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Barnà C.A. - “Borderline”: Un modello per i Servizi (2009)

I borderline: modelli psicoanalitici e contesti di trattamento

8-9 maggio 2009

 

                                                 “Con ogni paziente, indipendentemente dalla      sua patologia, ritengo che il mio silenzio costituisca lo strumento terapeutico  più sicuro ed efficace, e questo mi è stato dimostrato nel lavoro   con i borderline.” (Searles H. F. 1986)

Borderline”: Un modello per i Servizi.

C. A. Barnà

L’emergenza del fenomeno “borderline”, identificato già da tempo come categoria nosografica (Stern 1938), si è progressivamente imposta negli anni a molti vertici di osservazione, trattandosi in realtà di un fenomeno sociale e culturale non meno che psico-biologico e clinico (Bauman 2002, Di Chiara 1999, Furlan 1978, Siever 1984).

In quest’ultimo ambito comunque esso ha conquistato significativamente l’attenzione e il confronto tra ricercatori e operatori, ciò che è stato supportato anche da un movimento di chiarimento etiopatogenetico e dai dati della ricerca empirica in psicoterapia (Wallerstein, 1986).

Il problema dello statuto diagnostico della personalità borderline e del suo trattamento sono infatti profondamente collegati all’evoluzione delle teorie e della tecnica in psicoterapia. Le difficoltà specifiche che tali pazienti ponevano nel corso del trattamento hanno infatti significativamente messo in crisi l’efficacia della tecnica psicoanalitica classica ed hanno favorito la ricerca di approcci alternativi.

L’approfondimento diagnostico, fenomenologico, psicopatologico e psicodinamico a cui tanti autori si sono generosamente applicati, ha quindi progressivamente ed inevitabilmente problematizzato la modellistica relativa al trattamento di questi pazienti che mettono alla prova la clinica psicoterapeutica quanto la presa in carico da parte dei Servizi di Salute Mentale (Rosse 1890, Zilboorg 1941, Deutsch 1942, Knight 1953, Kernberg 1967, 1968, Kohut 1971).

In questa area la profondità dell’investigazione psicoanalitica, rappresentata soprattutto dai resoconti single cases, e la precisione della ricerca clinica empirica, impegnata nei parametri della verificabilità e della validità della diagnosi su estesi campioni di soggetti, si sono più volte incontrate e a volte scontrate (Michaels 1986, Maffei 1993).

Nella sezione di stamani del nostro Convegno vorrei proporre alla vostra valutazione, con l’aiuto di Giuseppe Corlito, coordinatore del D.S.M. della Azienda Unità Sanitaria Locale di Grosseto, e di altri Colleghi che ne fanno parte, le linee dell’attività di un gruppo di lavoro di quel Dipartimento, riunitosi ormai oltre dieci anni fa come gruppo di supervisione e che si è trasformato nel tempo in tavolo di lavoro, di programmazione, di regia e di valutazione della gestione dei casi borderline in carico al Servizio.

Nell’occasione voglio anche mettervi a parte della mia lunga amicizia con Beppe che dura ormai dalla metà circa degli anni ottanta, epoca in cui ci siamo ritrovati a collaborare in una supervisione che tenni al Servizio di Salute Mentale di Arezzo, che egli ha voluto ed organizzato.

Quell’esperienza è durata alcuni anni ed ha prodotto tra l’altro un volume edito nel 1988 dall’ ETS di Pisa dal titolo: “La psicoterapia nel servizio di salute mentale” (Martini, Corlito 1988).

In quel volume riferivamo già del tentativo di valutazione, attraverso il “differenziale semantico”, di un’esperienza di psicoterapia avviata nel Dipartimento di Arezzo con l’ausilio  della supervisione (Osgood, Suci, Tannembaum 1957).

La nostra collaborazione si è poi trasferita, negli anni novanta, a Grosseto dove Beppe è stato frattanto chiamato e dove è iniziata ed è in corso l’esperienza della quale vi riferiremo.

  Dopo anni di rodaggio e di perfezionamento del gruppo di supervisione abbiamo ritenuto opportuno mettere il metodo da noi prodotto, e l’abitudine al confronto e all’approfondimento del gruppo, a disposizione del fenomeno emergente, ma anche sempre piuttosto complesso e difficile, della presa in carico e del trattamento dei pazienti borderline: insomma dell’”affaire borderline” come è anche stato definito (Maffei 1993).

Molti membri del gruppo, come dicevo, sono oggi presenti qua con noi ed in realtà  vorrei riferire della nostra esperienza in termini corali.

Ci auguriamo di riuscire a farlo in termini sintetici e soprattutto chiari sperando che le nostre riflessioni non deludano le vostre aspettative, ma si rivelino capaci di suscitare il vostro interesse e di animare un utile dibattito.

Facciamo dunque riferimento all’esperienza di un gruppo di operatori quotidianamente impegnati nei vari servizi del D.S.M. di Grosseto che accoglie le problematiche della salute mentale di adulti e bambini di un territorio piuttosto vasto e differenziato nelle sue caratteristiche ambientali, socio-economiche e culturali e che partecipano ad una riunione mensile di supervisione da me condotta.

La nostra esperienza si è progressivamente interessata ai casi in trattamento presso i diversi servizi del dipartimento, alla migliore comprensione di essi, all’impostazione della presa in carico e della relazione terapeutica, alla verifica delle gestioni ma anche alla ricerca e alla formulazione di un modello d’intervento che fosse informato alle risultanze più attuali della ricerca e che procedesse nel senso di una integrazione operativa oltre che delle conoscenze.

Nel corso della supervisione abbiamo di volta in volta consultato e condiviso molti testi di riferimento e soprattutto abbiamo preso visione degli studi, delle ricerche e dei tentativi successivi di precisazione diagnostica dei casi presi in considerazione e di valutazione longitudinale dei trattamenti psicoterapeutici sia nei servizi che privatamente (Bucci 1997, Conte, Dazzi 1988, Dazzi, Lingiardi, Colli 2006, Fava, Masserini 2002, Luborsky e Spence 1978, Karasu 1986, McGlashan 1986, Stone 1990).

Nel tempo ci siamo concentrati sulla patologia borderline per le difficoltà specifiche di presa in carico e di gestione che essa propone sia nella clinica psicoterapeutica privata che nei servizi territoriali per la salute mentale (Correale 1991, Maffei 1993, 2008).

Ritengo infatti che i casi più gravi di questo ambito, che non accedono o interrompono i trattamenti psicoterapeutici privati, si rivolgano prima o poi agli operatori dei servizi sottoponendoli ad un difficile compito terapeutico.

Penso perciò che la comprensione, la ricerca e l’esperienza psicoanalitica sulla specificità di questa popolazione clinica, ma anche sulla continuità e/o le differenze con altri quadri psicopatologici, possa utilmente confrontarsi, ed eventualmente integrarsi, con le esperienze e le comprensioni dei colleghi impegnati nel lavoro territoriale (Waldinger e Frank 1989, Jones 2000).

Questa è sempre stata la mia impressione, ma anche la linea seguita in tanti anni di esperienza come supervisore nei servizi. Ritengo infatti che la discussione e l’approfondimento siano particolarmente preziosi a riguardo delle fenomenologie che si riferiscono ai pazienti portatori , a vari livelli di gravità e/o di co-morbilità, di un disturbo borderline di personalità.

Riteniamo anche particolarmente prezioso, a proposito, il contributo critico che può venire alla nostra ricerca dall’esperienza e dalla riflessione dei partecipanti al convegno che vorrei perciò caldamente sollecitare ad intervenire con le loro impressioni.

Per conto mio vorrei aggiungere solo alcune notazioni, volte a giustificare l’orientamento del nostro lavoro, prima di cedere la parola a Beppe, che illustrerà in dettaglio la nostra ricerca coadiuvato appunto da altri colleghi del gruppo di Grosseto che intanto ringrazio per la loro partecipazione.

Mi rifarei da subito, doverosamente, alle considerazioni ancora attuali espresse da Gaddini nel lontano ‘84, nella nostra Rivista di Psicoanalisi che, riprendendo quelle precedenti di Leo Rangell in un articolo dell’International del ‘75, sottolineava, in linea con molti autori successivi, il continuo cambiamento della psicopatologia individuale così come dell’epidemiologia della malattia mentale in una stessa società, nel tempo: “Non essendo –queste le sue parole- l’individuo il risultato automatico della sua combinazione genetica, ma del suo sviluppo, quindi della sua interazione con l’ambiente in cui nasce e cresce” (Gaddini 1984, Rangell 1975).

Espressioni che riprenderei per confermarle e per testimoniare a mia volta, come psicoanalista e come consulente dei servizi, il progressivo cambiamento dei nostri pazienti e le sfide nuove e preziose che ciò ha comportato per l’evoluzione della nostra competenza, ma anche della nostra scienza e dei suoi paradigmi a confronto con la ricerca neuro-psicologica in generale.

In riferimento a ciò possiamo dire che la teoria del trattamento psicoanalitico ha prodotto, negli anni, soprattutto uno sviluppo significativo dei concetti fondamentali di interpretazione e di introspezione fino a constatarne tutte le potenzialità, ma anche tutti i limiti, ed è oggi alla ricerca di comprensioni ulteriori relative alla ricchezza ma anche alla complessità relazionale, interpersonale ed intersoggettiva del contesto psicoterapeutico e/o terapeutico in genere.

In questo senso ricorderei, in termini storici, soprattutto il contributo che Sandor Ferenczi ha dato alla costruzione di una teoria del trauma e alla comprensione del fenomeno della dissociazione, proponendo nella sua metafora della frammentazione il sistema dei significati residuali legati alle relazioni di accudimento traumatico a completamento della teoria pulsionale di Freud (Ferenczi 1909-32, 1932).

In specifico, siamo poi debitori dell’opera di inquadramento strutturale operata da Kernberg a riguardo della personalità borderline, definita precisamente nella sua entità di organizzazione patologica specifica e stabile. Anche se, nel fare questo, egli sarebbe ricorso ad un “assemblaggio di teorie differenti” che ha comportato alcune critiche alla sua concezione, soprattutto relative all’insistenza sulla scissione quale meccanismo difensivo centrale della patologia borderline (Kernberg 1967, 1968, Maffei 1993).

Così come ci sentiamo debitori della ricerca di Kohut relativa alle problematiche narcisistiche irrisolte dei pazienti borderline e alle concezioni di quegli autori che hanno specificato l’aspetto carenziale del disturbo borderline: la problematica cioè dell’arresto evolutivo presente all’origine delle difficoltà integrative di tali pazienti (Kohut 1971, Modell 1976, Storolow e Lachman 1980, Storolow, Brandchaft e Atwood 1987).

Accennerei anche alle interessanti notazioni di John Gunderson, riprese da Maffei, che fondano il funzionamento borderline su un’irrisolta vicenda transizionale con gli oggetti primari (primary objet). Sarebbero proprio le vicissitudini con questi a determinare l’assetto psicopatologico e un funzionamento per “livelli”: in presenza dell’oggetto primario  apparirebbe una modica depressione, laddove in presenza dell’oggetto primario frustrante comparirebbero la rabbia e la tendenza all’agito; infine, al livello più basso, cioè nella condizione di abbandono da parte dell’oggetto primario, comparirebbe la psicosi transitoria o l’aggravamento della tendenza ad agire (Gunderson 1984, 1987, Maffei 1993).

Mi riferirei però esemplarmente soprattutto ad alcune riflesioni di Searles che possiamo certamente considerare un pioniere dello studio e del trattamento del “paziente borderline” al quale è intitolato un suo volume omonimo (Sarles H.F. 1986).

Ebbene, dopo aver notato, nella prefazione del suo scritto, la presenza di elementi  borderline in qualsiasi psicoanalisi del profondo o in qualsiasi terapia psicoanaltica intensiva, “poichè questi fenomeni sono parte della condizione umana”, preciserà, fin dal primo capitolo, come con il paziente borderline: “Le interpretazioni sono indubbiamente importanti, ma ancora più importante è l’atmosfera (o clima emotivo) delle sedute, giorno dopo giorno, anno dopo anno”.

Subito dopo aggiunge:“ Sono giunto a considerare un raro caso di gratificazione professionale quando un paziente arriva a scoprire, poco alla volta, per conto suo e non ostacolato da me, qualche aspetto importante del funzionamento del suo Io che mi era chiaro e che mi era sembrato tante volte vicino a essere interpretabile, per mesi e, in molte situazioni, per anni” (Searles H. F. 1986).

Precedendo ricorderei che proprio Searles ha precisato l’ineluttabilità e la necessità che con questi pazienti si sviluppi una “psicosi borderline di traslazione” e come ciò comporti inevitabilmente e drammaticamente lo sviluppo nel terapeuta di sentimenti intensi e complessi come risposta alla suddetta psicosi di transfert.

A tal proposito egli scrive: “credo che tutti noi… con il passare degli anni, giungeremo a spaventarci sempre meno, nel nostro lavoro, a intraprenderlo e proseguirlo come un bel lavoro, che può essere coronato da un certo successo se sapremo valutare, onestamente e senza vergognarci, i sentimenti che, presumibilmente, sperimenteremo nel trattamento di questi pazienti” .

Quindi precisa: “Sicuramente il novanta per cento del tempo della maggior parte degli analisti, con la maggior parte dei pazienti, trascorre nel silenzio dell’analista, e nel lavoro con molti pazienti borderline il novantotto o novananove per cento del tempo vede l’instaurarsi del solo rapporto non verbale” (Searles H.F. 1986).

Subito dopo sottolinea che: “Sebbene le interpretazioni abbiano un ruolo significativo nel lavoro dell’analista, con il paziente borderline tale ruolo è relativamente minore di quello rivestito dalla partecipazione non verbale. Il livello di integrazione e di differenziazione dell’Io del paziente è tale che egli non ha ancora sviluppato una immagine interiorizzata di sé stesso, o dell’analista, o di entrambi. Fino al momento, nella terapia, in cui il funzionamento del suo Io non ha acquisito un certo grado di maturazione, la sua capacità di utilizzare le interpretazioni verbali è molto limitata” (Searles H.F. 1986).

E più precisamente: “L’adulto borderline, all’inizio della terapia psicoanalitica, mostra di non essere ancora arrivato a percepirere sé stesso come un individuo singolo e completo, in grado di mettersi in relazione con il terapeuta come un altro individuo sostanzialmente simile a lui” (Searles H.F. 1986).

L’analista –quindi- tace in infiniti modi che sono in realtà (cioè al di là delle percezioni di traslazione del paziente) sottilmente differenti. Per esempio, egli può scegliere silenziosamente di posticipare un’interpretazione verbale di qualche area di conflitto da poco scoperta, ma è probabile che il suo atteggiamento non verbale si modifichi in un modo che aiuta il paziente, attraverso un reciproco scambio di segnali non verbali, a diventare capace di utilizzare, alla fine, le interpretazioni verbali” (Searles H.F. 1986).

Essendo anche vero, dall’altro lato che: “Una delle ragioni fondamentali della persistente difficoltà incontrata dal paziente borderline nel distinguere tra l’immagine di traslazione interna (psichica) che ha del terapeuta, da un lato, e il terapeuta stesso, dall’altro, risiede nel fatto che le sue reazioni e i suoi atteggiamenti di traslazione hanno un effetto così potente, nel corso della terapia, da modellare le sensazioni e il comportamento del terapeuta, in conformità con le immagini di traslazione che emergono durante le sedute. Questo impatto di traslazione, fondamentalmente allucinatorio, è così efficace che il terapeuta stesso ha grandi difficoltà a percepire l’elemento della traslazione come differenziato dalla realtà del suo abituale senso d’identità” (Searles H.F. 1986).

E’ quindi necessario che il terapeuta sia in grado di sopportare ciò a lungo prima che si sviluppi quella che Searles chiama “simbiosi terapeutica”. A ciò mira sostanzialmente l’ascolto silenzioso: un ascolto disponibile al massimo grado verso le “comunicazioni  inconsce” quelle del paziente e le proprie.

Prima dell’istaurarsi di una valida “simbiosi terapeutica” l’utilizzazione delle interpretazioni verbali, per quanto preciso possa essere il contenuto, avrebbe spesso l’effetto di una temporanea rottura della relazione simbiotica che si è sviluppata, con la conseguenza di posporne l’instaurazione.

Troppo spesso, cioè, l’analista, nel formulare un’interpretazione verbale all’apparenza molto intelligente e acuta, in realtà sta dando al paziente una risposta difensiva prevalentemente inconscia, costretto dal bisogno inconscio di dimostrare a se stesso di non aver perso la propra individualità, di dimostrare che lui e il paziente non sono completamente una cosa sola” (Searles H.F. 1986).

Ricorderò, per inciso, che lo stesso Kernberg, pur differenziandosi la sua prospezione di molto da quella di Searles, insiste sugli stessi concetti a proposito del problema della neutralità dell’analista e della compulsione all’interpretazione (Kernberg 1976).

Oggi, parecchi anni dopo queste osservazioni, ci troviamo, per molti aspetti, ancora una volta in un momento nel quale è importante ampliare ulteriormente e significativamente la comprensione della sofferenza mentale nelle forme emergenti nella quale essa si declina e giunge alla nostra osservazione e contestualmente rivedere e/o aggiornare la teoria della tecnica e del processo terapeutico (Jones 2000).

Gabbard e Westen in un loro articolo sintetizzano il dibattito a proposito, fissando tre punti: 1) la fragilità di una contrapposizione dicotomica fra i fattori terapeutici dell’interpretazione e della relazione e la consapevolezza dell’esistenza di molteplici modalità di azione terapeutica. 2) Lo spostamento dell’interesse dalla ricostruzione della storia personale del p. alla interazione con il terapeuta. 3) L’importanza della negoziazione dell’atmosfera terapeutica (Gabbard, Westen 2003).

Fra parentesi vorrei ricordare con un certo orgoglio che  già nel 1990, in un lavoro per la Rivista di Psicoanalisi, mi trovai a scrivere, proprio a proposito della relazione analitica, della necessità di una “elaborazione negoziale” con i nostri pazienti. Ricordo di aver usato precisamente questo termine (Barnà 1990).

Attualmente gli interpersonalisti considerano la “validazione consensuale” fornita dall’analista come una versione concordata e negoziata della verità che risulta utile al paziente: non è contraddetta da altri dati e favorisce le esperienze nuove e la crescita personale (Sullivan 1953, Mitchell 1997).

Jacobs ha introdotto il concetto di “countertransference enactment” definendo l’enactement come l’effetto inevitabile dell’unicità e della personalità del terapeuta sul paziente. Ad esse piuttosto che alla sua tecnica sarebbe legato primariamente il lavoro terapeutico.

Il trattamento implicherebbe ineluttabilmente azioni interattive verbali e non, e gesti relazionali dal significato complesso. Anche il silenzio, l’immobilità, l’astinenza possono costituire degli enactements (Jacobs 1991, 1996).

Per Bromberg quindi l’enactment assumerebbe, per quanto riguarda il processo psicoterapeutico, la stessa importanza che la dissociazione ricopre nel suo modello della mente e della psicopatologia (Chefettz, Bromberg, 2004).

Crescere in contesti traumatici comporta lo sviluppo di un funzionamento mentale in cui alcuni aspetti del proprio passato sono memorizzati in modo dissociato rispetto alla funzione di rappresentazione simbolica: la propria storia non può essere ricordata, ma può essere riprodotta nella relazione interpersonale.

Pertanto l’unico modo con cui il paziente può comunicare il proprio mondo interiore allo psicoterapeuta è attraverso le emozioni e i sentimenti che evoca in lui, e che lo psicoterapeuta tende a percepire anche attraverso il corpo (Bromberg 1998/2001).

Del tutto recentemene Beebe e Lachmann (2002) hanno fatto notare come nel trattamento psicoterapeutico, le  aspettative che regolano i rapporti intimi possono riorganizzarsi in forma implicita senza necessariamente diventare consapevoli.

Lyons-Ruth et al. (1998) a loro volta precisano che solo una piccola area della conoscenza implicita del paziente diventa oggetto delle narrative verbali o delle interpretazioni.

Le neuroscienze dal canto loro concordano nell’affermare che le rappresentazioni interne delle relazioni interpersonali che gli esseri umani vivono nell’ambiente esterno hanno la fondamentale funzione intrapsichica di “regolatori biologici” che controllano i processi fisiologici (Schore A. N. 2008).

In particolare la ricerca relativa ai neuroni specchio teorizza un meccanismo di simulazione incorporata alla base delle transazioni intersoggettive (Gallese 2003).

Alcuni autori propongono infine di integrare all’interno dei protocolli comprensivi del funzionamento della psicoterapia, alcune evidenze relative alla meditazione e alla neurobiologia interpersonale che renderebbero ragione del beneficio legato alla sintonizzazione tra terapeuta e paziente e alla particolare risonanza emozionale che ciò produce, come condizione capace di riproporre i benefici e la resilienza propri dell’attaccamento sicuro (Germer, Siegel, Fulton 2005, Siegel 2007, Bateman, Fonagy 2006).

Sono affermazioni intriganti che aggiornano e problematizzano appunto la prospezione relativa al trattamento dei nostri pazienti, al pieno riconoscimento del contributo reciproco e del reciproco funzionamento della coppia analitica nella co-determinazione degli eventi della stanza d’analisi e alla potenziale ulteriore integrazione dei e tra i modelli.

Affermazioni che comunque si distinguono abbastanza direi dalle discutibili derive intersoggettive presenti nella più recente visione di alcuni autori (Renik 2007).

Insomma, vorrei concludere con la notazione che la ricerca continua e i paradigmi si confrontano e si complicano; ed anche la nostra esperienza individuale e collettiva si arricchisce. Mi auguro sinceramente che nel prosieguo ci si possa riconoscere sempre più come un grande gruppo di ricerca intento ad accumulare e ad integrare le nostre esperienze, le osservazioni ma anche, potenzialmente, i differenti vertici di osservazione.

E’ con questo spirito che cedo senz’altro la parola a Giuseppe Corlito e al gruppo di Grosseto.

Pubblicato in C.A.Barnà, G.Corlito, Emergenze borderline. Istituzione, gruppo, comunità. Angeli Ed., Milano, 2011.

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