupolosa del transfert negativo (cercando nelle pieghe del suo dichiarato buon rapporto con me) era destinata all’insuccesso .
La rabbia sembrava completamente estranea a questa signora sempre calma e gentile, ed era certo molto lontana dalla furiosa Medea che siamo ormai abituati a conoscere.
Sentivo che non c’era nessun modo per penetrare in questo mondo idealizzato e disperavo di poter trovare una risposta alle sue angosciose domande.
Nei primi tempi le sedute avevano come elemento centrale le visite alla figlia: ogni volta che, dopo la lunga visita, doveva lasciarla, lo strazio e la rabbia della ragazza erano violentissimi, niente poteva consolarla o calmare la sua furia.  
Gli infermieri dovevano strappargliela di dosso e lei se ne andava col cuore a pezzi senza voltarsi indietro.
Fino a che un giorno, appena lasciata dalla madre dopo una di queste visite, la giovane si era lanciata nel vuoto da una finestra molto alta.
Questo volo, che mi era apparso davanti agli occhi durante il lavoro sul sogno riportato all’inizio, solo per un miracolo non era stato fatale.
Cercavo allora di avvicinare la paziente a quello che poteva essere stato il dolore antico della bambina per il distacco da lei, quando, a quattro mesi, l’aveva completamente affidata alla propria madre, dolore che non aveva mai potuto guardare: - Mia madre mi faceva sempre andar via di nascosto, perché la piccola non vedesse -.
Da parte sua ricordava di aver provato una pena intensa, insopportabile, al momento di affidarla la prima volta, ma poi aveva pensato che la propria sofferenza non doveva avere importanza, per la bambina era meglio così e, magicamente, questo dolore era scomparso.
Eravamo molto lontane da una qualsiasi “teoria”[33] utile ad interpretare i fatti del mondo interno.
Dall’altra parte c’era l’inferno che proponeva la figlia, la quale nei suoi momenti “deliranti” descriveva la madre come una donna feroce che aveva sempre voluto liberarsi di lei .
Dovevamo riuscire ad entrare in questo inferno, ma io temevo che il biglietto che avevamo fosse di sola andata.
Parlando del mito, Riccardo Romano dice che, insieme alla fantasia, alla poesia e al sogno, rappresenta il biglietto di ritorno da un viaggio per l’inferno, la libertà del ritorno dall’inconscio o dal rimosso.[34]
Perché aveva lasciato la bambina? Che cosa le stava succedendo?
La signora si era separata dal marito molto presto e sembrava non avere nessun risentimento o rivendicazione verso di lui, pur essendo evidente che non riceveva nessun aiuto nemmeno nella situazione estrema della malattia della figlia.
Certamente era molto elusiva sull’argomento: era segno della vergogna per l’umiliazione subita?
A questo punto è arrivato il sogno, evocato dai sentimenti intollerabili nei confronti della figlia che l’aggrediva al telefono dopo il tentato suicidio, e che lei non riusciva a calmare. Questo sogno ha cominciato a gettare una luce su un elemento che mi riportava a Medea attraverso l’immagine, che mi si era formata nella mente, della figlia che si lanciava dalla finestra.
Alcuni elementi della storia di questa madre avevano allora cominciato a prendere forma in maniera diversa.
Prediletta del padre, aveva un rapporto unico con lui e lo seguiva, nei suoi viaggi di lavoro fin da piccolissima: diversamente dai fratelli che erano rimasti nell’ambiente dove erano cresciuti, lei aveva voluto studiare. Era stata così l’orgoglio del padre e la perla del quartiere di periferia dove vivevano.
Aveva conosciuto suo marito all’università: lui era un leader naturale, trascinava tutti nelle sue imprese. Lei aveva voluto sposarlo appena laureata, anche se, a quel punto, lui era sembrato molto incerto sul matrimonio per cui la festa che lei aveva sognato si era trasformata, come nella grotta di Macride, in un rito frettoloso e solitario.
Già nei primi tempi lui era sempre fuori, impegnato in cose importanti, e lei, dopo il parto, si era ritrovata sola.
Quando aveva affidato la bambina completamente alla propria madre, l’aveva fatto perché la considerava l’unica madre possibile. Questo le era sembrato del tutto naturale. Non aveva mai pensato di poter mancare alla figlia.
In quel periodo non aveva potuto vedere quanto poco il marito fosse capace di volerle bene e quanto lontano fosse da lei.
Alla sua mente non erano potuti arrivare né la consapevolezza dell’effettivo abbandono del marito, né la rabbia e il dolore conseguenti, né il riverbero che questo poteva avere nel suo rapporto con la piccola appena nata[35], alla quale non era più in grado di fornire l’apporto narcisistico che la bimba doveva avere per sentire che vivere aveva un senso[36]. Quando, incinta del secondo bambino, lui l’aveva lasciata senza nemmeno dirglielo, la cosa l’aveva colta come un fulmine a cielo sereno .
Non vi era stata nella sua mente una zona psichica che permettesse la tollerabilità[37] di determinati elementi, l’evento psichico doloroso determinato dalla perdita e dalla ferita narcisistica non consentiva la mediazione delle simbolizzazioni e della pensabilità.
Ora, alla luce di questo sogno, possiamo considerare l’ipotesi che avesse affidato la bambina alla nonna perché temeva il proprio “nervosismo”.
“(La nutrice al pedagogo:)Tieni lontani i bambini il più possibile, che non vadano vicino alla madre esasperata. Ho già visto il suo sguardo posarsi su di loro torvo”[38].
Obbedendo ad un tribunale interno terribile, si era “dimessa” dal suo ruolo materno.
Forse questa separazione precoce è stata per la figlia il terreno su cui le vicende dolorose successive si sono innestate fino a portare all’esplosione di un’anoressia iniziata subdolamente, che si è poi rivelata tra le più feroci.
In questo caso “Medea” non è mai apparsa nella mente della madre. La signora dice che per lei i sentimenti di intolleranza verso la bambina sono sempre stati “impensabili”: potremmo dire che il diniego in atto è stato massiccio e che il lavoro della mente intorno a questo tema è stato impossibile .
Non vi sono state parole per lei per contenere emozioni impensabili.
Del resto lei aveva cercato fin da piccola di essere buona[39], forse non aveva mai avuto la possibilità di rappresentarsi un suo mondo interno dove vi fosse spazio anche per la rabbia, e probabilmente nemmeno per la passione, che pure cominciava a rivelarsi in analisi come un tratto caratteristico del suo sentire.

 

Concludendo

Per le conclusioni devo tornare alla madre che temeva i coltelli e alla parte più dolorosa della sua storia.
Nei confronti del suo primogenito questa signora non ha avuto nessuno dei pensieri ossessivi che le avevano fatto temere di uccidere la seconda figlia, né ricorda che vi sia stato alcun altro segno di rifiuto consapevole. Per questo figlio non era apparso nessun pensiero degno di Medea.
Quando questa signora mi è stata inviata, questo figlio, nel pieno dell’adolescenza, si era lanciato dal palazzo più alto della sua città, ponendo fine alla sua sofferenza.
Per le madri di questi due ragazzi che hanno cercato la morte non vi è stata una rappresentabilità di questo elemento estremo.
In nessuna forma qualcosa di questo tipo è apparso alla loro mente, ma la storia successiva dei loro primogeniti sembra averlo tragicamente riproposto.
Credo che ogni donna debba fare i conti con i sentimenti negativi che può provare verso i suoi figli e che a volte questi sentimenti possano divenire “impensabili”.
Mi chiedo quali siano le conseguenze di questa “impensabilità” e se sia possibile ipotizzare che possa produrre conseguenze più drammatiche dei più barbari pensieri ossessivi.
Queste due madri hanno avuto dei pensieri molto diversi nei confronti dei secondogeniti. Abbiamo già visto la lunga lotta della prima con i coltelli. La seconda, in una fase successiva dell’analisi, mi raccontava come la sera, avvicinandosi alla camera del figlio minore, non riuscisse ad evitare un timore acuto. Ricorda che fin da quando era piccolo, prima di entrare nella sua camera, era terrorizzata per quello che temeva di vedere: aveva davanti agli occhi l’immagine del figlio in un lago di sangue, ucciso da un estraneo introdottosi in casa. Questa immagine non l’aveva più lasciata.
Anche qui vediamo come un “elemento” Medea abbia trovato una strada per essere rappresentato, pur scisso e proiettato, ma comunque in qualche modo presente nella mente, con tutto il terrore di cui è degno.
Questo figlio non ha i problemi della sorella maggiore, anzi, sta abbastanza bene.
Anche per quanto riguarda l’altra madre, la figlia secondogenita ha avuto un destino molto diverso da quello che ha segnato la vita del primo figlio.
“Il punto cruciale consiste nel fatto che bisogna avere il coraggio di rischiare di essere disponibili per qualcosa che si desidera esprimere, ma questo vuol dire avere il coraggio di permettere a un pensiero senza pensatore di collocarsi da qualche parte nell’ambito delle proprie capacità. Occorre rischiare, esporsi alla possibilità di ospitare pensieri selvaggi, che circolano alla ricerca di una mente in cui poter alloggiare, afferrarne uno senza essere troppo razzisti, sia esso un ricordo, o un’intuizione e per quanto selvaggio, strano, amichevole egli possa essere, dargli casa, e permettergli poi di ‘scappare fuori dalla bocca’, in altre parole dargli nascita. Ma per far questo occorre che ci sia qualcuno vicino disposto ad ascoltare.”[40]

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Tagliacozzo R.(1982). Ascoltare il dolore . Roma, Astrolabio, 2005.

 

Sintesi

Partendo dallo studio di alcuni aspetti del mito di Medea messi in luce da alcune studiose, si approfondiscono alcuni fattori che favoriscono l’insorgere di impulsi pericolosi verso i figli.

Parole chiave

Mito, Medea, impulsi aggressivi, idee ossessive, diniego.

Summary

Cogitation about Medea’s myth

A recent study of several aspects of the myth of Medea has thoroughly examined a few factors that favor the occurence of dangerous impulses towards children.

Key words

Myth, Medea,aggressive impulse, obsession, disavowal.

 

Jones De Luca,Via Boni 53, 31029 Vittorio Veneto, (TV)



[1] De Luca Jones  ( 2007) Associazioni sul mito di Medea . Rivista di psicoanalisi . N. 4/2007 ed Borla.

[2] Letto al Centro Veneto di Psicoanalisi 2006, al Centro di Psicoanalisi Romano 2007.

[3] Bion, 1961/68, 239

[4] Secondo Bion nel mito il racconto permette di imporre una parvenza di coesione e di integrazione a elementi che altrimenti non potrebbero essere messi insieme e in questo modo permette di gestire attraverso una storia una situazione emotiva altrimenti ingestibile: “La funzione della forma narrativa è di consentire sia all’individuo che alla razza di osservare e di mantenere questa congiunzione costante” Bion, 1961/68, 230, 231. Corrao si spinge oltre: “la funzione principale del mito è essenzialmente quella di fornire una forma discorsiva e narrativa per una verità che non può essere detta e trasmessa attraverso una definizione diretta.” Corrao, 1992, 28.

[5] “l’impiego del mito come modello cognitivo atto ad esplorare l’ignoto è stato introdotto la prima volta da Freud”Corrao , 1992, 22

[6] Calabrese, 2003, 56

[7] A questo proposito, Bion sottolinea l’utilità di usare le versioni del mito che “per la cui storicità esista consenso tra gli studiosi, poiché a parità di altri aspetti sembra più probabile che una versione del mito che è passata indenne attraverso i secoli, possa attirare con più forza la mente umana che una versione che potrebbe essere un’aberrazione effimera e quindi eccessivamente particolare “. Bion .1961/68, 241

[8] Centanni, 2003, 28

[9] Calabrese, 2003 , 56

[10] Apollonio Rodio, III° a.C., 415

[11] Apollonio Rodio, III° a.C., 499

[12] Negli anni in cui Euripide scriveva il dramma di Medea, nuove leggi vietavano ai greci di lasciare i loro averi ai figli avuti da donne “barbare”, e molte donne furono ripudiate per questo.

[13] Melvin R. Lansky, 2005

[14] Euripide 431 a.C.,30

[15] Molte delle rivisitazioni del mito nei secoli più vicini sostituiscono il finale di Euripide con il suicidio di Medea, che, incapace di uccidere i figli si uccide per la vergogna.

[16] Euripide 431 a.C.,29

[17] “ Le prime identificazioni che fanno parte dello sviluppo dell’io, costruiti attraverso l’introiezione degli aspetti materni, comprendono l’introiezione dell’immagine che la madre ha del figlio” (Moccia, 2006)

[18] “Medea manca dell’armonia greca e pecca di dismisura, abbandonandosi alla passione alla sensualità, alla gelosia.” (Calabrese 2003, 55)

[19] Euripide 431 a.C.,36

[20] Melvin R. Lansky . op. citata

[21] Calabrese: intervento al convegno di Catania 2004

[22] Centanni 2003,43

[23] “Non c’è dialogo ma sottomissione nel rapporto con una madre simile” (Fraire 2007)

[24] Apollonio Rodio, III° a.,C., 499

[25] “Freud riteneva che fossero responsabili dei sintomi isterici solo i traumi e gli affetti che penosi ad essi connessi che non avevano avuto un adeguato sfogo, non mancando di ricordare che il linguaggio crea un nome, “mortificazione”, per indicare quel particolare tipo di sofferenza che accompagna un trauma patito senza poter reagire. Il concetto di narcisismo non era ancora nato, ma in quelle offese subite in silenzio è il narcisismo che noi sentiamo mortalmente ferito e quando, nel 1937, Freud enumererà i traumi che possono colpire la prima infanzia tornerà a parlare di “mortificazioni”e saranno appunto “mortificazioni narcisistiche”. Per “sfogo” egli comprendeva condizioni molto diverse che andavano dal pianto a quella “reazione adeguata” per eccellenza che è la vendetta..” Goretti, 2005, 28  

[26] Freud introduce questa equivalenza energetica parlando dell’abreazione: “è innanzitutto rilevante (rispetto al ricordo del trauma) se si sia reagito o no all’evento impressionante. Intendiamo qui per reazione tutta la gamma di riflessi volontari o involontari con i quali gli affetti si scaricano: dal pianto fino all’atto della vendetta. (…) La reazione della persona colpita da trauma ha propriamente un effetto catartico completo solo quando è una reazione adeguata, come la vendetta.” (Freud 1892, 180)

[27] Bion , 1961/68, 241

[28] Così in Freud; cfr. anche Navarro, 2005.

[29] Così in Freud; cfr. anche Mangini, 2005

[30] Battistini, 2005

[31] Mangini, 2005

[32] Winnicott, 1947

[33] Tagliacozzo . 1982

[34] Romano. 1995, 2002

[35] Una donna anziana mi spiegava come può essere l’investimento di una madre in queste situazioni. Aveva  chiesto alla figlia quarantenne di poter parlare con il suo terapeuta per comunicargli una cosa molto importante e il terapeuta aveva consigliato un incontro con me.

C’era un segreto, che aveva tenuto gelosamente per sé tutta la vita, che pensava dovesse essere messo a disposizione del terapeuta della figlia perché causa della grave depressione con cui la figlia combatteva da una vita .

Secondo questa signora, che aveva una storia di  Medea alle spalle (- Ero la prima laureata della mia famiglia e del mio  paese ma ho lasciato tutto per lui, per seguirlo lontano dalla mia terra- ) la figlia non aveva potuto crescere felice perché il padre aveva tradito lei la madre quando la piccola stava per nascere.

La scoperta di questo tradimento era rimasta segreta e la donna aveva continuato la sua  vita senza dire niente, ma l’insulto all’amore che aveva creato questa nuova vita, aveva fatto sì che, visto che il padre non investiva d’amore la madre nel momento in cui  nasceva una nuova creatura, anche la madre non potesse provare interesse per la bambina.

La signora mi aveva raccontato come allora, abbandonata dall’amore del marito per lei,  non fosse stata in grado di fornire l’apporto narcisistico che la bimba doveva avere per sentire che vivere aveva un senso.

La figlia non era mai stata a conoscenza di questo  fatto, ma per la madre l’influenza di  questa situazione era stata determinante per sua la vita futura.

Il punto che questa signora sottolinea, riguarda l’investimento narcisistico paterno sulla madre dei figli: mi sembra che il mito di Medea ci riporti all’impossibilità della crescita senza l’investimento paterno.

Potremmo dire che la madre, privata di questo investimento non riesce a fornire ai figli l’apporto narcisistico necessario alla crescita.

[36] Ferenczi, 1929

[37] Tagliacozzo. 1982

[38] Euripide, 431 a.C. 25

[39] “Vi è un’inibizione , un ostacolo. Un bambino cerca di essere buono, cerca di essere la persona o la cosa che il padre o la madre vogliono che sia. Buona parte del tempo viene speso da lui a cercare di non essere se stesso o se stessa.. .” (Baruzzi, 1981, 637) 

[40] Baruzzi, 1981, 637

Una versione modificata di questo lavoro :

“ Associazioni sul mito di Medea” è stata pubblicata sul numero 4/2007 della Rivista di Psicoanalisi . Origini precursori . ed Borla

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