Giovedì, Maggio 09, 2024

Alberto Sonnino, "Trauma della Shoah, ebraismo e Psicoanalisi", FrancoAngeli, 2022. Recensione di Nicoletta Bonanome

Invito alla lettura

Con timore e rispetto mi accingo a presentare il volume di Alberto Sonnino consapevole che, in quanto non ebrea, posso solo attingere alle mie letture e alla mia sensibilità. Cercando di rimanere fedele alle parole di Anna Rossi Doria, (eminente storica attenta ai complessi intrecci tra Storia, Memoria e Identità): “Per rendere la memoria della Shoah qualcosa di universale e non di particolare ci vuole una migliore conoscenza e comprensione del modo in cui gli ebrei la vivono” (2005).

Ritengo che questo volume, raccolta di articoli per la maggior parte datati 2020, abbia proprio a che fare col filo conduttore dell’identità dell’autore, del suo essere ebreo, psicoanalista impegnato anche come testimone di un trauma non elaborabile, unico ma non irripetibile.

Scrive Giorgio Caviglia nella prefazione: “Il lavoro dell’Autore ci porta “in vivo” al centro delle questioni storiche, culturali, individuali che rischiano di rimanere “cristallizzati in un non detto\non pensato”; aggiungerei che tutto nel suo lavoro trasmette e odora di “amore per la verità”.

Mi ha fatto molto riflettere il racconto che Alberto Sonnino fa di sè nell’Introduzione, a proposito delle sue letture sull’ebraismo, segnate da un prima e da un dopo le letture sulla Shoah.

Ricordo una intervista a Vittorio Foa fatta dalla figlia Anna, per la rivista Psiche (2000,2, VIII,97-108): “Per un ebreo della mia generazione…era naturale…considerare un dato acquisito la convivenza e l’integrazione...con le leggi razziali e poi con la Shoah, ci si accorge nel modo più tragico possibile che non era così, avviene il ritorno a una identità forte…vivere in un mondo separato da quello non ebraico.” Con la Shoah è successo qualcosa che non può essere “rimosso”, negato, scisso, ridotto al silenzio e riguarda tutti, riguarda l’umanità intera, seppure in forme e modi diversi. E sempre Vittorio Foa aggiunge “Riconoscere vuol dire ricordare, vuol dire riaffermare l’esistenza di un fatto…Solo ricordando che è avvenuto io posso creare le premesse per accettarlo, per poter vivere nonostante quel fatto. Ecco, questo mi pare il lutto, poter vivere nonostante l’evento”.

Mi sembra di rintracciare nelle parole di Vittorio Foa un uso del “nonostante” come un benché: per non rimanere schiavi del passato, ma anche evitando il rischio di “ridurre la memoria a semplice oggetto di storia” come ci avverte Paul Ricoeur (2003). Queste mie libere associazioni aprirebbero dibattiti ben più complessi e sostanziali oltremodo documentati nella letteratura sulla Shoah, ma mi sembrano anche tessere che si intrecciano e si sviluppano lungo tutto l’iter di questo volume.

Memoria e Storia della Shoah sono presenti come valori di una realtà traumatica che necessita di “riconoscibilità”.

Un’area assolutamente centrale nel volume e molto ben approfondita, nei vari articoli, a partire dal suo opposto: il silenzio. Il silenzio e i silenzi. La congiura del silenzio con i suoi segreti, ma anche la cospirazione del silenzio: Sonnino ci rammenta non solo il lungo silenzio intorno ad Auschwitz, il rifiuto iniziale a pubblicare “Se questo è un uomo” di Primo Levi per esempio, il silenzio dei complici e dei conniventi, le immunità e asili concessi da alcuni Paesi ai responsabili degli eccidi, i veloci processi di “denazificazione”, ma anche, tragicamente, i silenzi delle vittime molto spesso costretti alla colpa dei sopravvissuti.

Questa denuncia dei silenzi e dei segreti tocca anche la psicoanalisi e gli psicoanalisti, coloro che hanno collaborato con il nazismo, ma anche chi ha contribuito a quella forma di cospirazione del silenzio per l’impossibilità di contenere vissuti disumanizzanti. Il non riconoscimento da parte di chi è investito della funzione di ascolto e accoglimento, determina effetti ancor più devastanti e ripetitivi del trauma. Oggi forse è più chiaro a tutti noi, essendo in presenza di traumi inelaborabili, quanto all’analista sia richiesto un lavoro di ricerca e attivazione di ascolto e contenimento interni per un lento “avvicinamento all’area traumatica” e una attenzione a quei particolari, già di per sé indicibili, che se coperti dal silenzio, provocano danni ulteriormente irreparabili.

In vari modi Alberto Sonnino coniuga il delicato lavoro dello psicoanalista, con il lavoro delle comunità civili; cito una fra tutte l’associazione “Ricordiamo insieme” costituita da “figli e nipoti di perseguitati e persecutori (che) cerca coraggiosamente di smontare e di ricostruire in funzione della verità storica”. Si tratta di un lavoro estremamente delicato che riguarda prima di tutto i figli e nipoti delle vittime ma anche i figli e nipoti dei carnefici, dei responsabili diretti di Auschwitz.

È un lavoro necessario per rendere sostenibile la colpa persecutoria prima che, attraverso “meccanismi profondi, come la scissione, il diniego, il ribaltamento al contrario” (e aggiungerei le varie forme di generalizzazione e simmetrizzazioni che spesso causano una sostituzione della realtà esterna con quella psichica,) alimenti fenomeni di antisemitismo anche mascherato o di negazionismo.

Non possiamo infatti non porci delle domande su cosa è accaduto in un paesino in provincia di Livorno, dove due quindicenni hanno preso a calci e pugni un ragazzino urlandogli “sporco ebreo, ti mettiamo al forno”: un lessico che ci fa ripiombare in un lampo ai tempi del nazifascismo. Questo fatto ci richiama a un’urgenza del presente che non può esitare solo nelle varie denunce e appelli delle autorità civili e della cultura a ridosso del giorno della memoria.

Mi auguro che possa essere individuato il senso “incorporato” nei suoi eccessi e nelle singole particolarità, al fine di poter dare a questi giovani l’opportunità di trasformare e bonificare aree del Sé, imbrigliate di sadismo, distruttività e intolleranza delle diversità.

Questa breve riflessione, apparentemente estranea al testo di Sonnino, si relaziona comunque al tema del silenzio (cospirazione e congiura, connivenze e banalizzazioni) e alle nostre responsabilità: “Tutti noi- ricorda Ronny Jaffè (2019) citando Singer (1975) - non siamo responsabili solo di quello che facciamo, ma anche di quello che avremmo potuto impedire o che abbiamo deciso di non fare”. Ritengo che queste parole ci debbano accompagnare giorno per giorno nella nostra vita, nel presente. Non potendo risolvere il quesito, forse più adolescenziale, di cosa avrei fatto io durante il nazifascismo, ho il dovere di vigilare oggi sulle mie zone di confine. Penso che le mie letture giovanili insieme ai profondi turbamenti vissuti, si sono sommati all’”inammissibile” per me: trovare alcune foto dei miei genitori in camicia nera, e scoprire che il mio mitico nonno, anche se nascondeva nella sua clinica amici ebrei, veniva ritratto con le alte cariche fasciste, al detto di “non potevo fare altrimenti”.

Accedere al crollo dell’onnipotenza di genitori e nonni, a vari tentativi di scotomizzazioni e di inaccessibilità a quello che ha messo in luce il secolo precedente, l’impossibilità di preservare il ruolo di intoccabilità, tollerare imperfezioni, limiti di chi avrebbe dovuto e dovrebbe allevare e governare, è forse un primo tassello di avvicinamento al principio di realtà.

Altra cosa purtroppo è la colpa vissuta dai genitori ebrei per non aver protetto le proprie famiglie, la colpa di aver inizialmente creduto in Mussolini, di non averne compreso la portata distruttrice o di non aver cercato in tempo un riparo o una via di fuga, o ancora la colpa di dover dire ai propri figli “da oggi non sei più tu, ti chiamerai Leonardi”.

Per ultimo, ma non ultimo, è l’eredità lasciata alla terza generazione.

Anche su questo è ampia la letteratura soprattutto psicoanalitica sul trauma transgenerazionale.

Vorrei qui gettare un ponte con un altro testo, “Testimoni del non provato. Ricordare, pensare immaginare la Shoah nella terza generazione”, di Raffaella di Castro (ed. Carocci 2008), in cui la terza parte del volume è interamente dedicata alle post-storie: 23 interviste a ebrei di “terza generazione”.

Nella trascrizione le intervistate e gli intervistati, spesso carenti di racconti da parte di nonni e genitori, spesso reticenti essi stessi o confusi nel raccontare gli eventi e le loro sequenze, ma anche desiderosi di essere testimoni esaurienti, mi hanno trasmesso un qualcosa di profondamente inquietante: un uso frequente del “come se” nelle loro narrazioni mi ha fatto intravedere sfaldamenti, voragini e abissi sulla loro identità, sul sentimento di Sé, sulla riconoscibilità del loro stesso racconto. Il “come se” di un provato in assenza di testimoni tangibili esitava quasi in un vissuto di depersonalizzazione e derealizzazione, nonostante la presenza di realtà inconfutabili.

Naturalmente ho voluto solo accennare a un aspetto di una lettura molto arricchente, e certa che più entriamo nei dettagli e negli anfratti a lungo in ombra tanto più troveremo gli anticorpi necessari per ascoltare l’inaudito e evitare tragici sfaldamenti.

Lavorare su questi testi ci permette di cogliere, come propone lo stesso Sonnino, il valore della “narrazione”, che di per sé può contenere elementi riparativi, forse anche suggerendo quella che è infine la ricerca della “speranza riguardo al futuro”.

Ringrazio Alberto Sonnino per questo dono che mi ha fatto sentire nuovamente in sintonia con quel modo di essere analista che Roberto Tagliacozzo aveva riassunto in quel suo “Con l’orecchio entro e fuori della stanza”.

София plus.google.com/102831918332158008841 EMSIEN-3

Login