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Campoli G. - Discussione del lavoro del Dr. Owen Renik “Self-disclosure in the Treatment of a Borderline Patient” (2003)

Serata Scientifica

con

Owen D. RENIK, M.D.

 

Discussant: Dr. Giorgio Campoli

 

9 Maggio  2003

 

Il lavoro che il Dr. Renik ci presenta questa sera, pienamente coerente con il suo stile di persona e di psicoanalista, con i principi teorici che lo hanno reso una figura tanto conosciuta quanto controversa nel multiplo panorama psicoanalitico contemporaneo, ci offre un’occasione preziosa per approfondire le riflessioni sulla sua, e la nostra, concezione della clinica psicoanalitica.
Sono riconoscibili nei fatti clinici da lui prescelti gli aspetti chiave del suo pensiero, quegli stessi che lo hanno collocato sulle posizioni più radicali della scuola intersoggettivista. Respinti i concetti di neutralità (Renik, 1996), astinenza, anonimità (Renik, 1995), egli è il più possibile esplicito su come intende la sua partecipazione agli eventi clinici ed il pieno manifestarsi della sua “irriducibile soggettività” (Renik, 1993) trova nelle self-disclosures, presenti lungo l’intero arco del trattamento, un centrale mezzo di espressione. Le self-disclosures (Renik, 1999), che rientrano nella sua concezione totalistica del controtransfert, sono attinenti alla relazione analitica, il I ed il III livello di complessità proposti da G. Meterangelis e G.Spiombi (2003), ne scandiscono i passaggi significativi; vengono comunicate sia spontaneamente che come risposta diretta alle domande della paziente; hanno lo scopo di favorire la self-disclosure del paziente. Fanno parte, ugualmente, del suo lavoro di tutti i giorni la richiesta di consultazioni ai colleghi, anche se lui ritiene che il paziente sia il primo collaboratore dello psicoanalista.
Scusandomi per l’eccessiva concisione dei passaggi che seguiranno, accenno appena al fatto che le sue posizioni hanno provocato numerosi distinguo di natura epistemologica, teorica, clinica, che si dispiegano lungo un arco che va dai numerosi che ritengono che egli stia attaccando i fondamenti della psicoanalisi ai pochi che propendono per una neutralità, un’anonimità, un’astinenza relative.
Le radici del suo pensiero affondano nell’opera di Ferenczi che tenne conto della rilevanza della personalità dello psicoanalista; sostenne che l’ipocrisia dell’analista è un ostacolo alla cura; che il medico è sempre un essere umano passibile di simpatie ed antipatie come di impulsi che non sempre possono essere sublimati nel controtransfert; che il paziente comprende che l’analista risponde alle sue fantasie.
Renik è, soprattutto, figlio del dibattito che sta interessando la nostra disciplina negli Stati Uniti del quale T. Jacobs (2002) ci ha fornito un ampio panorama. L’intersoggettivismo è una risposta postmodernista all’oggettivismo scientifico dei rappresentanti della psicologia dell’Io che si sono riferiti al Freud che si pronunciò sulla necessità per l’analista di padroneggiare il controtransfert e a quello dei primi scritti tecnici e hanno trascurato il Freud della lettera a Ferenczi del 1928, opportunamente citata da G. Meterangelis e G. Spiombi, nella quale il fondatore della psicoanalisi si riferisce a “quegli analisti troppo ubbidienti (che) non abbiano saputo cogliere la flessibilità delle regole che proponevo e che le abbiano trattate come se fossero dei tabù”.
Riconosciamo nel lavoro clinico di Renik influenze di H. S. Sullivan e della scuola interpersonalista, di H. Searles, di M. Gill che include nel transfert il processo diadico che coinvolge nel qui e ora l’intergioco fra le menti dell’analizzato e dello psicoanalista. Riecheggiano nella sua opera la presenza di R. Schafer e D. Spence i quali, con il concetto di verità narrativa, includono la psicoanalisi fra le discipline ermeneutiche, e quella del costruttivismo sociale di I. Z. Hoffman secondo il quale la parte più significativa del lavoro psicoanalitico consiste nella costruzione di nuovi significati da parte dell’analizzato e dell’analizzando e non nello svelare i significati rimossi, meta degli essenzialisti che intendono la verità come un apriori che attende di essere scoperto.
Renik intende la psicoanalisi non come una disciplina ermeneutica i cui elementi clinici devono essere sottoposti a criteri di valutazione estetici, ma come una branca della scienza i cui elementi clinici possono e devono essere dotati di previsione. Il suo stile, la sua tecnica, le sue teorie, sono permeati da una forte componente pragmatica, derivata da R. Rorty, che lo porta a valutare “la validità della nostra comprensione (sua e del paziente) interamente sulla base della sua efficacia terapeutica. Per come la vedo io, nella clinica psicoanalitica come nel resto della scienza, è vero ciò che funziona” (Renik, 1998).Aggiungendomi, probabilmente, ai colleghi da lui consultati nel vano tentativo di ricevere lumi sul trattamento, entrerò, ora, più specificamente nel merito del materiale clinico.
Compito non facile anche dal mio punto di vista di lettore non immerso, come lui, nel vivo dei potenti sentimenti di rabbia, paura, incertezza, disperazione, emersi nella relazione di transfert-controtransfert, ben conosciuti da chi abbia esperienza dei trattamenti dei pazienti borderline.
Non si colga, pertanto, nelle considerazioni che seguiranno presunzione perché conservo vivo il ricordo della mia esperienza di impasses più gravi di quelle cui il dr. Renik ha dovuto far fronte. Né sottovaluto i rilevanti miglioramenti sintomatologici e comportamentali cui la paziente è andata incontro. Frequentemente al termine del trattamento con un paziente borderline persistono ampie aree di rigidità, inaridimento, funzionamenti mentali primitivi e si può essere soddisfatti di risultati quali l’attenuazione dei sintomi e ci si augura che questa possa favorire positive trasformazioni delle strutture psichiche.
La paziente, dopo aver conseguito la laurea in legge, ha avvertito pienamente il fallimento del tentativo di separazione dagli oggetti genitoriali interni attuato in adolescenza, desidera e teme di insediarsi dentro lo psicoanalista così come desidera e teme di avviarsi nel mondo degli adulti. Oscillando bruscamente fra fusionalità e distanza siderale dagli oggetti, utilizza le notevoli funzioni cognitive ed i silenzi come una corazza che la proteggono dall’esterno ed impediscono il defluire dall’interno degli affetti, delle emozioni, dei contenuti corporei. Ella è alla ricerca di un oggetto che la accolga dentro di sé e le permetta di regolare l’organizzazione del Sé (sviluppare la propria Alaska interna) e la distanza degli oggetti.
B. Bonfiglio (2003) riferendosi agli individui che, come la nostra analizzata, hanno acquisito alcune capacità di base quali la scissione e l’identificazione proiettiva, scrive: ”Essendo ancora carente...un senso di sé (e dell’altro), l’individuo sperimenta se stesso, le sue emozioni, gli oggetti e gli eventi come fatti concreti che hanno un’esistenza propria e non necessitano di una attribuzione di significato”.
Il collasso della frontiera situata fra la mente inconscia ed il preconscio, “it-ness” e “I-ness”(T. Ogden, 2001), che le impedisce l’accesso al mondo del sogno e del gioco, all’area transizionale, alla regola fondamentale delle libere associazioni perché è impossibilitata a cogliere i due momenti che secondo J. Habermas (1981, citato da H. Thomä e H. Kächele (1990) caratterizzano l’uso dei simboli semplici: “il significato identico e la validità intersoggettiva” (da cui deriveranno lo sconcerto iniziale e l’irritazione, a trattamento inoltrato, a rispondere all’invito dello psicoanalista a dire tutto ciò che le viene in mente), quel collasso, dicevo, fa sì che ella si aspetti più azioni che parole.
La richiesta di essere abbracciata conferma la concreta impellenza di questi bisogni. Le calde e premurose parole dell’analista la fanno comunque sentire rifiutata e la precipitano nell’angoscia di disintegrazione. La rabbia successiva cui corrispondono i timori e le incertezze dell’analista circa l’utilità per lei della prosecuzione del trattamento, maturano, in uno degli acmi di questa analisi, la prima importante self-disclosure, che mi ha ricordato, anche nei dettagli, una mia self-disclosure con una paziente borderline.
La consegna dei diari è la testimonianza dell’importanza che ella assegna alla relazione psicoanalitica, ma anche del bisogno di affidare al diario, ed allo psicoanalista che lo deve leggere, la definizione e l’integrazione del nucleo centrale del Sé. La fedele trascrizione di ogni parola, di ogni sua emozione, di ogni suo pensiero, esprimono questo bisogno.
Accanto alla acquisizione delle capacità di base esistono in lei, per dirla ancora con B. Bonfiglio, aspetti di “non esistere o di esistere mutilato”. Forme che T. Ogden (1989) ritiene conseguenza dei fallimenti intervenuti nella posizione contiguo-autistica di fare esperienza, posizione in cui la relazione con l’oggetto non è una relazione fra soggetti come nella posizione depressiva e nemmeno una relazione tra oggetti come nella posizione schizo-paranoide. Si tratta di una modalità presimbolica emergente ai primordi della relazione madre-bambino, “di un rapporto tra forma e sensazione di contenimento, tra battuta musicale e sentimento del ritmo, tra percezione del duro e sentimento del limite. Sequenze, simmetrie, periodicità, adattamento pelle-a-pelle, sono altrettanti esempi di contiguità e costituiscono gli ingredienti di una iniziale e ancora rudimentale esperienza di sé”. Secondo lo stesso Ogden le difese ossessive costituiscono uno sforzo di organizzazione e definizione per far fronte all’angoscia emergente dalla frammentazione di questo primitivo senso di sé e sono utili alla“costruzione di un rigido contenimento sensoriale dell’esperienza... al servizio dell’esigenza di tamponare falle, esperite a livello sensoriale, nel senso di sé dell’individuo, falle attraverso cui il soggetto teme e sente (nel senso più concreto dell’esperienza sensoriale) che non soltanto idee, ma effettivi contenuti corporei potrebbero debordare all’esterno”.
Ogden aggiunge che le parole più vicine a questa modalità di fare esperienza sono “tranquillizzante e confortevole. Non è questione di una madre che conforta-è solo una tranquillizzante esperienza sensoriale”.
La promessa dell’analista, sia pure condizionata, di continuare l’offerta ambientale, con la sua attendibilità, i suoi ritmi, la sua periodicità, la stabilità del contenimento, consentono alla paziente un certo sollievo e barlumi di “venire ad essere” nella relazione e nella vita esterna.
Ma, apparentemente a sorpresa, a conferma dell’estrema precarietà dell’assetto del Sé e delle relazioni d’oggetto, l’analizzata apre il conflitto sulle cancellazioni che si concluderà con la proposta di compromesso da parte dello psicoanalista.
Immagino che il nostro collega abbia preso la sua decisione per proteggere la prosecuzione del trattamento e per rafforzare quei sentimenti di competenza e di attività della paziente, duramente minati durante l’infanzia quando aveva subìto numerosi ed inaspettati abbandoni da parte dei genitori.
Credo, introducendo un aspetto decisamente non gradito al Dr. Renik (1996), che la variazione di questo aspetto estrinseco del setting si sia verificata, anche, sotto la spinta dei funzionamenti inconsci e che lui vi sia stato spinto dall’identificazione proiettiva della paziente che lo ha posto nei panni di se stessa bambina in relazione con lei identificata ai propri genitori. Parafrasando Bollas si potrebbe affermare che egli abbia trovato la paziente dentro se stesso. Tenere conto anche di questi aspetti inconsci del funzionamento mentale della coppia al lavoro e delle fratture cui questo lavoro va incontro, avrebbe, forse, poggiato il cambiamento del setting ed il suo ritorno alle funzioni di cornice silenziosa e strutturante, su basi più sicure.
L’andamento incoraggiante della carriera, che segnala, tuttavia, la tendenza di lei ad identificarsi eccessivamente con i criminali che difende, allusione possibile al sentimento di aver tiranneggiato lo psicoanalista, procede, anche se scisso dalla qualità della relazione analitica.
Alzando il tiro delle sue richieste, ella dichiara di non poter vedere lo psicoanalista mentre la guarda. Non ripeterò, a questo proposito, quanto già detto in precedenza a proposito di identificazione proiettiva; intorno a queste sequenze potrannno provenire interessanti contributi da P. Fabozzi che recentemente ci ha sottoposto il suo lavoro “Del non guardare” e da C. De Toffoli e da M. Di Renzo che lo hanno discusso.
Da parte mia vi riconosco, in modo più evidente che nell’episodio della richiesta di abbraccio, elementi di transfert erotizzato. Sembra che la paziente non possa tollerare lo sguardo penetrante e sessualizzato dello psicoanalista, ma non solo. Il suo funzionamento è ancora tipico delle modalità primitive di fare esperienza: gli aspetti persecutori (1) dello sguardo, ma soprattutto l’impossibilità a vedere lo psicoanalista, e non se stessa, negli occhi dello psicoanalista.
D. Winnicott (1971), a questo proposito, scrive: “La psicoterapia non consiste nel fare interpretazioni brillanti ed appropriate; in linea di massima ed a lungo termine è un ridare al paziente su un ampio arco di tempo ciò che il paziente porta. E’ una complessa derivazione della faccia che riflette ciò che è là per essere visto”.
Intendo queste parole come un invito alla pazienza, all’ascolto, alla discrezione, alla reverie. Sono queste le condizioni che preparano il comparire di quella particolare forma dello spazio potenziale che è lo spazio analitico, “che non è e non può essere sempre presente in un trattamento, ma che il terapista deve cercare di creare tutte le volte che sia possibile ” (Bram A., Gabbard G., 2001) e che anche il Dr. Renik, con i suoi punti di vista teorici e tecnici, con il suo stile personale, ha tentato di creare, con il suo candore ed il suo coraggio, in una situazione così difficile.

(1) Secondo l’Online Etimology Dictionary i verbi precursori del to look nel periodo dell’Old English (450-1100) significavano anche spiare. I verbi precursori del to see nel periodo del Middle English (1100-1500) significavano anche tenere nell’immaginazione o nel sogno


BIBLIOGRAFIA

Bonfiglio B. (2003) Transfert e livelli di funzionamento della mente nella teoria e nella clinica. Presentato al Centro di Psicoanalisi Romano.
Bram A., Gabbard G. O. (2001) Potential space and reflective functioning: towards conceptual clarification and preliminary clinical implications. Int. J. Psycho-Anal., 82, 685-699.
Habermas J. (1981) Teoria dell’agire comunicativo, vol. 2. Il Mulino, Bologna, 1983.
Jacobs T. J. (2002) L’analisi oggi in America: un punto di vista personale. Gli Argonauti.
Meterangelis G., Spiombi G. (2003) La soggettività dell’analista ed il grado della sua partecipazione alla costruzione della relazione analitica: il problema della self-disclosure. Presentato al Centro di Psicoanalisi Romano.
Ogden T. H. (1989) Il limite primigenio dell’esperienza. Astrolabio, Roma, 1992.
Ogden T. H. (2001) Conversations at the frontier of dreaming. .Jason Aronson, Northvale, London.
Renik  O. (1993) Analytic interaction: conceptualizing technique in light of the analyst’s irreducible subjectivity. Psychoanalytic Quarterly, 62: 553-571.
Renik O. (1996) The perils of neutrality. Psychoanalytic Quarterly, 65: 495-517.
Renik O. (1998) The analyst’s subjectivity and the analyst’s objectivity. Int. J. Psycho-Anal., 79, 487-497.
Renik O. (1999) Playing one’s cards face up in analysis: an approach to the problem of self-disclosure. Psychoanalytic Quarterly, 68: 521-539.
Thomä H., Kächele H. (1985) Trattato di terapia psicoanalitica. Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
Winnicott D. W. (1971) La funzione d specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile.In: Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974.

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