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Solano L. - Psicoanalisi e ricerca empirica nell'ambito della Salute (2004)

Psicoanalisi e ricerca empirica nell'ambito della Salute[1]

Luigi Solano -  28 maggio 2004

ABSTRACT

A partire dalla posizione, espressa per primo da Freud, che la psicoanalisi non debba rimanere una disciplina isolata ma debba integrarsi nell'ambito più vasto della psicologia, di cui costituisce il principale fondamento, il rapporto tra psicoanalisi e ricerca empirica viene definito in termini di rilevanza indiretta e reciproca. Argomentando l'infondatezza di una contrapposizione tra psicoanalisi "soggettiva" e ricerca "oggettiva", l'autore sostiene la complementarietà dei due approcci nella conoscenza del funzionamento psicosomatico dell'essere umano e nell'affermazione nel sociale delle conoscenze acquisite.Viene infine proposta un'analisi della letteratura scientifica sul rapporto tra emozione espressa e salute quale esempio dell'utilità di concezioni psicoanalitiche nel leggere i dati della ricerca, e dell'utilità di questi ultimi nel fornire a loro volta una conferma indiretta delle concezioni medesime.

 

 "La psicoanalisi è un pezzo di psicologia, ma non di psicologia medica secondo la vecchia accezione, o di psicologia dei processi morbosi, bensì di psicologia tout court: Essa non è certo l'intera psicologia, ma piuttosto la sua struttura essenziale, forse addirittura il suo fondamento" (Sigmund Freud, Poscritto a "Il Problema dell'Analisi condotta da non medici, 1927).

"Psychoanalysis is a contribution to psychological science" (Otto Kernberg, incipit del discorso inaugurale al Congresso dell'International Psychoanalytic Association, Amsterdam, 1997, corsivo mio).

   Ognuno di noi ha il suo Freud: il mio, anche se in altri momenti ha detto cose diverse, ha sostenuto in più di un'occasione che la psicoanalisi non dovesse essere una disciplina a sé stante, ma parte di un edificio più ampio. Kernberg sottolinea che questa psicologia di cui dovrebbe far parte la psicoanalisi vada intesa come una scienza. Con questo vado a introdurre uno degli aspetti per cui ritengo utile e importante un rapporto tra psicoanalisi e ricerca empirica in psicologia, la possibilità appunto di creare un contatto, una possibilità di interscambio con quelle che in questa accezione divengono le altre discipline all'interno di un edificio comune. Ritengo infatti che questo sia il nodo principale rispetto all'utilità o meno di un contatto con la ricerca in altre aree, se si ritiene cioè che la psicoanalisi debba essere una disciplina a sé stante (scientifica o meno), o se invece debba far parte di un insieme più ampio di discipline (psicologia generale, psicologia dell'età evolutiva, psicologia della salute ecc.) rispetto alle quali portare avanti un interscambio e un sostegno reciproco di livello evidentemente maggiore di quello che si può avere con altre attività umane come l'arte, l'antropologia, la filosofia, che differiscono maggiormente per quanto attiene l'oggetto di indagine e il metodo utilizzato.

 Rilevanza o irrilevanza, per chi?

   Ho parlato volutamente di rapporto e di contatto, non di utilità della ricerca per la psicoanalisi, come a volte il problema viene posto. Sono convinto infatti che la psicoanalisi possa dare alla ricerca in altre aree della psicologia altrettanto o più di quanto possa ricevere, sia nella formulazione di ipotesi, di temi di ricerca, sia nell'interpretazione dei dati ottenuti. Che possa dare, ma che in realtà a mio avviso abbia già dato: gran parte della ricerca in psicologia che non sia scienza dell'artificiale o dell'irrilevante trae origine essenzialmente da concetti e problematiche formulate per la prima volta da psicoanalisti. Questo viene spesso misconosciuto dagli studiosi che si occupano di ricerca in aree diverse dalla psicoanalisi, mentre la loro esperienza psicoanalitica personale, più comune di quanto si pensi, viene in genere tenuta accuratamente nascosta [2] : permane tra i ricercatori un forte pregiudizio nei confronti di una psicoanalisi ritenuta "non scientifica", una strana pratica esoterica da cui i seguaci della lucida ragione dovrebbero tenersi lontani.

   Mi sembra però che gli psicoanalisti abbiano spesso colluso con questo atteggiamento, sia nelle posizioni specifiche in cui si continua ad affermare l'irrilevanza della ricerca per la psicoanalisi, ma anche in uno scarso interesse in generale a rivendicare l'origine psicoanalitica della maggior parte dei concetti che vengono utilizzati nella ricerca.

   Per entrare un po' nel tema vi porto un esempio nell'ambito della ricerca sulla salute:

  Strauman et al. (1993) utilizzarono una tecnica a mio avviso piuttosto ingegnosa per indurre artificialmente un conflitto tra quelle istanze che noi siamo tradizionalmente abituati a chiamare Io e Super-Io e, rispettivamente, Io e Ideale dell'Io. Chiesero cioè a dei soggetti di elencare su fogli separati gli aggettivi che a loro avviso descrivevano:

a) il concetto che avevano di sé

b) quello che avrebbero voluto essere

c) quello che sentivano di dover essere

   Venivano poi valutate e quantificate le discrepanze tra i 3 elenchi: i soggetti classificati mediante altre misure come depressi presentavano una forte discrepanza tra il concetto di sé e quello che avrebbero voluto essere; i soggetti classificati come ansiosi presentavano una forte discrepanza tra il concetto di sé e quello che sentivano di dover essere. Potremmo dire anzitutto di trovarci di fronte ad una convalida di classiche teorie psicanalitiche sulla genesi dell'ansia e della depressione (narcisistica, in questo caso).

   Gli autori vanno molto più avanti, e dopo due mesi ripresentano ai soggetti, inseriti in una serie di domande, proprio gli aggettivi discrepanti, cioè quelli presenti negli elenchi relativi al voler e al dover essere e assenti dall'elenco relativo al sé realisticamente percepito. Se cioè un soggetto sente di voler essere (ad esempio) bello e non ritiene di esserlo, gli viene presentato proprio quell'aggettivo, all'interno di domande del tipo "Diresti che è importante per te essere bello? Se sì perché?" ecc.

    A distanza di pochi minuti i soggetti sottoposti al procedimento, nel confronto con un gruppo di controllo, mostravano una diminuzione significativa e di notevole entità dell'attività delle cellule Natural Killer (NK), una componente del sistema immunitario che costituisce una prima linea di difesa contro i virus e soprattutto le cellule tumorali. La diminuzione risultava specifica, nel senso che le discrepanze tra essere e voler essere producevano un deficit immunitario elettivamente nei soggetti depressi, le discrepanze tra essere e dover essere producevano un deficit immunitario elettivamente nei soggetti ansiosi. Al termine dell'esperimento nessun soggetto riferì di essersi reso conto che gli aggettivi erano stati tratti da quelli forniti da loro stessi due mesi prima.

    La ricerca a mia avviso è una delle più interessanti nell'ambito di quella che viene  chiamata psicoimmunologia, perché:

- a differenza della maggior parte delle ricerche nell'ambito della salute, che sono di tipo correlazionale [3], può essere considerata realmente sperimentale;

- a differenza di ricerche che hanno utilizzato stimolazioni del tutto artificiose e poco rilevanti per la specie umana (stimoli sonori fastidiosi, immersione di una mano in acqua gelata, esposizione a foto di rettili ecc.), vengono riprodotte delle condizioni-stimolo altamente somiglianti a problematiche reali possibili, laddove un'area conflittuale pre-esistente viene attivata da situazioni di vita quotidiana;

- la condizione-stimolo viene adattata alle particolari caratteristiche dei soggetti (depressi o ansiosi): come sappiamo, ciò che può indurre conflitto o disagio in qualcuno, non lo induce necessariamente in qualcun altro.

   Se poi accettiamo una qualche rilevanza della ricerca empirica per la psicoanalisi (approfondirò più avanti questo tema), i dati di questo lavoro sono ben compatibili con:

- la presenza nella mente di istanze, motivazioni, strutture, assimilabili ai concetti freudiani di Io, Ideale dell'Io, Super-Io, che possono presentare tra loro diversi gradi di conflitto;

- l'importanza del conflitto tra queste istanze per la salute mentale (depressi e ansiosi) e fisica (deficit immunitario);

- l'indipendenza degli effetti di un conflitto dal fatto che il soggetto ne sia consapevole (i soggetti non si rendevano conto della provenienza degli aggettivi).

    C'è però un piccolo particolare: i nostri ingegnosi autori, in tutto il corso dell'articolo, non citano mai i concetti psicoanalitici di Io, Ideale dell'Io, Super-Io, ma dicono di rifarsi alla teoria di un certo Higgins (1987), da lui denominata della Self-Discrepancy, in cui vengono introdotti (sic) concetti da lui chiamati Real Self, Ideal Self, Ought Self.

   Di fronte ad un lavoro del genere che cosa riteniamo di fare? Sottolineare che elenchi di aggettivi non fanno giustizia della complessità e della ricchezza dei concetti freudiani, e quindi apprezzare che gli autori abbiano usato altri termini? O rivendicare con forza (al ladro!) la paternità dei concetti che vengono utilizzati, e quindi anche una parte del merito dei risultati che vengono ottenuti?

   Il problema è naturalmente di vasta portata, e investe la convinzione di ciascuno di noi se la psicoanalisi e gli psicoanalisti debbano occuparsi soltanto o soprattutto di quanto accade negli studi (e ci sono buoni motivi per sostenerlo) o se sia utile e opportuno che le loro capacità e conoscenze vengano messe a disposizione anche di altri ambiti, rivendicandone naturalmente il riconoscimento. Su questo piano mi sembra che ultimamente la nostra Società stia facendo un grosso sforzo per aprirsi all'esterno, per occuparsi di tematiche diverse dall'analisi in senso stretto, dal rapporto con i servizi sanitari, alle adozioni, alla consultazione ecc. Mi sembra che la ricerca in psicologia sia un'altra tematica che meriterebbe un'attenzione da parte nostra più vasto e più istituzionale.

   Un motivo per cui ho avuto voglia di parlare qui dei miei interessi di ricerca nell'ambito della salute è stato infatti un senso di solitudine come psicoanalista nell'affrontare queste tematiche: è veramente raro imbattersi, nei congressi e nelle riviste del settore, in colleghi psicoanalisti, o che riconoscano l'origine psicoanalitica dei concetti euristici e delle modalità di lettura dei dati che utilizzano. Spesso anche i ricercatori con le migliori intenzioni hanno una conoscenza della psicoanalisi approssimativa, lacunosa, in genere limitata ad alcuni scritti del primo Freud, e mancano di una visione d'insieme.

   Una luminosa eccezione è ad esempio Graeme Taylor, che ha cercato di raccordare il concetto di alessitimia con la tradizione psicoanalitica (Taylor, 1987; Taylor et al. 1997), in particolare con il pensiero di Bion, sostenuto in questo suo sforzo da James Grotstein (1997). A questo proposito mi viene da ricordare che, se spesso l'approccio psicoanalitico incontra ostilità negli ambienti che si occupano di ricerca sulla salute[4], recentemente si sono levate voci di segno opposto.

   Nel convegno dell'American Psychosomatic Society del 2002 è stata pubblicamente lamentata la scarsa presenza della psicoanalisi nell'ispirazione dei lavori che vengono presentati ai Congressi e sulla rivista dell'associazione, Psychosomatic Medicine, ricordando che entrambe, Società e Rivista, sono nate alla fine degli anni '30 proprio sotto l'impulso della psicoanalisi che in quell'epoca si stava tumultuosamente affermando negli Stati Uniti. In quella occasione è staso chiesto appunto a Graeme Taylor di tenere una plenaria sul rapporto tra psicoanalisi contemporanea e medicina psicosomatica: il suo discorso è andato soprattutto ad illustrare in che misura diversi concetti psicoanalitici contemporanei, come quello di rappresentazione interna delle relazioni, o la capacità di connettere diverse modalità di pensiero (Matte Blanco, Wilma Bucci) siano stati e possano essere in futuro fecondi di frutti nell'ambito della ricerca psicosomatica.

    Ugualmente l'American Psychological Association ha recentemente pubblicato un volume, Psychodynamic Perspectives on Sickness and Health (2000) in cui viene deplorato il fatto che la maggior parte della psicologia della salute abbia radici comportamentiste, ed eviti quindi accuratamente di occuparsi delle fantasie e delle motivazioni inconsce delle persone, così importanti per la salute; si auspica quindi lo sviluppo di una psicologia della salute su basi psicoanalitiche, e nei vari capitoli si va ad illustrare l'utilizzo di costrutti psicoanalitici in diversi ambiti di ricerca: dal concetto di dipendenza, alla funzione dei sogni, alla necessità di elaborazione degli eventi traumatici. Nell'introduzione al volume, i curatori, Duberstein e Masling, arrivano a sostenere l'utilità euristica per la ricerca sulla salute del concetto di pulsione di morte, concetto finora, per quanto io ne sappia, mai utilizzato in quell'ambito.

    Per non rimanere nell'ambiguità rispetto alla collocazione di questo lavoro dirò quindi che la posizione in cui mi riconosco di più è quella della rilevanza indirettatra psicoanalisi e ricerca empirica, come delineata da Stern nel suo dibattito del 1997 con André Green, che potete trovare in traduzione nel volume a cura di Bonaminio e Fabozzi (2002); posizione che naturalmente non è soltanto sua, ma condivisa da molti di coloro, psicoanalisti e ricercatori, che ritengono che una qualche rilevanza della ricerca per la psicoanalisi ci possa essere. Ne ricordo gli aspetti fondamentali:

- Non si può sostenere che la ricerca empirica possa essere direttamente rilevante per una teoria costruita sulla clinica, che la ricerca sia cioè in grado di dimostrare se una teoria clinica è vera o falsa. Questo per una differenza epistemologica: la clinica persegue una verità per coerenza, la ricerca empirica una verità per corrispondenza. In questo senso non vi può essere conferma o disconferma reciproca.

- Si può invece sostenere che la ricerca empirica possa essere indirettamente rilevante per la clinica. Tra i fattori che rendono accettabile una teoria, oltre alla sua coerenza, verosimiglianza, comprensibilità ecc. c'è la sua corripondenza con l'insieme del corpo di conoscenze di un'epoca, oggi spesso chiamato "senso comune" (nel significato di comune sentire): nel nostro caso con tutto ciò che si sa del funzionamento mentale al di là di quella teoria, compresi i dati derivanti dalla ricerca empirica. Questo "senso comune" stabilisce delle compatibilità, dei vincoli, rispetto all'accettabilità di un concetto. Il fatto che si tratti di una rilevanza indiretta non impedisce che possa avere molta importanza. Se una teoria perde contatto con il resto della cultura del momento si indebolisce, e può finire per svanire dall'orizzonte anche se non si può affermare che sia stata dimostrata falsa.

   Ricorderei a questo proposito come Freud in molti suoi lavori mettesse continuamente a confronto i dati ottenuti dalla clinica con concetti e dati provenienti da molteplici altre aree, dalla biologia, alla sociologia, alla letteratura, alla ricerca psicologica ecc.

    Vorrei però fare alcune specificazioni e aggiunte:

   Come ho detto sopra, mi sembra che la rilevanza possa essere reciproca, e che non solo i dati della ricerca possano essere rilevanti per la psicoanalisi, ma che la psicoanalisi abbia dato e abbia ancora molto da dare alla ricerca e in generale alle altre aree della psicologia.

   Vorrei inoltre fare delle precisazioni rispetto a cosa la psicoanalisi può aspettarsi dalla ricerca, e dal confronto con altre aree della psicologia; non primariamente, direi, concetti nuovi: nel contesto della scoperta il lavoro clinico è sicuramente il più fecondo, e finora è stata soprattutto la ricerca in altri ambiti della psicologia ad utilizzare concetti psicoanalitici. La letteratura psicoanalitica, sul piano della rilevazione di fenomeni clinici e della costruzione di concetti per descriverli e interpretarli, è così sterminata che è difficile, nel momento che viene proposto un concetto nuovo, non scoprire che qualcosa di simile è stato già detto da qualche autore psicoanalitico.

   Partirei da una citazione di David Tuckett:

"Vi invito a fare ricerca - il che non significa necessariamente ricerca numerica - in modo che, fortificati da una maggiore fiducia nei nostri modelli derivante dalle risposte che una ricerca rigorosa ci può dare, possiamo avere meno bisogno di essere assolutisti nell'asserire il nostro punto di vista" (David Tuckett, discorso conclusivo al Congresso della European Psycho-Analytical Federation, Madrid, 2001).

   Fortificati al nostro interno, certo, ma anche dotati di argomenti per sostenere il nostro punto di vista nel momento che ci apriamo ad un confronto con il mondo esterno alle nostre società. Molto tempo è passato da quanto la citazione di un caso clinico, o meglio ancora l'esperienza clinica di una vita, era ritenuta in ambito medico prova sufficiente della correttezza di una teoria. Oggi, che ci piaccia o no, viviamo all'epoca della Evidence Based Medicine, e comunque in ogni ambito, non solo in medicina, sia il pubblico che gli scienziati non accettano più il resoconto personale di un'esperienza come prova sufficiente, ma si aspettano che i concetti costruiti nella clinica vengano messi alla prova di studi empirici controllati, con campioni di soggetti sufficientemente ampi, con test statistici adeguati.

   Pur non accettando una subordinazione delle teorie psicoanalitiche ai dati ricavati da ricerche empiriche, come potrebbe essere sotteso al concetto di "verifica", il poter affermare che i concetti da noi enunciati decine di anni prima di altri su base clinica hanno trovato ampio riscontro in ricerche empiriche controllate nell'ambito di diverse discipline, mi sembra utile in un momento storico in cui la psicoanalisi ha perduto qualunque posizione di monopolio sul piano scientifico e sul mercato della psicoterapia, dove concorrenti agguerriti vanno affermando che le loro teorie (in genere le nostre con i nomi cambiati) sono "scientificamente fondate". In realtà se noi avessimo accettato una trentina di anni fa la sfida di andare ad un confronto basato sui dati della ricerca con le scuole concorrenti di psicoterapia che andavano allora affermandosi, avremmo potuto mostrare una mole di risultati sempre crescenti a favore delle nostre posizioni: ai cognitivisti che la mente umana è dominata solo in piccola parte da convinzioni coscienti; ai sistemico-relazionali che le relazioni reali sono ampiamente condizionate dalle relazioni interne di ciascun individuo. Invece abbiamo vinto 10 a 0, ma non l'ha saputo nessuno, e i perdenti si sono appropriati di quanto delle nostre teorizzazioni appariva ben compatibile con i risultati della ricerca (cioè quasi di tutto).

   Vorrei d'altra parte contribuire a ridimensionare l'idea di una ricerca empirica inoppugnabile, quindi minacciosa per chi usa altri metodi. E' evidente - e questo è vero ormai in tutti gli sviluppi odierni delle scienze - che nessun lavoro sperimentale singolo può essere considerato la prova definitiva che un dato concetto è vero; nel linguaggio scientifico corrente, certamente in psicologia, non si usa dire che il tale risultato "dimostra che" ma al massimo che è a favore di una data ipotesi. In questo senso il concetto di rilevanza indiretta vale non solo per la psicoanalisi, ma per tutte le discipline. Questo è tanto vero che da diversi anni nessun lavoro singolo viene più considerato decisivo, ma quando si affronta un problema si procede ad una rassegna di tutti gli studi - spesso sono centinaia - su un dato argomento, e si comincia a contare quanti lavori sono a favore di una data ipotesi, quanti dell'ipotesi opposta, quanti non hanno dato alcun risultato. Tra breve vi darò un esempio di questo modo di procedere. Vi sono poi metodi statistici complessi (detti meta-analisi) che prendono come soggetti non più gruppi di individui, ma gruppi di lavori scientifici prodotti in un dato ambito - che abbiano sufficienti caratteristiche di omogeneità, e già qui c'è un elemento di soggettività nella scelta - cercando di ottenere un risultato globale. Anche i risultati di una meta-analisi sono soggetti a critiche e interpretazioni diverse, soprattutto appunto nei criteri di scelta dei lavori da includere.

    La contrapposizione tra un dato clinico "soggettivo" e un dato empirico "oggettivo" ad un esame più attento appare esagerata e fuorviante. Dal versante della psicoanalisi non si parla certo dell'impressione di una persona, ma del risultato di più di cento anni di attività di migliaia di persone in tutto il mondo, all'interno di un setting relativamente uniforme, che si sono continuamente confrontate sul piano nazionale e internazionale, sulla base di un training comune, garantito e certificato da norme internazionali, che, al pari di un'intervista standardizzata, forniscono la garanzia che i dati ricavati siano ben lungi dall'essere un'arbitraria costruzione di un singolo. Dal versante della ricerca esistono certamente forti elementi di soggettività, dalla scelta dei problemi di cui occuparsi, delle domande da porsi, degli strumenti di misura che si utilizzano, fino a quella dei metodi statistici di analisi, ciascuno dei quali a sua volta contiene forti elementi di soggettività, tanto maggiori quanto più sono complessi (pensiamo ad esempio all'analisi fattoriale).

  Mi sembrano quindi piuttosto infondati i timori di chi ritiene che la ricerca possa arrogarsi il diritto di dire "l'ultima parola" su qualcosa, in nome di una presunta "oggettività" contrapposta ad una "soggettività" del dato clinico: tenderei piuttosto a vedere le due metodiche come modalità diverse di approssimarsi ad una realtà in sé in quanto tale inconoscibile, con la possibilità di raffrontare le due serie di dati. Un paragone che mi viene in mente sono le diverse serie di conoscenze che si possono ottenere su un'area geografica da un'osservazione aerea e da rilevazioni effettuate sul terreno: ciascuna delle due metodiche può ottenere dati difficilmente ottenibili dall'altra, mentre in altre aree possono darsi conferma a vicenda. 

   A conclusione di questo discorso vorrei infine ricordare come la ricerca empirica nel suo insieme molto raramente abbia prodotto dati incompatibili con assunti fondamentali della psicoanalisi. Un recente, ponderoso, articolo di Drew Westen (1998) elenca 5 aree concettuali psicoanalitiche che trovano il sostegno di una mole enorme di ricerche, quasi tutte recenti, nell'ambito cognitivo, sociale, evolutivo e della psicologia della personalità. Le aree sono:

a) i processi inconsci, nell'ambito cognitivo, affettivo e motivazionale;

b) il concetto di ambivalenza e la possibilità che diverse dinamiche affettive e motivazionali possano operare in parallelo e produrre soluzioni di compromesso;

c) le origini nell'esperienza infantile delle caratteristiche di personalità e delle modalità di porsi in rapporto;

d) le rappresentazioni mentali del sé, degli altri, delle relazioni;

e) le dinamiche dello sviluppo.

   Per quanto riguarda la ricerca sulla salute, che è quella che conosco di prima mano, l'importanza di queste diverse aree è stata esaminata e confermata per quanto riguarda l'influenza sul funzionamento biologico, quello che in genere viene indicato come "corpo". Per la rilevanza dimostrata nei confronti della salute fisica e mentale aggiungerei inoltre le seguenti:

- il valore patogeno o al contrario salutogenetico degli eventi di vita, in stretta connessione con

- la capacità di elaborazione cognitivo/emozionale dell'esperienza (come espressa  in modo sistematico da Bion nel percorso che va dagli elementi beta, agli elementi alfa, ai pensieri).

 

Perché la ricerca sulla salute

    Ho sempre trovato affascinante la ricerca nell'ambito della psicofisiologia, della psicosomatica e simili perché queste discipline, come la psicoanalisi, hanno avuto l'ambizione e il coraggio di aprire quella che i comportamentisti vecchio stampo avevano chiamato la "scatola nera", quel funzionamento dello psiche-soma al di là del comportamento che non andava aperto, non andava studiato, pena il rischio di ricadere in un vecchio spiritualismo. Mentre qualunque misura psicologica basata su questionari autovalutativi rischia di cogliere soltanto aspetti coscienti, o comunque è soggetta a processi difensivi difficilmente controllabili, il dato fisiologico è inconscio quanto l'attività mentale inconscia che è al centro degli interessi della psicoanalisi.

    Vi porto subito un esempio: 

  In uno studio su 76 donne, 38 coniugate e 38 separate, Kiecolt-Glaser et al. (1987) riscontrarono che le donne separate rispetto alle coniugate presentavano un deficit polifunzionale del sistema immunitario: più basse concentrazioni di cellule NK, minori concentrazioni di linfociti T helper, una minore riposta ai mitogeni. Misure a questionario di depressione e di solitudine non mostravano alcuna differenza tra i due gruppi. Se ne può dedurre che la misura immunitaria può riuscire a cogliere una sofferenza che non viene evidenziata dai test psicometrici utilizzati (è possibile che le donne separate non desiderassero ammettere neanche di fronte a se stesse quanto la separazione comportasse dei problemi).

    Nella ricerca sui processi psicoterapeutici, misure di esito legate alla salute fisica possono risultare più convincenti di questionari soggetti a processi difensivi, al desiderio di compiacere, o al contrario di ridimensionare il terapeuta ecc. D'altra parte la ricerca di processo, che utilizza misure più sofisticate, fornisce dati che risultano interessanti e rilevanti per gli psicoterapeuti, ma non dà risposte rispetto ad una richiesta da parte di altre discipline o della società nel suo insieme di dimostrare un'efficacia. Se ad esempio noi dimostriamo che a seguito di un trattamento psicoanalitico si determina un aumento di Attività Referenziale, o una modifica del CCRT, queste modifiche meritano di essere agganciate a misure di benessere più universalmente riconosciute, che non siano i soliti livelli autoriferiti di ansia e depressione, rispetto ai quali spesso tutte le psicoterapie risultano uguali.

Un esempio di rilevanza reciproca: il rapporto tra emozione espressa e salute

    Desidero ora proporvi una riflessione all'interno di un'area specifica, per mostrare quello che a me sembra un esempio di contributo reciproco tra psicoanalisi e ricerca empirica nell'ambito della salute.

   La ricerca su questo tema si è mossa più o meno consapevolmente all'interno di due ipotesi che (espresse in forma un po' semplificata) finiscono per apparire opposte:

a) le emozioni negative (ansia, depressione) fanno male alla salute;

b) l'espressione delle emozioni (comprese quelle negative) fa bene alla salute.

   Se fosse vero a) ci potremmo aspettare che quanto più alti risultino i punteggi indicanti emozioni negative tanto peggiore debba essere la situazione di salute, quella che in statistica si chiama una correlazione lineare inversa:

nel caso b) potremmo aspettarci il contrario, cioè una correlazione lineare diretta.

   Nella Tabella 1 possiamo vedere qualche risultato degli Studi sulla relazione tra punteggi indicanti emozione negativa e salute; nella Tabella 2 sono riportati studi analoghi realizzati su soggetti con infezione da HIV.

 

TABELLA 1: Emozioni negative espresse e salute

Linn e al. 1984

Punteggi alla Hopkins Symptom

Checklist

Minor reattività ai mitogeni nei

soggetti più depressi

Irwin e al. 1987

Punteggi alla scala di Hamilton

Minore attività delle cellule NK

nei soggetti più depressi

Luborsky et al. 1976

Tono dell'umore

Nessuna relazione con recidive di

Herpes Orale

Friedman et al. 1977

Tono dell'umore depresso

Correlazione significativa con le

recidive di Herpes Orale

Ship et al., 1967

Malessere Psicologico

Nessun effetto sulla frequenza di

recidive di Herpes Orale

Manne e Sandler, 1984

Depressione

Associazione con la frequenza

delle recidive di Herpes genitale

Hoon et al. 1991

Malessere Psicologico

Nessun effetto sulla frequenza di

recidive di Herpes Genitale.

TABELLA 2: Emozioni negative e salute in soggetti con infezione da HIV

Temoshok et al., 1987

Punteggi al Profile of Mood States (Ansia, Depressione,

Fatica, Ostilità)

Correlazione inversa con

numero di cellule T-helper,

NK e altre.

Kemeney e al. (1991)

Depressione del tono

dell'umore

Correlazione inversa

con il numero di CD4+

Burack e al. (1992)

Depressione del tono

dell'umore

Correlazione inversa

con il numero di CD4+

Rabkin e al. (1991)

Depressione del tono

dell'umore

Nessuna correlazione con indici

immunitari

Perry e al. (1992)

Depressione del tono

dell'umore

Nessuna correlazione con indici

 immunitari

Temoshok et al., 1988

Depressione del tono

dell'umore

Correlazione diretta

con indici immunitari

L'impressione che si ha è di una grande incostanza di risultati; non vengono confermate né l'ipotesi a) né l'ipotesi b).

   Da dove viene allora la sensazione un po' intuitiva che un tono dell'umore depresso sia negativo per la salute? Un'ipotesi che viene da formulare scorrendo la letteratura è che possa esservi confusione tra una situazione interna, derivante o meno da una situazione reale di difficoltà, e l'espressione all'esterno di un'emozione misurabile con comuni strumenti psicometrici; si rischia cioè di dare per scontato che le persone che sperimentano un lutto siano depresse, che quelle in attesa di una diagnosi o di un esame universitario siano ansiose ecc. e che questo (l'emozione "negativa") sia nocivo per la salute.

   Ci possono venire in aiuto a questo punto alcuni concetti psicoanalitici:

- quello di processi inconsci, nel senso dinamico di difese, che possono impedire l'emergere di un'emozione, ma anche di operazioni che per loro natura si svolgono al di fuori della consapevolezza, e che possono essere deficitarie senza che il soggetto se ne renda conto, come quelle descritte al punto seguente;

- la necessità che un'emozione venga costruita a partire dall'esperienza, come nella descrizione di Bion (1962a,b), laddove si parla della necessità di trasformare gli elementi beta in elementi alfa, i quali soltanto possono contribuire alla costruzione di un'emozione cosciente e comunicabile, mentre gli elementi beta possono essere soltanto evacuati all'esterno come agìto, o all'interno come attività fisiologica.

   Possiamo quindi concludere che ad un livello interno delle persone possano sperimentare un qualche sommovimento di fronte ad un evento importante ma che questo non si debba necessariamente riflettere in una misura esterna (effettuata sulla base di interviste, questionari, ecc.) di emozione. Gli effetti sulla salute potrebbero a questo punto essere più collegati a quanto accade all'interno che a quanto appare all'esterno; il secondo aspetto, pur rappresentando un derivato del primo, necessita di essere interpretato nel suo significato.

   In altri termini: la misura dall'esterno di un'emozione confonde inevitabilmente la presenza di un'emozione (o di un suo precursore o componente) con la capacità della persona di renderla comunicabile e di esprimerla all'esterno. Questo è tanto più vero quando, anziché un campione di popolazione generale, in cui può essere ragionevole ipotizzare una buona correlazione tra emozione espressa e attivazione emozionale interna, ci troviamo ad esaminare un campione di soggetti che hanno subito, o temono di poter subire, un evento più o meno traumatico: possiamo cioè presumere che le persone in attesa di un intervento chirurgico importante siano per la maggior parte abbastanza tese (a qualche livello, dal fisiologico al consapevole) e che i punteggi di ansia che possiamo misurare siano a questo punto più una misura della capacità di costruire ed esprimere ansia che della presenza di ansia. A questo punto non abbiamo alcun motivo di aspettarci una correlazione inversa tra questi punteggi e lo stato di salute (quanta più ansia tanto peggiore la salute) ma, casomai, il contrario.

   Questa ipotesi appare confermata da alcuni studi che hanno effettivamente esaminato sia gli effetti sul sistema immunitario di alcuni eventi che l'emozione espressa dai soggetti.

   Abbiamo già visto come nel lavoro di Kiecolt-Glaser et al. (1987) su donne separate fosse riscontrabile una ipofunzione immunitaria ma non un aumentato punteggio di depressione.

    In un lavoro di Biondi e Pancheri (1991) effettuato su donne in attesa di biopsia per un sospetto carcinoma mammario, la situazione immunitaria risultò peggiore nelle donne con punteggi di ansia più bassi. In una situazione in cui (ancor più che nella precedente) è difficile non postulare un disagio, l'espressione di un'emozione negativa appare benefica per l'organismo.

   Risultati analoghi vennero ottenuti sul piano non verbale nei bambini in un lavoro di Spangler e Grossman del 1993, che utilizzarono la Strange Situation della Ainsworth: i bambini che apparivano meno disturbati dall'assenza della madre (Evitanti) erano quelli che mostravano i maggiori aumenti di cortisolo a seguito della procedura.

   Shedler et al. (1993) rilevarono che i soggetti che in condizioni di stress mostravano la maggiore reattività fisiologica erano quelli che mostravano punteggi nella norma a test di ansia e depressione, mentre venivano valutati come disturbati ad un colloquio clinico (salute mentale illusoria). 

   Sembra quindi potersi affermare che non è necessario che un disagio divenga cosciente e misurabile per poter avere una influenza negativa sul corpo. Anzi, laddove un disagio è presente, l'espressione all'esterno può risultare benefica.

   Rimane da rivedere l'ipotesi b), laddove l'espressione emotiva viene considerata utile e salutare.

  L'utilità dell'emozione di angoscia come "segnale" di pericolo venne riconosciuta da Freud fin dal 1925 in Inibizione, Sintomo e Angoscia. Autori successivi (Bibring, 1953; Engel, 1962; Kaufman, 1977) hanno svolto considerazioni simili rispetto alla depressione, vista come  un segnale volto alla regolazione dell'autostima, in modo da evitare rischi peggiori. Bion (1962a, b) sostenne sistematicamente come le emozioni, lungi dal disturbare il pensiero (come spesso ritenuto nella filosofia occidentale, a cominciare da Platone) siano assolutamente necessarie per riconoscere e valutare i dati dell'esperienza.

   L'Infant Research (ad es. Stern, 1985) ha da tempo riconosciuto l'importanza delle emozioni nello strutturare le rappresentazioni interne delle interazioni. Negli studi più recenti (Emde, 1999) le emozioni, specie quelle non momentanee, ma durevoli - interesse, piacere - vengono viste come aventi effetti di integrazione, organizzazione, sostegno allo sviluppo. Anche nell'ambito della ricerca empirica si è da tempo fatto strada un concetto di emozioni come "fonte di informazione sulla propria identità e i propri bisogni personali, e sulle azioni necessarie a soddisfare tali bisogni" (Dafter, 1996).

   Sul piano empirico esistono molti lavori che hanno documentato un rapporto tra scarsa espressione emotiva e patologia.

   Da almeno 50 anni studi trasversali (Bacon et al., 1952, Blumberg et al., 1954, Kissen e Eysenk, 1962; Kissen, 1963, 1964; Kissen e Le Shan, 1964; Bahnson e Bahnson, 1965, 1969), e in seguito semi-longitudinali (Greer e Morris, 1975; Mastrovito et al., 1979; Pettingale et al., 1985; Rogentine et al., 1989), hanno riscontrato una ridotta capacità di espressione delle emozioni, in particolare a contenuto aggressivo, in soggetti con patologia tumorale.

  Biondi et al. (1981) riscontrarono, in uno studio semilongitudinale, che le persone in seguito risultate affette da tumore presentavano profili MMPI maggiormente nella norma e punteggi di ansia più bassi delle persone risultate in seguito affette da patologia benigna.

   Perché allora, nel momento che cerchiamo una correlazione diretta tra emozione espressa e salute, la troviamo solo episodicamente? Forse perché non è vero che più emozione si esprime meglio è.

Dall'espressione emotiva "scarsa" all'espressione "inadeguata".

   Un possibile chiarimento ci proviene da quegli studi che anziché seguire l'idea che una scarsa espressione emotiva sia associata ad un peggiore stato di salute, sono partiti dall'ipotesi più articolata di una espressione emotiva inadeguata (quindi anche eccessiva).

   Greer e Morris (1975) esaminarono un campione di donne, in attesa di conoscere l'esito di una biopsia mammaria per sospetto carcinoma, mediante un'intervista che mirava a valutare la modalità di espressione delle emozioni, in particolare dell'aggressività. Tra le donne risultate successivamente affette da carcinoma venne riscontrata una percentuale significativamente maggiore di soggetti con tendenza a reprimere le proprie emozioni (Tab. 3), ma anche di soggetti con una espressione emotiva estrema (potremmo dire "incontrollata"). Se consideriamo nell'insieme i soggetti che mostrano un'espressione "normale" delle emozioni questi sono presenti in percentuale più che doppia nel gruppo con patologia benigna. Gli autori concludono sostenendo che più che parlare di "repressione delle emozioni" come situazione predisponente allo sviluppo di un tumore, sembri più corretto parlare di "espressione abnorme" di queste.

 

TABELLA 3 - (da Greer e Morris, 1975)

 

PAZIENTI AFFETTE

DA NEOPLASIA

pazienti affette da

patologia benigna

Significatività della

differenza

ESPRESSIONE

DELL'AGGRESSIVITÀ

     

Estrema

repressione

33 (47,8%)

14 (15,4%)

p <.0001

Apparentemente

normale

20 (29%)

66 (72,5%)

p <.0001

Estrema

espressione

14 (20,3%)

9 (9,9%)

p <.02

ESPRESSIONE DI

ALTRI SENTIMENTI

     

Estrema

repressione

36 (52,2%)

27 (29,7%)

p <.0002

Apparentemente

normale

20 (29%)

54 (59,3%)

p<.0001

Estrema

espressione

12 (17,4%)

10 (11%)

n.s.

   Gli autori di questo lavoro erano evidentemente portatori di una teoria più sofisticata rispetto al considerare la mente come un serbatoio che si deve scaricare, o una pentola a pressione che deve sfiatare, e sono giunti più o meno consapevolmente a ipotizzare concetti come espressione emotiva adeguata o adeguatamente regolata.

   Nel tempo sono comparsi sempre più numerosi risultati compatibili con questa ipotesi. Sempre nell'ambito dei tumori, Wirsching et al. (1982) hanno riscontrato, in pazienti poi risultati affetti da tumore, una espressione emotiva che, mentre all'inizio dell'intervista di appariva molto ridotta, nel 60% dei casi cedeva il posto a scoppi di emotività incontrollata. Come dire che in questo studio troviamo addirittura una scarsa ed una eccessiva espressione emotiva negli stessi soggetti, in momenti diversi.

   Anche nell'ambito degli studi sul sistema immunitario troviamo effetti negativi di una espressione emotiva inadeguata o, se si preferisce, di un difetto di regolazione emotiva. Una serie di lavori hanno mostrato una situazione immunitaria peggiore nei soggetti che mostravano sia una scarsa espressione delle emozioni negative, che un'espressione esagerata.

  Workman e La Via (1987), esaminando un gruppo di soggetti in procinto di sostenere degli esami di abilitazione, riscontrarono una diminuita risposta ai mitogeni nei soggetti con atteggiamento sia "evitante" che "intrusivo". Lo stesso risultato venne documentato (Lutgendorf et al., 1997) in un campione di soggetti in attesa del risultato del test di sieropositività HIV. Shea et al., (1993) riscontrarono una peggiore situazione immunitaria sia in soggetti definiti attraverso diversi test come caratterizzati da "repressione delle emozioni negative" sia in soggetti definiti come caratterizzati da "estrema espressione delle emozioni negative".

    Solomon et al. (1997) riscontrarono che la situazione immunitaria 4 mesi dopo un terremoto nella propria zona di residenza era correlata con l'adeguatezza della reazione emotiva allo sconvolgimento effettivo subito dalla propria vita privata e lavorativa a seguito dell'evento: i soggetti cioè che mostravano un numero più ridotto di linfociti erano quelli che esprimevano un forte disagio a fronte di danni lievi, o un disagio scarso a fronte di danni gravi. 

   James Pennebaker (Pennebaker, 1996; Pennebaker, Mayne & Francis, 1997) riscontrò che i soggetti che in seguito mostravano una salute migliore, espressa come minor numero di visite mediche, erano quelli che in un compito di scrittura esprimevano un numero di parole indicanti emozioni negative intermedio, mentre i soggetti con numero scarso o elevato mostravano una salute peggiore (Fig.1 Rapporto tra numero di Visite Mediche e numero di parole indicanti emozioni negative nei lavori di Pennebaker et al.)

   Se questa è la situazione, è evidente che non ci si può aspettare una correlazione lineare, né inversa né diretta, tra misure di emozione negativa espressa e misure di salute, ma ha più senso ipotizzare un rapporto di tipo curvilineo. Seguendo questa ipotesi il mio gruppo di ricerca (Solano et al., 1995, 2001), ha misurato l'espressione di affettività depressiva mediante una scala linguistica (Gottschalk e Gleser, 1969) applicata a delle brevi interviste (vv. Fig.2 Relazione tra l'intensità di espressione di Ostilità verso l'Interno e livelli di linfociti CD4+) in un campione di soggetti HIV-positivi, quindi in una situazione di presumibile disagio, ipotizzando un rapporto curvilineo con la situazione immunitaria (linfociti CD4+/mm3). Osservando la curva (Fig.2) si vede come il numero di linfociti aumenti con l'aumento del numero di locuzioni depressive nelle interviste, fino ad un punto in cui il fenomeno si inverte bruscamente, ed ulteriori aumenti comportano un peggioramento della situazione immunitaria. L'insieme del fenomeno viene descritto da una curva che corrisponde ad una equazione di tipo cubico.

Come ipotizzato sulla base di un concetto di adeguata regolazione dell'espressione emotiva, i soggetti con la migliore situazione immunitaria risultano quelli che mostrano punteggi di affettività depressiva intermedi.

   Sembra quindi confermato, sia dagli studi che hanno suddiviso i soggetti in 3 gruppi (espressione alta/intermedia/scarsa) anziché in 2 (alta/bassa) sia in questo ultimo dove viene utilizzata una vera e propria correlazione curvilinea, il dato di un rapporto curvilineo piuttosto che lineare tra misure indicanti l'espressione di emozioni negative e salute[5]. Questo riscontro può contribuire a spiegare l'incostanza dei risultati, riportati nei paragrafi precedenti, ottenuti nella ricerca di un rapporto lineare tra punteggi indicanti emozioni negative e salute. All'interno di una relazione che di fatto è curvilinea può bastare anche una piccola prevalenza di soggetti con scarsa o estrema espressione per ottenere una relazione lineare diretta, o inversa, o nessuna relazione.

   Rimane da spiegare sul piano teorico un fenomeno che non corrisponde all'idea di una nocività per la salute delle emozioni negative, ma nemmeno all'idea che sia utile "liberarsi" il più possibile delle emozioni. Se da una parte possiamo infatti agevolmente considerare bassi punteggi come indicativi di una scarsa capacità di espressione emotiva, notoriamente associata alla patologia somatica, l'associazione di punteggi elevati con un peggiore stato di salute necessita di una riflessione ulteriore.

   In questo ci può essere utile di nuovo la teoria di Bion, quando descrive la costruzione dell'emozione come trasformazione di elementi grezzi, beta, originati dall'esperienza, in elementi alfa. Se questa trasformazione non avviene, quello che emerge all'esterno può essere una scarsa affettività (= punteggi bassi), ma anche invece una esplosione affettiva, quella che Bion chiama iperbole[6], dovuta all'evacuazione violenta di elementi beta non trasformati (= punteggi alti). Quest'ultimo fenomeno, come la scarsa espressione emozionale, può essere quindi inteso come testimonianza di un difetto nel funzionamento della funzione alfa, o delle successive operazioni di tessitura narrativa che portano dagli elementi alfa ai pensieri[7].

   Ho cercato quindi di mostrarvi con questo esempio in che modo alcune teorie psicoanalitiche possano essere di grande utilità nel leggere i risultati della ricerca; come quegli stessi dati a loro volta possano offrire sostegno empirico alle teorie che abbiamo utilizzato, dai processi inconsci, all'angoscia segnale, alla funzione alfa, alle trasformazioni iperboliche.

   

 

[1]Preferisco evitare per quanto possibile il termine più noto di Psicosomatica, per diversi motivi:

- il termine ha un alone di significato legato alla patologia, mentre alcuni filoni di ricerca, ancora minoritari ma a mio avviso innovativi, si muovono nell'ambito della promozione della salute

- il termine suggerisce l'effetto di qualcosa che si chiama mente su qualcosa che si chiama corpo, riproponendo quindi implicitamente un dualismo ontologico oggi diffusamente rifiutato, e una modalità di svolgersi di questo effetto che segue più la traccia della conversione isterica che la genesi dei disturbi somatici in generale.

[2]una delle ricercatrici più note a livello internazionale nell'ambito della psicoimmunologia, cui sono legato da stima ed amicizia da più di quindici anni, mi ha confidato solo recentemente di aver soggiornato per diversi annni su di un lettino anch'esso piuttosto illustre.

[3]Si intende per ricerca correlazionale la semplice constatazione della relazione tra due fenomeni (es. lutto e depressione immunitaria); in una ricerca sperimentale si prevede invece l'attiva manipolazione di una variabile, nell'esempio citato l'induzione di un conflitto.

[4]Più di una volta mi è accaduto che un articolo mi sia stato rifiutato da una rivista con la motivazione che utilizzava concetti psicoanalitici, o mi è stato chiesto di espungere dal testo le "chiacchiere psicoanalitiche".

[5]ho scoperto solo di recente che il concetto era stata formulato già nel 1958 da J.L. Janis: questi ipotizzava una correlazione a U rovesciata tra ansia preoperatoria ed esito di un intervento chirurgico. Evidentemente l'idea a suo tempo non trovò un contenitore adeguato nella comunità scientifica.

[6]"L'emozione che non può tollerare di essere trascurata aumenta di intensità, viene esagerata per assicurarsi l'interessamento; e il contenitore reagisce con una evacuazione sempre più violenta. Usando il termine "iperbole" intendo legare la congiunzione costante dell'aumento di forza dell'emozione con l'aumento di forza dell'evacuazione" (Bion, 1965, p.196 ed.it.).

[7]Una chiara ed esauriente trattazione del collegamento tra un difetto a livello di questi passaggi e la patologia (mentale e somatica) è contenuta in uno degli ultimi volumi di Nino Ferro, Fattori di malattia, fattori di guarigione (2002)

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