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Cabré L. J. M. - Dall'introiezione all'intropressione: evoluzione di un concetto teorico e sue conseguenze nella tecnica psicoanalitica (2011)

Giornata con Luis J. Martin Cabré, 26 marzo 2011

DALL’ INTROIEZIONE ALL’INTROPRESSIONE

EVOLUZIONE DI UN CONCETTO TEORICO

E SUE CONSEGUENZE NELLA TECNICA PSICOANALITICA

 

Cercherò, in questo breve lavoro, di offrire una panoramica dell’evoluzione del concetto di "introiezione" nel pensiero di Ferenczi, di indiscutibile ricchezza tanto teorica quanto clinica per la psicoanalisi. Questo concetto emerse l’anno seguente all’incontro tra Freud e Ferenczi e, durante anni di evoluzione e sviluppo, acquisì un’ultima accezione attraverso il geniale apporto ferencziano sul traumatismo nell’ultima annotazione di “Note e Frammenti” del 26 dicembre del 1932. In questa nota finale Ferenczi introdusse il neologismo "intropressione" che cercava di articolare la nozione di introiezione con gli effetti devastanti della violenza e della repressione familiare (l’"educazione infantile") e una determinata maniera di concepire la pratica analitica. Si trattava, di fatto, di un termine che si riferisce ad una questione essenziale dell’analisi, che è quella di affrontare fino a che punto la parte inconscia del Super-io è suscettibile di modificazioni ed in che termini. Si tratta inoltre di una nozione che  punta ad un aspetto essenziale, in quanto fattore perturbativo, della trasmissione psicoanalitica e della formazione dei futuri psicoanalisti. L’intropressione comporta un effetto di squalifica e di diniego  delle rappresentazioni e dei pensieri del bambino, del paziente o del candidato, che finiscono col perdere tutta la fiducia nel valore dell’interpretazione che essi fanno della realtà psichica. Le loro interpretazioni vengono sostituite da quello che fa l’adulto, l’analista o il formatore. Si tratta, in definitiva, "...dell’esercizio abusivo di una violenza e di un potere che attacca il pensiero e che nega tutto il proprio desiderio e tutta l’alterità..." ( M. Enriquez, 1984).

Ma ripercorriamo brevemente la storia del concetto.

Quando Freud e Ferenczi si incontrano per la prima volta, con la mediazione del Dr. Stein di Budapest, la domenica 2 di febbraio del 1908, il primo ha 52 anni e il secondo appena 35. Nonostante la sua giovinezza, Ferenczi aveva una lunga esperienza ospedaliera, aveva pubblicato interessanti lavori sullo spiritismo,             l’omosessualità femminile e la patologia psicotica ed era al corrente di tutto ciò che fino a quel momento era stato scritto da Freud. Il motivo dell’incontro era ricevere da  Freud una consulenza prima del suo imminente progetto di tenere una conferenza sulle scoperte psicoanalitiche di fronte ad una platea di medici ignoranti in materia. Si trattava di verificare molto bene che tipo di argomenti trasmettere facendo uso del tatto necessario per non produrre un rifiuto ed una resistenza eccesivi. Si trattava, già allora, di una preoccupazione rispetto alla trasmissione psicoanalitica.

In quel momento, le basi del trattamento analitico si erano costituite già solidamente e la nozione di transfert costituiva un elemento fondamentale della tecnica. Nonostante nei primi tempi Freud (1895) fosse stato considerato, oltre che analista, un esploratore scientifico che faceva del paziente un “collaboratore”, l’elaborazione del concetto di transfert trasformò radicalmente la sua teorizzazione, stabilendo una continuità tra l’esperienza ipnotica e questa nuova maniera di ascoltare e di intendere il paziente. Attraverso l’analisi di Dora e la sua posteriore elaborazione, il transfert diventa il centro delle sue riflessioni teoriche e cliniche. Un anno prima del suo incontro con Ferenczi, il 30 di gennaio del 1907 nella Società Psicoanalitica di Vienna, affermava: “…c’è solo una potenza capace di superare le resistenze: il transfert… noi costringiamo il paziente a rinunciare alle sue resistenze per ‘amor nostro’…”

Certo è che il transfert  a distanza” che si era instaurato in Ferenczi rispetto a Freud  attraverso la lettura di “Tre saggi” (1905) e  “L’Interpretazione dei sogni” (1900) provocò, tramite l’incontro tra i due, un’autentica storia d’amore e di seduzione reciproca che avrebbe iniziato a plasmarsi con la produzione di una moltitudine di lavori per ognuno dei quali risulta difficile stabilire la paternità. Un esempio particolarmente significativo di questa coproduzione è il tema dell’introiezione e  del transfert, tema del nostro congresso.

Di fatto, l’anno seguente all’incontro con Freud, Ferenczi scrive “Introiezione e Transfert” (1909), un’opera maestra della letteratura psicoanalitica, utilizzando uno stile audace, entusiasta, a tratti impetuoso, ma offrendo un’abbondanza di fini osservazioni cliniche sorprendenti ed originali. Tenta di corroborare la tesi di Freud aggiungendo però le sue proprie intuizioni.

Risulta straordinariamente suggestiva la sua nozione di introiezione, che descriverà inizialmente come una caratteristica dei nevrotici. Al contrario del demente o del paranoico, che attraverso la proiezione situano nel mondo esterno le emozioni penose o insopportabili, il nevrotico include nel suo Io aspetti del mondo esterno che si trasformano in seguito in oggetto di immagini inconsce. Questa inclusione da luogo a un processo che attenua la frustrazione dei desideri insoddisfatti o dei processi di conflitto, e costituisce un’operazione eminentemente difensiva. Scrive Ferenczi: “…lo psiconevrotico soffre di un allargamento dell’Io, il paranoico del suo impoverimento …”. Un poco più avanti, Ferenczi amplia questa concezione, attribuendo all’introiezione un carattere non esclusivamente nevrotico, ma di  normalità e includendo anche nel suo ambito l’amore oggettuale e il transfert che definisce precisamente come una ripetizione delle prime relazioni d’oggetto: “…il primo amore oggettuale, il primo odio oggettuale sono la radice ed il modello di ogni transfert successivo, cosa che non è una caratteristica delle nevrosi, ma l’esagerazione di un processo mentale normale (p.108)…”  Resta chiara, dai primi passaggi del testo, la prossimità che hanno le sue descrizioni sull’introiezione con concetti come l’idea di transfert  specifico della cura concepito come resistenza, l’identificazione isterica, gli spostamenti e le formazioni reattive.

In definitiva, definisce l’introiezione come un processo che comporta  simultaneamente l’investimento oggettuale e un’identificazione come correlato narcisistico (…”io descrivo l’introiezione come l’estensione verso il mondo esteriore dell’interesse  autoerotico iniziale attraverso l’inclusione degli oggetti esterni nell’io… in fondo l’uomo non può far altro che amare se stesso. Se ama un oggetto, immediatamente lo assorbe…”, e che si configura come un processo primario organizzatore, un movimento psichico costitutivo e difensivo, fondamentale durante le prime tappe dello sviluppo psichico del bambino, e nella costituzione della dinamica della vita amorosa e del transfert, e che possiede inoltre la virtù di alleviare il dolore prodotto dalle aspirazioni irrealizzabili e di garantire il maggior possesso possibile dell’oggetto. (Inoltre Ferenczi coglie l’aspetto regressivo che si lega  a questa specie di “…avidità, di immenso desiderio, presente nel transfert dal principio della cura…”).

 La concezione di Ferenczi dell’introiezione fu ripresa anni più tardi da Freud in “Pulsioni e loro destini” (1915) e in “Lutto e melanconia” (1917). Nella prima opera, Freud sostiene che sebbene l’amore è originariamente narcisistico, in seguito cerca di  "incorporare e divorare" l’oggetto. Però nella seconda, il grande apporto teorico di Freud al tema della depressione, Freud sviluppa magistralmente alcune idee abbozzate da Ferenczi nel lavoro prima commentato e anticipa alcune di quelle che egli postulerà quindici anni dopo. Per Freud, la malinconia si caratterizza psichicamente con un profondo e doloroso crollo , con una diminuzione dell’interesse per il mondo esterno, con la perdita della capacità di amare, con l’inibizione di fronte a qualsiasi attività e con un avvilimento dell’amore di sé, che si manifesta in auto-rimprovero e auto-ingiurie e che culmina nell’attesa delirante di una punizione. Perché il melanconico si denigra e si accusa ingiustamente? Perché, nonostante si consideri una persona non degna di considerazione, disturba incessantemente gli altri con le sue continue lamentele? Quale verità si nasconde dietro le sue parole? Freud afferma che se si ascoltano con attenzione le molteplici e variegate autoaccuse del melanconico, si ha l’impressione che queste, più che alla persona dell’ammalato (infermo), sembrano riferirsi chiaramente ad un’altra persona. Questo è il punto chiave dell’apporto di Freud. Nella melanconia, l’investimento libidico su un oggetto perduto è sostituito con un’identificazione narcisistica. Ma postulare l’identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato implica anche che una “istanza critica” separata dall’Io, che più tardi denominerà “Super-io”, applichi all’Io lo stesso odio e lo stesso desiderio di distruzione che l’Io sentiva per l’oggetto. In una forma analoga a ciò che succede nel trauma (Green (1975), l’ombra di questo oggetto cade allora sull’Io, un Io ferito consumato e divorato da un eccesso e allo stesso tempo da uno spreco di energia psichica che si perde inesorabilmente, a volte, fino alla disfatta finale. Non si percepisce dietro la nozione di "identificazione narcisistica" o "melanconica" di Freud, il concetto di "identificazione con l’aggressore" che Ferenczi definirà nella sua famosa "Confusione delle lingue".[1]

Lascerò ora da parte le trasformazioni della configurazione teorico-clinica della seconda topica freudiana che implicò, attraverso l’introduzione del concetto di pulsione di morte, una modifica sostanziale della nozione di narcisismo, masochismo, strutturazione dello psichismo e teoria dell’identificazione. Ferenczi, non occorre dirlo, partecipò attivamente a questa nuova concezione e ci ha lasciato l’eredità di imponenti opere, tra le quali non si può dimenticare quella che scrisse insieme a Rank, "Prospettive e sviluppo della psicoanalisi" (1924) nella quale affrontarono il tema della ripetizione come materiale clinico di primo livello, ed una critica esplicita ad un modo di procedere analitico che abusava della teoria delle pulsioni a danno dell’oggetto, ricorreva a interpretazioni intellettualizzate e di dettaglio e non teneva in conto i rischi del narcisismo dell’analista che poteva suscitare una sottomissione del paziente, nel senso di forzarlo a portare il materiale che risultava più gradito a lui, e a evitare i sentimenti ostili rinforzando la sua colpa inconscia e impedendo il progresso della cura. Non si riferiva inconsciamente alla sua propria esperienza analitica e anticipava i suoi futuri sviluppi teorici?

Andiamo a vedere. La concezione psicoanalitica del trauma di Ferenczi raggiunse il momento teorico più importante nel polemico lavoro con il quale concluse il XII Congresso internazionale di Psicoanalisi il 4 settembre del 1932 a Wiesbaden.

Mi riferisco ovviamente a “Confusione delle lingue tra adulti e bambini” dove tentava di stabilire una nuova formulazione metapsicologica della teoria della seduzione e della sua relazione con il trauma. In questo lavoro Ferenczi non solo attribuiva agli oggetti esterni un ruolo determinante nella strutturazione dell’apparato psichico del bambino, ma anche poneva l’accento su due argomenti essenziali per la teoria psicoanalitica: i processi identificatori e la scissione dell’Io. Ampliando il concetto di seduzione, così come era stato teorizzato fino ad allora da Freud, Ferenczi sviluppava un salto teorico considerevole spiegando l’eziologia traumatica come il risultato di una “violazione psichica” del bambino fatta da un adulto, di una “confusione di lingue” tra loro e soprattutto del “diniego” (Verleugnung) da parte dell’adulto della disperazione del bambino.

 Quando queste modalità di invasione psichica producono i loro effetti dequalificando e negando il riconoscimento del pensiero e degli affetti, nello psichismo del bambino si produce un trauma che genera una scissione, una frammentazione, una atomizzazione, una autotomia che porta implicita l’amputazione di una parte di se stesso. Ma inoltre, Ferenczi ci mostra, coniando anche il concetto di autotomia”, che il soggetto “muore” attraverso la scissione. Non sente più dolore perche non esiste. Anzi, “non si preoccupa più del respiro e del cuore, né in generale di conservare la vita, ma piuttosto considera con interesse la stessa distruzione o mutilazione, come se non fosse più se stesso e queste pene venissero inflitte a un'altra persona”. Come nella affascinante descrizione clinica che fa della sua paziente O.S.[2], si tratta della perdita del senso del tempo, “come se la vita non dovesse finire nella vecchiaia e nella morte”.  Ma non è un meccanismo di difesa, è un meccanismo di sopravvivenza. Ma, paradossalmente, questa risposta estrema si produce per salvare la vita. Per salvaguardare lo spirito e l’integrità bisogna sacrificare la parte viva del corpo e sottomettersi a un autotrattamento, a una autotomia nella quale la persona deve sottrarsi a se stessa e agli altri. Non ci farebbe pensare tutto questo alla psicosi?

Nel lavoro clinico gli analisti ci confrontiamo abitualmente con la sofferenza dei nostri pazienti ma Ferenczi, quando affronta la dinamica del trauma, si riferisce non a una sofferenza sopportabile ma a una sofferenza sconosciuta che perde la sua misura e che perciò non può essere né capita né contenuta.

È interesante ricordare a questo proposito un passaggio del suo “Diario”[3] riferito alla paziente G. che descrive una sua esperienza traumatica legata alla visione di un rapporto sessuale dei genitori che diventa poi una scena violenta nella quale il padre tenta di strangolare la madre. Dice “...Nessuno pensa a me; non posso correre da nessuno; posso fare assegnamento solo su me stessa; ma non so come si possa sopravvivere da sola; mangiare qualcosa mi calmerebbe ma nessuno pensa a me; vorrei gridare ma non oso, è meglio che stia zitta e nascosta altrimenti mi faranno qualcosa; li odio tutti e due; vorrei allontanarli da me ma è impossibile, sono troppo debole e sarebbe anche troppo pericoloso; vorrei fuggire ma non so dove; vorrei buttar fuori tutta questa storia...” Secondo Ferenczi “il carattere insopportabile di una situazione conduce a uno stato psichico simile al sonno dove ogni eventualità può essere trasfigurata come nel sogno ma se il dispiacere persiste allora si regredisce a stadi ancora più lontani”: “Sono spaventosamente sola; naturalmente, perché non sono ancora nata. Mi muovo nel grembo materno”. Il tempo qui  è fermo, incorsetato in un  presente infinito, inesauribile e vuoto. Questo è il tempo del trauma. Un tempo nel quale non comincia mai niente, un tempo senza negazione e senza possibilità d’iniziativa. Ed è proprio il trauma, sempre unico ed inedito, che interrompe la continuità del tempo, che introduce l’irrapresentabile nella catena di rappresentazioni e come un lampo lascia intravedere la morte.

 Di fronte all’impossibilità di difendersi dall’adulto, quando la paura supera la soglia del sopportabile, il bambino si sente paralizzato, si sottomette ai suoi desideri, alla sua volontà, finendo per identificarsi totalmente con lui. Per proteggersi dalla perdita tanto dell’oggetto come del vincolo con l’oggetto, il bambino introietta forzatamente il desiderio e la colpa dell’adulto come ultima risorsa per recuperare qualcosa della sua identità narcisistica.

Ferenzi abbozza così tanto il concetto di "introiezione del sentimento di colpa" che quello di "identificazione con l’aggressore" che sarà più tardi ripreso da A. Freud (1946) e Laplanche (1988) e che in realtà, Ferenczi aveva già utilizzato anche con altre denominazioni, "identificazione fantasmatica con il distruttore", "identificazione con gli oggetti del terrore" e l’espressione che sembrava preferire "introiezione dell’aggressore". Che relazione si poteva stabilire tra l’idea ferencziana dell’“identificazione o introiezione con l’aggressore” ed il concetto di “identificazione narcisistica” descritto da Freud in “Lutto e melanconia”, e con quello di "identificazione melanconica" descritto in "Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile" (1920) nella quale l’ombra dell’oggetto cade sull’Io, stringendolo in un angolo e sottomettendolo a ogni tipo di vessazioni e avvilimenti?

Invece, e questo è un punto di grande importanza per la comprensione della teoria di Ferenczi sul trauma, l’effetto traumatico appare però in un secondo momento, ed è una conseguenza del diniego, meccanismo già descritto da Freud in “Feticismo” (1927). Si produce quando il bambino riceve da parte di un adulto che non riesce a sopportare il discorso del bambino, un diniego che interrompe tutto il processo introiettivo e paralizza il pensiero, un diniego che proibisce al bambino non solo di usare la parola ma anche la possibilità di farne una rappresentazione e una fantasia. Le parole del bambino rimangono, secondo l’espressione di N. Abraham e di M. Torok (1978) “sotterrate vive”.

Dalla sua prospettiva, per tanto, il traumatico si trasforma quindi in qualcosa di non inscritto nell’apparato psichico. La reazione al dolore riguarda l'ambito del non rappresentabile e del non accessibile alla memoria e al ricordo.

Il trauma, cioè, si "presenta", non si "rappresenta" ed inoltre la sua presenza non appartiene a nessun presente, distruggendo persino il presente all'interno del quale si presenta. È un presente assoluto senza presenza, un presente folle, dove il soggetto esce dal tempo e forma la sua propria cosmogonia, cercando di inserire la sua impossibile sofferenza in una più ampia unità temporale. Si tratta di un presente senza fine e inesauribile ma allo stesso tempo vuoto.

A differenza del presente storico, che stabilisce una presenza e una identità, nel presente traumatico tutto si dissolve, non vi è né soggetto, né opposizione tra soggetto ed oggetto. Ciò che Ferenczi ci suggerisce è che qualcosa che ha a che fare con la morte, qualcosa di non rappresentabile nemmeno per Freud, è in gioco nella dinamica e nel tempo del trauma, che è, in realtà, secondo Ferenczi, un “processo di dissoluzione che va nella direzione di una dissoluzione totale, cioè della morte”[4]. Forse più che alla morte che mette un limite, ciò che segnala Ferenczi è lo “star–morendo” continuamente, in un tempo dove nulla inizia. Il tempo si momifica e, agendo come un tessuto morto, evita e paralizza la funzione dell’après-coup.

 Il punto più polemico del suo lavoro si radicava nel fatto che Ferenczi pensava che un processo analogo poteva verificarsi nell’ambito della relazione analitica come conseguenza dell’intromissione forzata, della compulsione a interpretare di certi analisti e della sottomissione nevrotica di certi pazienti. Ho sempre avuto l’impressione che il dibattito che si produsse tra Ferenczi e Freud tra il 1928 e il 1933 andava oltre una discussione sul trauma e si riferiva, in fondo, al problema della trasmissione della psicoanalisi e, se si preferisce, alla questione della formazione psicoanalitica. Di fatto, come ho affermato all’inizio del mio lavoro, con il termine "intropressione" Ferenczi si riferiva ad una educazione violenta dei genitori sui figli, ad una educazione devastante che inocula la colpa, il segreto e la proibizione di pensare. Ma naturalmente si stava anche riferendo ad un determinato modo di analizzare che implicava la sottomissione, l’introiezione della colpa ed una incapacità di gestire le proprie risorse mentali che caratterizzerebbe alcuni pazienti e soprattutto alcuni futuri analisti. Ogni paziente ed ogni analista in formazione ascolta tutto ciò che gli dice il suo analista o il suo supervisore da una posizione di identificazione ed in condizioni normali dovrebbe verificarsi una disidentificazione perché si possa produrre il più elementare movimento di emancipazione. Dunque, l’intropressione impedisce e paralizza qualsiasi possibilità di disidentificazione. Rende impossibile la "disidentificazione dall’aggressore".

         Già si era riferito a questo problema nel 1928 ne "L’adattamento della famiglia al bambino" in cui segnalava come il maggior errore dei genitori fosse dimenticarsi della propria storia. L’impostazione di Ferenczi fu ripresa da Balint in The Basic Fault” (1968) che sottolineò l’importanza della ripetizione nel transfert di questi stati limite di impotenza, di dolore e di disperazione; ma furono Nicolás Abraham e María Torok (1987) in “L’écorce et le noyau” (La scorza e il nocciolo) ad introdurre nell’opera freudiana alcuni dei contributi di Ferenczi ed a sviluppare alcune delle sue intuizioni sull’intropressione.

          Concretamente nel capitolo intitolato "Il crimine dell’introiezione", questi autori hanno immaginato il luogo psichico di un lutto che non si riferisce né allo psichismo né agli affetti di un solo individuo. Propongono uno spazio metapsicologico rinnovato dentro al quale si articola un luogo segreto, una specie di cripta che serve per nascondere la dimensione dolorosa della perdita e del lutto non elaborato dall’Altro. Le pareti della cripta rinchiudono al suo interno un piacere segreto e scandaloso sentito dall’Altro e dal soggetto identificato con esso. La cripta si istituisce immediatamente dentro l’Io del soggetto come conseguenza di una “scena traumatica pre-verbale” dimenticata e occultata, piena di carica energetica e di significato simbolico. Tale scena si riferisce a storie, passioni, delitti, relazioni incestuose che incatenano il soggetto in una posizione di osservatore muto, incapace di partecipare attivamente e di elaborare tutto l’accaduto. Il soggetto è invaso completamente da tutto ciò che l’Altro non ha potuto elaborare e ha dovuto rimuovere  e negare. In questo modo, l’Io del soggetto si trasforma nel luogo della colpa e del lutto non elaborato dell’altra persona.

       Pensiamo solo per un instante al concetto di Ferenczi che appare nel suo "Diario Clinico" (1932, p.123) che egli denomina "trapianti estranei” ("Fremdüberpflanzungen"), concetto indissolubilmente vincolato a quello di trauma e che è stato altrettanto ben elaborato da J. Garon (1993). Si tratta di "...contenuti psichici di carattere sgradevole che vegetano nel corso della vita in una persona..." e che restano inaccessibili alla coscienza e alla simbolizzazione. I ”trapianti estranei" sarebbero una specie di "introiezione forzata" dei traumi che l’adulto avrebbe sofferto durante la sua infanzia, una parte dei quali rimarrebbe dissociata e trasformata in oggetto di diniego. Questa è esattamente la linea teorica sviluppata da Abraham e Torok. Ma anche Ferenczi conferisce a questo concetto un senso originale facendolo apparire, allo stesso modo che nelle catastrofi thalassiane, come "transgenerazionale". I traumi transgenerazionali darebbero conto di ciò che si trasmette da una generazione a un’altra, una trasmissione portata avanti in silenzio ed in segreto, ma agita, dove regnerebbe la legge del silenzio psichico, ovvero, la proibizione di pensare.

Non ci sarebbe straordinariamente utile questa concezione per provare a comprendere le ragioni profonde per cui il nome di Ferenczi, collaboratore e interlocutore privilegiato di Freud, fondatore dell’I.P.A. (1910) e dell’"International Journal" (1920), primo professore ad occupare una cattedra di psicoanalisi (1919), autore di innumerevoli opere fondamentali della teoria psicoanalitica, clinico ammirato da tutti e soprattutto colui che, secondo Freud (1933), ogni psicoanalista dovrebbe considerare come proprio maestro, sia scomparso  nell’oblio della psicoanalisi, della maggior parte degli analisti e, ovviamente, della formazione dei nuovi candidati per molti anni? Perché noi analisti a volte dimentichiamo la nostra propria storia? Come ha agito l’intropressione del Super-io di analisti e formatori su pazienti e candidati? Quanti segreti, delitti e passioni sono stati messi a tacere attraverso la sofferenza e il diniego introdotti in essi nel corso della storia della nostra disciplina?

           Fortunatamente le cose sono cambiate e siamo tutti noi oggi qui a restituire in piccola parte il posto privilegiato che nella psicanalisi, quest’uomo genuino, onesto, leale con le proprie idee e convinzioni e sopratutto un analista e una persona dotata di una generosità incomparabile, non avrebbe mai dovuto perdere.



[1] Anni più tardi, Abraham (1924) ratificava le idee di Freud e di Ferenczi sull’"appropriazione dell’oggetto". Nel capitolo "L’introiezione melanconica. Le due tappe della fase orale." della sua opera "Tentativo di una storia evolutiva della libido" afferma ..."L’introiezione dell’oggetto amato è un processo di incorporazione che corrisponde alla regressione della libido alla fase cannibalica...". Però va oltre e aggiunge: "...L’introiezione dell’oggetto perduto presuppone una doppia compensazione. Da un lato il soggetto possiede l’oggetto, ma da un altro può convertirsi in esso, attraverso l’identificazione..."

[2] 26 giugno 1932, pp. 232.

[3] 14 agosto, pp. 306. “I am so dreadfully alone, of course I haven’t been born yet, I am floating in the womb”

[4] Diario Clinico Trauma is a process of dissolution that moves toward total dissolution, that is to say, death” pp. 130.

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