Giovedì, Maggio 09, 2024

Andrea Pomplun (a cura di), Ancora oggi, parlare di Auschwitz? Riflessioni sul significato attuale della Shoah in un’ottica interdisciplinare. FrancoAngeli, Milano, 2022. Invito alla lettura di Giuliana Rocchetti

Andrea Pomplun, giornalista, docente al Goethe Institut di Roma e alla LUMSA, cura questo volume collettaneo di grande interesse, per la multi- e interdisciplinarietà, la qualità dei saggi proposti e la levatura degli Autori. Ma quella che a mio avviso ne è la qualità precipua, che conferisce all’insieme uno sguardo di rara ampiezza e profondità, è la capacità di offrire al lettore il rigore del pensiero e della documentazione (storica, giuridica, scientifica) e insieme la pregnanza emotiva della testimonianza.
Penso a questo proposito ad un recentissimo scritto di Anna Foa (Vita e Pensiero, 6, 2022), nel quale l’Autrice, a partire dal quesito di cosa ne sarà della memoria dopo la morte degli ultimi testimoni, della cui funzione riconosce certo appieno il significato, rivendica in qualche modo il ruolo della storia: «Ma il terreno principale su cui coloro che sono intenzionati a mantenere e a costruire la memoria della Shoah devono muoversi è, credo, quello della storia […]. La catarsi è importante, ma quando non ci saranno più persone in carne ed ossa a consentirci di esercitarla, sarà forse necessario […] tornare alla storia» (cit., p.119).
Ecco, direi che il libro che vi invito a leggere mostri come la testimonianza, orale e scritta, possa avere non solo o non tanto un valore catartico, quanto piuttosto divenire essa stessa un documento storico – certo insieme ai tanti, numerosi altri di cui la storia dispone e che devono essere utilizzati – con la sua specificità di documento vivo, vibrante e perciò stesso anche in qualche modo creativo: è da una testimonianza che nasce il progetto di questo volume.

Fanno infatti da cornice al libro la Shoah, in particolare l’arresto a Roma e la deportazione della famiglia Terracina, con l’intenso primo capitolo firmato – come l’Introduzione – da Andrea Pomplun, e il discorso tenuto in Senato nel 2015 da Piero Terracina.
Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, nel riconoscere l’importanza di questo Testimone, ci ricorda che per comprendere la Shoah è necessario immaginare questa storia moltiplicata per milioni di altre.

La domanda centrale che il libro ci pone e che lo ispira è quella anticipata dal titolo:
Auschwitz ci riguarda ancora?
Domanda complessa, come ci avverte la Curatrice, che ci propone le risposte di autorevoli psicoanalisti, giuristi, filosofi, storici, teologi, giornalisti – italiani e tedeschi – che danno vita al volume.

Il lavoro di apertura, originato da un’intervista dell’Autrice a Piero Terracina, ci mostra direi dal vivo quel percorso da Sopravvissuto a Testimone, di cui Antonella Ottai pure ci parlerà nel suo contributo, partendo dalla sua ricerca – o ritrovamento? – di una storia personale e familiare che la porterà a ri-conoscere ciò che veniva taciuto: «Quella mia nascita, caduta felicemente nel giugno del ’44, sarà stata anche simbolicamente rilevante, ma possedeva un’anagrafe imperfetta, e quella storia taciuta mi era più vicina di quanto non sapessi» (p.35). Il divenire Testimone, ci dice Pomplun, necessita dell’assunzione del «difficile compito di tradurre in parole il ricordo dell’indicibile» (p.9). E Piero Terracina lo fa: l’arresto della famiglia, a Pesach del 1944, solo due mesi prima della liberazione di Roma, e la deportazione ad Auschwitz, quando Piero ha 15 anni e sarà l’unico sopravvissuto. Senza mai indulgere in particolari, senza voler toccare e far vivere a chi ascolta l’orrore, egli riesce a dirci come anche il dolore, in quelle circostanze, potesse restare pietrificato. Direi, pensando a Bion, come potesse divenire impossibile soffrire il dolore, tale era l’enormità dell’orrore.
E forse questo orrore/dolore che non ha potuto essere sofferto, rimasto dissociato, è ciò che – ci dice nel suo saggio Luigi Solano, Psicoanalista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana – diviene qualcosa che si inscrive nel nostro corpomente, che può sostenere sofferenze psichiche o somatiche, o venire tramandato alle generazioni successive e prendere in loro le forme della sofferenza, se non incontra una possibilità di simbolizzazione, verbale o non verbale. Solano, citando il Freud (1927) del ‘disconoscimento’ (Verleugnung) ci ricorda il rischio di poter parlare di Shoah riconoscendola sì come evento storico, ma disconoscendone le implicazioni più profonde: «Per questo è necessario continuare a parlarne, e in termini non solo cognitivi. Per questo è necessario scriverne, non solo privatamente» (p.64, corsivi dell’Autore).
Barbara De Rosa, Professoressa Associata di Psicologia dinamica, vede nel nostro rapporto con la Shoah «un compito inevaso di Kulturarbeit» intendendo con Freud il processo di accrescimento e conoscenza continui della realtà esterna ed interna. E ci propone l’importanza di confrontarci con le nostre potenzialità distruttive, come pure con quelle di resistenza alle esperienze estreme di un umano che, ci dice citando Hanna Arendt (1973), «così com’è, si oppone al processo totalitario» (p.73) dunque a quell’«esperimento onnipotente di trasformazione della natura umana» (p.73), di cancellazione della differenza, delle identità, che fu la Shoah. È importante, sottolinea l’Autrice, riconoscere che ciò è sia delle vittime che dei carnefici, cosicché una vera Kulturarbeit richiederebbe «l’assunzione di ciò che attenta l’umanità come parte integrante di essa» (p.78).
Il lavoro necessario e difficile di giungere a riconoscerci in quanto umani anche nei carnefici, ritorna in vari lavori del libro, e le parole dello stesso Piero Terracina ne sono un saggio: «Non solo le guardie e gli assassini erano inumani, ma noi pure, i prigionieri» (p.30).
Ariel Di Porto, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Torino, ci ricorda anch’egli che vittime e carnefici erano esseri umani, lancia il suo monito riguardo alla disumanizzazione e al razzismo, alla possibilità che possano essere sempre in agguato i meccanismi di uscita dalla «cerchia di persone legate tra di loro da obblighi di reciproca protezione» (p.109, corsivo dell’Autore).
Heiner Bielenfeld, docente di diritti umani e politica dei diritti umani, ci parla della Transnistria e conclude su Auschwitz, sull’importanza della memoria che «insegna non solo di cosa siano capaci gli uomini, ma soprattutto che queste terribili capacità si sono concretamente realizzate» (p.162). Guido Corso ricorda che coloro che hanno perpetrato quei delitti non erano nati mostri ma divenuti mostri da una condizione di normalità; ci riporta al presente, ai nazionalismi prosperanti, ai razzismi, diremmo a “i sommersi e i salvati” di oggi che ci interpellano.
Paola Villani, filosofa del linguaggio, ci offre un ampio lavoro sulla storia e il/i significato/i, gli usi e gli abusi della parola ‘razza’, sulla nascita delle teorie razziste; ci mostra attraverso stralci documentali la diatriba intercorsa all’interno dell’Assemblea Costituente a seguito della proposta – poi non accolta – di non far comparire nella nostra Carta la parola ‘razza’, sostituendola con ‘stirpe’.
Alcuni saggi approfondiscono il tema della responsabilità.
Christoph Safferling, docente di diritto penale, ci ricorda tra l’altro come in occasione dei processi per la Shoah si giunse ad introdurre il reato di “crimine contro l’umanità”, che fino a quel momento potremmo dire non aveva avuto bisogno di essere concepito.
Matthias Kaufmann, filosofo, ci offre un saggio sul concetto di “responsabilità collettiva”, sulle differenze concettuali e giuridiche tra ‘responsabilità’ e ‘imputabilità’. Visita il mito e il pensiero dei filosofi. Afferma che la responsabilità di un popolo rispetto ad un crimine significa accettarne l’eredità storica: trattando con rispetto le vittime, facendo il possibile perché il crimine non si ripeta, assumendo l’obbligo di tramandarne la memoria.
E di memoria trattano diversi lavori del libro.
Francesca Iannelli, docente di Estetica, utilizza il linguaggio di due artisti contemporanei particolarmente significativi: e se talune performances di Marina Abramovic ci parlano di «una tendenza perversa alla ripetizione» (p. 45) che Iannelli vede «conseguenza di un insufficiente lavoro memoriale» (p.47), Anselm Kiefer ci offre il suo personale lavoro sul trauma, rivissuto, intimamente elaborato, infine condiviso attraverso le sue opere a sollecitarne la memoria. E di un viaggio di studenti tedeschi ‘nella memoria’ ad Auschwitz ci parla Hannes Schrader: attraverso il personaggio del giovane Berat, ci mostra la potenza dell’incontro tra memoria e possibili identità.
Gregor Taxacher, teologo cattolico, afferma che con la Shoah ha fine, dal punto di vista teologico, l’epoca dell’Occidente cristiano.
Mi sembra però necessario concludere con alcune parole di Piero Terracina nel suo discorso al Senato della Repubblica del 28 maggio 2015, che chiude il volume: «Tra quello che io guardo oggi in televisione – dalla mia casa – e quello che io ho vissuto e subito più di 70 anni fa, vedo, pur con tutte le differenze del caso, dei punti in comune. E questi sono l’indifferenza della maggioranza e l’incapacità delle Istituzioni di tutelare il più debole. […] È necessario informarsi e soprattutto conoscere, e per conoscere bisogna lasciarsi interpellare, senza reprimere un salutare sentimento di vergogna per un sistema che in qualche modo ci appartiene e dal quale non siamo affatto immunizzati» (p.181 e p.186).
Tristemente e con preoccupazione possiamo dire che sia tutto ancora troppo attuale.

Vedi anche: 

Andrea Pomplun (a cura di), Ancora oggi, parlare di Auschwitz? Riflessioni sul significato attuale della Shoah in un’ottica interdisciplinare. FrancoAngeli, Milano, 2022.

Giornata della memoria: "I bambini e la Shoah" (26 gennaio 2023). Report di Valeria Gubbiotti

 

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