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Moccia G. - Commento di "Contro-tempo, La temporalità del pensiero e della storia nella clinica e nella letteratura" di Marina Breccia. Mimesis, 2022

Vorrei iniziare il mio commento esprimendo il mio apprezzamento per questo nuovo libro di Marina Breccia. Non capita spesso di leggere lavori di una tale ampiezza interdisciplinare che spazia dalla sociologia, alla letteratura, all’arte, alla poesia, alla teoria e alla clinica psicoanalitica, su un tema come quello della psicodinamica del trauma, della eterogeneità delle sue memorie, dei suoi effetti alienanti e del suo ripetersi, non solo attraverso il ricordo, ma attraverso il suo ri-presentarsi in azione, in una dimensione astorica e atemporale. Uno stallo, un controtempo appunto, che, come dice l’Autrice, descrive “una opposizione a procedere, ad andare oltre, a ristabilire una continuità con la vita e quindi con la morte opposizione che può determinare per conseguenza lo stanziare in una morte senza fine e quindi inconclusa”. Questo tema, di una impossibilità del lutto, della perdita del sentimento di sé, di uno stato perdurante di mortificazione, di perplessità rispetto alla propria realtà psichica e di resa alla realtà psichica altrui che accompagna l’esperienza traumatica e quindi l’idea di una policronia del tempo (la linearità e l’unidirezionalità del tempo della coscienza, l’atemporalità dell’inconscio e l’atemporalità e astoricità della coazione a ripetere) è nel libro come un filo rosso che si dipana per tutto il libro, nelle diverse declinazioni antropologiche, storiche e psicoanalitiche, nei capitoli sul lavoro del lutto che rappresenta appunto un tentativo di far ripartire la temporalità e di riportare la storia traumatica in un campo psichico, sulla distruttività, la realtà psichica e la realtà storica, i processi evolutivi delle strutture identitarie, della loro trasmissione tra le generazioni come appare nei grandi traumi collettivi come i genocidi, e nel tempo necessario perché queste tracce , come nella clinica del trauma, possano manifestarsi.

Nella sua disamina sulle diverse teorie psicoanalitiche del trauma e delle trasformazioni intervenute nella tecnica Marina Breccia sembra tenere insieme le concezioni economiche classiche e le teorie della relazione d’oggetto abbracciando con ciò quanto lei, già nel primo capitolo, definisce un conflitto cooperativo fra le teorie. Un concetto che esprime il suo auspicio di una rinnovata collaborazione fra modelli psicoanalitici e differenti discipline consapevoli del fatto che “…è nello scarto, in ciò che fa scacco al pensiero esperto che troviamo una rinnovata e trasformata occasione per pensare e ri-pensare”. Una posizione simile alla immagine di Ogden di una coesistenza inquieta fra i modelli nella mente dell’analista come fuoriuscita dalla situazione di commensalità dei modelli psicoanalitici che difensivamente si proteggono dal dolore psichico della differenza, attraverso l’evitamento del confronto e della collaborazione.

E dunque tornando al secondo capitolo, Il tempo del trauma, l’esperienza del trauma è descritta innanzitutto come una esperienza di eccesso e come tale pone in primo piano una dimensione di economia psichica. Nella esperienza traumatica infantile lo scudo difensivo viene lacerato dall’esperienza di sopraffazione traumatica e la quantità di eccitazione prodotta eccede la possibilità di essere legata e padroneggiata psichicamente. L’Io è assolutamente impotente di fronte alla eccitazione insostenibile della situazione traumatica e i suoi processi rimotivi falliscono. Incapace di sviluppare una angoscia segnale l’Io è pervaso piuttosto da una angoscia automatica, una angoscia disorganizzante e difficilmente rappresentabile. E’ noto che per Freud la situazione traumatica poteva essere attivata da cause interne o esterne, da eccessive richieste istintuali o da esperienze reali esterne, ma il fattore decisivo era comunque la stimolazione eccessiva e di conseguenza la paralisi dell’Io.

In equilibrio con le concezioni energetiche tuttavia Marina Breccia assume anche le evoluzioni teoriche successive della psicoanalisi che, a cominciare dal lavoro pionieristico di Ferenczi, hanno definito con più precisione il rapporto fra eventi esterni e processi interni mettendo in luce, l’influenza della relazione con gli oggetti nel determinismo del trauma e nella sua organizzazione temporale. E lo fa con una chiarezza e padronanza assoluta delle teorie e dei percorsi evolutivi dei concetti psicoanalitici che permettono al lettore di sentirsi accompagnato attraverso l’intero spettro dei concetti della tradizione e delle sue evoluzioni contemporanee.

Il potenziale patogeno di una esperienza traumatica infantile risiede dunque, più che nell’abuso sessuale, nella esposizione del bambino alla patologia caratteriale dei genitori e nella sua impossibilità di sfuggire alla” introiezione dell’aggressore”, alla assimilazione nella propria struttura della incapacità di modulare gli affetti presente nelle cure genitoriali. La precondizione per una simile identificazione è la scissione della propria esperienza viscerale, sensoriale ed emotiva corrente e l’assunzione nel proprio inconscio delle logiche implicite che governano il legame affettivo. Per conservare il legame con i genitori e proteggersi dal rischio di una ritraumatizzazione il bambino opera un drammatico adattamento precoce imperniato sulla inversione dei ruoli di accudimento, diventando un “bambino saggio” e lasciando silente la propria memoria emotiva dell’esperienza. Così anche se in seguito è in grado di ricordare, in qualche modo, le esperienze traumatiche, resta per sempre tormentato dal dubbio circa la loro realtà e in generale da dubbi sulla realtà delle proprie esperienze correnti. E’ reale la propria percezione delle carenze ambientali? Legittima la propria espressione affettiva? O intrinsecamente sovraccaricante, cattiva, pazza e per questo nociva per il legame di attaccamento? Autori come la Aulagnier, Green, Faimberg, ampiamente illustrati nel libro, ai quali aggiungerei anche S. Freiberg, hanno dimostrato che l’esito di questa identificazione con le risposte traumatizzanti dell’oggetto è una deviazione verso un’esperienza psichica paradossale: le risposte assunte dentro di sé attraverso l’identificazione appartengono al sé e contemporaneamente lo alienano (Green, 1985; Faimberg, 1993). Nel soggetto che ha patito traumi infantili si instaura una sorta di divisione interna fra la sorgente della propria vita pulsionale e affettiva e la coazione automatica e incoercibile a conformarsi alla realtà psichica degli altri. Una soluzione psichica volta alla salvaguardia del legame ma che produce una relazione disarmonica fra due esperienze di sé che riflette l’azione di identificazioni non integrate e spesso operanti simultaneamente: una, poco strutturata e scissa, relativa alle rappresentazioni di un nucleo primario affettivo del sé, a origine diretta dalle sensazioni del corpo, le fantasie relative e dagli affetti segnale, che trova voce solo in occasionali manifestazioni di rabbia, l’altra che riflette le sue identificazioni con le strategie difensive e le risposte dei suoi genitori alla sua espressività, costitutiva del suo falso Sé compiacente. Momentanee ma spaventose sensazioni di irrealtà e di depersonalizzazione, espressione di un’attività difensiva con caratteristiche evacuative, compaiono ogni volta che le vicende della vita, compreso il lavoro analitico, facilitano l’integrazione di spinte corporee, moventi, ed emozioni minacciose per importanti identificazioni, che per quanto esautoranti, hanno il vantaggio di garantire il legame interno con l’oggetto interiorizzato (Winnicott, 1965; Tagliacozzo, 1989).

La lettura del libro mi ha stimolato a riprendere in considerazione il tema della eterogeneità delle memorie implicate nel trauma, alla luce delle prime anticipazioni di Freud e dei contributi attuali delle neuroscienze. Come è noto con la nozione di nachtraglichkeit Freud proponeva la continua rielaborazione dei ricordi. Una concezione costruttivista della memoria che anticipava, come detto, molte delle scoperte neuroscientifiche contemporanee. E sebbene con la sua nozione di agieren avesse affermato che i contenuti ideativi rimossi potessero riprodursi sia in campo psichico, attraverso il ricordo, sia in azione come una forza che agiva nel presente, nel transfert, come una spinta irriducibile a rappresentare attraverso un’azione drammatica, nello stesso lavoro del ‘14 riferendosi alla molteplicità dei formati mnestici di quanto era dimenticato, egli prendeva in considerazione anche contenuti psichici non rimossi, “nuove impressioni” che avrebbero potuto essere registrate ma che essendo state rigettate non avevano acquisito una rappresentanza ideativa e avevano potuto lasciare una traccia soltanto nell’Es.

 “…accade assai spesso che venga “ricordato” qualcosa che non ha mai potuto essere dimenticato, per il semplice fatto che non è mai stato notato, che non è mai stato cosciente. Agli effetti del decorso psichico sembra inoltre del tutto indifferente che una tale connessione sia stata cosciente e poi sia stata obliata, o che essa non sia mai pervenuta alla coscienza. La consapevolezza che il malato raggiunge nel corso dell'analisi è del tutto indipendente da una tale forma della rievocazione. (Freud, 1914).

 

Oggi sappiamo che il recupero dei ricordi è più complesso e difficile alla luce delle scoperte attuali sulla memoria come un insieme di sistemi mnestici differenti che maturano a partire dalla prima infanzia secondo formati impliciti e preverbali e sulle vie attraverso le quali le esperienze traumatiche sia massive che cumulative si ri-presentano successivamente. Si tratta di memorie emotive più che di ricordi di una emozione in un determinato contesto e tempo storico, relative alla relazione primaria con l’oggetto e soprattutto alle regole inconsce della modulazione affettiva che guidano tali relazioni (il conosciuto non pensato di Bollas, le memorie identificatorie di Loewald). Livelli della rappresentazione iconica non verbale che trovano una via di espressione nella ripetizione attraverso il comportamento, l’allucinatorio, costituiscono parte del materiale dei sogni e sono riprodotti nelle risonanze dell’identificazione proiettiva, nel transfert e nell’enactment.

 

Le caratteristiche disorganizzanti e astoriche della ripetizione traumatica hanno delle immediate conseguenze per quanto riguarda la tecnica e la teoria dell’azione terapeutica. I soggetti traumatizzati infatti vivono di continuo nella aspettativa preriflessiva di una ripetizione traumatica per loro intrasformabile date le carenze primarie dell’oggetto trasformativo e del successivo diniego del trauma. Come se fossero sprovvisti di una fantasia dell’oggetto buono essi strutturano una organizzazione difensiva patologica contro il ri-presentarsi dell’angoscia pervasiva e frammentante anche se queste difese li condannano ad una esistenza inautentica e disumanizzante (si vedano ad esempio i concetti di progressione traumatica di Ferenczi e le organizzazioni narcisistiche di Rosenfeld). L’atteggiamento ipervigile e distaccato che essi mantengono in seduta, la difficoltà di accedere alle regole del metodo psicoanalitico non esprimono quindi una resistenza contro il rimembrare, contro il ricordo di contenuti psichici rimossi ma piuttosto una difesa contro la ripetizione di un transfert traumatico.

 

E dunque come è possibile nella situazione psicoanalitica riuscire a storicizzare il trauma, passare dalla ripetizione in azione alla ripetizione in campo psichico, trasformare cioè quanto si presenza come eccedenza impensabile, in un riconoscimento doloroso del trauma passato, attraverso le costruzioni e le ricostruzioni della funzione analitica? Sappiamo che la ripetizione nel transfert di una relazione con l’oggetto traumatico è un passaggio obbligato nel processo analitico e che un fattore determinante della cura è che la coppia analitica ne esca con un senso nuovo, una nuova relazione con l’oggetto (Loewald), ma a quali riferimenti può rifarsi l’analista per mantenersi vivo, mantenersi sveglio (Winnicott) nel mentre è attraversato dalla pressione transferale del paziente?

 La riflessione di Marina Breccia poggia su tre concetti che illustra ampiamente attraverso un articolato materiale clinico e attraverso una serie di rimandi teorici ad alcuni costrutti freudiani e di autori successivi.

 

Possedere il trauma

Coprifuoco narcisistico

Posizione parallela dell’analista rispetto alla ripetizione del trauma nel transfert

 

 

Possedere il trauma

 

Come è noto nella cura dei pazienti difficili è raccomandato all’analista un continuo lavoro sul controtransfert, una sorta di auto-reverie di quanto nella dinamica transfert-controtransfert è alla ricerca di una possibilità di pensiero, l’esercizio di una disciplina utile a rinforzare la presenza e l’attenzione in seduta. Un altro fattore importante della cura è, a mio avviso, la consapevolezza dell’analista della bipolarità del transfert, il fatto cioè che sebbene il paziente investa l’analista secondo le immagini e i vissuti di un transfert negativo cionondimeno è sempre presente sullo sfondo e in alternanza con il primo, un transfert positivo con valenze evolutive. Inoltre assume valenza terapeutica anche la capacità dell’analista di attribuire un significato più complesso alla coazione a ripetere, sottraendola almeno in parte alla sua dimensione mortifera per coglierne anche il tentativo di padroneggiare il trauma attraverso la ripetizione.

 

Nel paragrafo intitolato Ricordare, ripetere, non rielaborare, una felice parafrasi del testo freudiano del ’14, M.B. affronta il tema della ripetizione del trauma nella seduta analitica, e propone che la coazione a ripetere funzioni sia come elemento disorganizzante e distruttivo sia come aiuto alla sopravvivenza essendo l’Io minacciato dalla traumatizzazione non solo a causa della eccedenza eccitatoria ma nelle proprie stesse funzioni organizzative e in definitiva nella propria stessa integrità. In questo si discosta dalla concezione classica della coazione a ripetere come espressione della pulsione di morte, presente nella parte metapsicologica di al di là del principio del piacere e si rifà, piuttosto, alla parte clinica di quel saggio del ’20, nel quale, come è noto, Freud descrive le proprie osservazioni sul gioco ripetuto del suo nipotino di allontanamento e recupero del rocchetto che interpreta come un tentativo di dominare l’angoscia di separazione dalla madre. L’immagine teorica di possedere il trauma introdotta da M.B. suggerisce quindi l’idea di un comportamento ripetuto per padroneggiare il trauma, per rivolgere in attivo quanto è stato subito passivamente in una esperienza soverchiante. Ma possiede anche lo scopo di ridurre al minimo le proprie funzioni allo scopo di garantire la sopravvivenza. Il concetto di possedere il trauma quindi è anche una immagine che rimanda al tentativo dell’Io di controinvestire l’aggressione traumatica. Bromberg in proposito ne attribuisce la ragione al tentativo di controllare gli effetti disorganizzanti del trauma attraverso una organizzazione patologica dissociata del sé. Una organizzazione che permette al soggetto traumatizzato di riguadagnare attraverso la ripetizione e la scissione del sé lo stato di analgesia affettiva sperimentato nel trauma originario e di ridurre così il dolore psichico e l’angoscia di frammentazione. Allo stesso tempo il concetto di possedere il trauma rimanda anche al difficile processo operato dall‘analista sull’integrazione di due funzioni: quello di stare sulla voragine del trauma… in posizione parallela rispetto alla ripetizione del trauma nel transfert … senza precipitare… nella ripetizione traumatica , e quella di un tentativo di ricostruzione autobiografica che non ha ancora trovato una possibilità espressiva.”

 

Posizione parallela dell’analista rispetto alla ripetizione del trauma nel transfert

  

In questa difficile posizione analitica di ascolto del paziente, del suo soggiornare con cautela ai bordi del transfert negativo, ora contenendo ora curando l‘investimento di sé stesso e della propria funzione, l’analista è sorretto, dalla funzione di rifocillamento delle proprie teorie, dei propri eroi psicoanalitici, direi, e penserei anche al proprio sentimento di appartenenza al terzo istituzionale.

 

Coprifuoco narcisistico

 

In proposito M.B. introduce l’idea di coprifuoco narcisistico con la quale mette a fuoco appunto gli strumenti teorici e metodologici che rendono possibile la salvaguardia della funzione analizzante, durane la coazione a ripetere, consentendo il superamento delle impasse, e il recupero di una speranza di cambiamento e investimento di nuovi oggetti.

In tal senso l’Autrice fa appunto riferimento alle sue esperienze cliniche e, per dirla con parole sue, a “tutte le fantasie e riflessioni teoriche che avevano per me una funzione di sostegno nei momenti più difficili e che alimentavano la spinta epistemofilica della sublimazione, componente di un piacere compensativo all’attesa e agli elementi sleganti della ripetizioneLa parola infatti in questi casi non è una parola rappresentativa, ma rimane una parola concreta ripetuta e agita nella ripetizione com qualsiasi altro agito. La proposta del coprifuoco narcisistico e dunque quella di ipotizzare, sotto la tettoia delle teorie, uno spazio supplementare di deposito di materiale di ripetizione non elaborato” a cui poter tornare quando più tardi ripartiranno le possibilità fantasmatiche e rappresentative.

 

Non posso qui per ragioni di spazio entrare nel merito del materiale clinico ricco di stimolanti considerazioni che illuminano la mente dell’analista al lavoro, di scambi clinici autentici e di passaggi toccanti ma spero non manchi l’occasione per tornarci su.

 

 Lavoro presentato in occasione dell’evento intercentri CdPR – CPdR, “I nostri libri” a cura di Giuliana Rocchetti e Cristina Sarno. 17 settembre 2022

 

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