Lunedì, Maggio 20, 2024

Ennio. Vedere la musica (Ennio, di Giuseppe Tornatore, 2022). Recensione di Giuseppe Riefolo

La musica è la mia signora

(Duke Ellington)

 

La colonna visiva

L’Esperienza della visione di questo film è intensa e particolare. Puoi pensare che, alla fine, si tratta comunque di un documentario dove, in genere, è difficile identificarsi con i personaggi che rimangono “raccontati” sullo schermo. Questa volta, però, senti da subito una profonda emozione e ti ritrovi nel film. Ti chiedi: cosa può essere che ti chiama nel film e ti fa sentire che quella storia ti riguarda intimamente? Ho pensato che non è Ennio il vero protagonista, ma la musica che immediatamente ti riporta a momenti della tua vita e ti porge immagini e situazioni passate. Molta musica scopri solo ora che appartiene ad Ennio Morricone eppure tu la conoscevi, ma non ne sapevi l’autore e non ti era mai interessato saperlo. In questo modo, durante il film, ricomponi un puzzle della tua vita che diventa un arazzo coloratissimo.

Mi sono accorto che seguivo il film all’incontrario. C’era prima la musica e poi le scene dei film, le interviste o i commenti di Ennio che funzionavano come una colonna visiva alla musica. Le interviste e le confessioni di Ennio davano spessore alla musica e potevi collegarla ad altre musiche e a tante vicende spesso contigue: “Ennio ha ampliato la mia visione” (Tarantino). Poi viene Sergio Leone che pretende una musica già usata per un altro film e che pur di averla impone “di cambiarla un po’, ma senza modificarla molto”. I musicisti la chiamerebbero variazione sul tema (anche pittori, Picasso, Bacon, ne hanno fatte su singole figure …), ma nel film l’emozione che ti coglie è che la nuova versione non è una “variazione” ma una scoperta di ciò che la prima solo prometteva. L’ho sentito soprattutto nella colonna sonora per il film Allonsanfànt (1974). I fratelli Taviani che non vogliono rinunciare alla iniziale musica che Ennio propone loro in modo accennato: ritmi che tamburellano ed evocano una marcia. Ennio deve insistere perché ascoltino la nuova versione e loro, increduli, ne riconoscono l’evoluzione. Io ho sentito che la nuova versione non evocava più solo persone che marciavano, ma gente trionfale che incedeva felice verso una meta che la musica diceva promessa. Persino Leone che chiede ad Ennio di rubare un po’ dalla colonna di Un dollaro d’onore (Howard Hawks, 1959) o di falsificare per C’era una volta in America (1984) l’aria di Per un pugno di dollari (1964). Ho pensato ai pazienti che mi chiedono, perplessi, se quella determinata scena l’abbiano già raccontata. Questa volta ho capito meglio la mia risposta in queste occasioni in cui invito i pazienti a ripetere comunque quello che vogliono perché la ripetizione in analisi non esiste (Freud, 1899, che molto presto riconosce che non possono esistere sogni ricorrenti…) e la ripetizione può essere la felice epifania di un oggetto nuovo che finalmente ci raggiunge a meno che non sia una coazione che ne è l’esatto contrario. Nel film sappiamo che spesso Morricone riprende appunti e pezzi scartati o mai utilizzati: “avevo scritto una musica per Zeffirelli, ma lui mi disse che non andava bene… poi mi venne in mente quando cercavamo una musica per Novecento…”. Interviene Bertolucci: “quella musica era perfetta!” Poi, un altro tipo di ripetizione che risulta fertile: è Sergio Leone che chiede all’amico di falsificare per lui un motivo già presentato e l’amico ne asseconda il desiderio. Ho visto quindi Raffaello nel gruppo per pazienti psicotici che si teneva al servizio. Dolorosamente ribadiva sempre che lui “non aveva sogni!”. Mi sono ritrovato, per un attimo, felicemente nella posizione di Sergio Leone quando una volta gli chiesi che “se non aveva sogni poteva inventarne qualcuno per noi del gruppo!”. Ricordo con emozione la sua risposta che diventò davvero un sogno: “dottore, se vuole posso raccontarvi che ieri, domenica, ho provato a pulire un po’ casa mia. Non lo sapevo, ma poi a pranzo è arrivato mio padre che di solito si lamenta del disordine che c’è. A differenza di altre volte non ha detto nulla, ma non so cosa può aver pensato!”.

Prima la musica…

C’è poi il particolare dispositivo introdotto da Sergio Leone in “Cera una volta in America” (non ho capito se poi, come immagino, sia stato mantenuto anche per altri film…) di girare le scene con la musica di sottofondo. Nel film rivediamo la scena con De Niro che entra nello studio del suo vecchio compagno ora senatore. Scene della troupe che gira e la musica di sottofondo. E’ una incredibile inversione di priorità: ora la musica viene prima, anzi insieme e non dopo. In questo modo tutto cambia e la tua voce, il tuo gesto deve avere un tono e un ritmo che cerca di andare insieme (co-ire) a qualcos’altro che ti accoglie e ti accompagna. Ho pensato ad alcuni momenti felici della mia analisi quando, puntualmente, durante alcune sedute mattutine dall’esterno veniva la musica di un pianoforte. Spesso questa musica prendeva il posto del mio discorso e mi fermavo ad ascoltare. La scena che quella musica mi suggeriva era di un bambino che si esercitava al pianoforte. Non so perché col mio analista non se ne sia mai parlato. Eppure in quei momenti il clima cambiava e il protagonista della seduta era la musica che veniva da fuori e disegnava un bambino che, balbettando, si esercitava in percorsi armonici. Ora penso di capire. Forse per me e per il mio analista non c’era niente da mettere in parole, ma quella musica improvvisamente si imponeva come una colonna sonora di quei momenti. “la musica non può essere raccontata, si può solo fare e farla sentire”. La colonna sonora cambia il film, perché ne cambia il tono e l’intensità. I protagonisti non devono sapere ma solo sentire che, mentre vivono una storia, sulla loro testa si compie una melodia.

Poi: Ennio

Dopo la musica viene Ennio, l’altro protagonista che ti spiega la fatica per produrre quella musica: “all’inizio pensavo che la musica del cinema fosse un’umiliazione… scrivendo io volevo la rivincita…”. Un analista (forse chiunque…) segue con curiosità il passaggio conflittuale fra le due aree nettamente distinte (dissociate?) fra la musica volgare e quella colta. I maestri che implicitamente o esplicitamente impediscono ai propri allievi di coltivare le contaminazioni. Petrassi che, dopo aver apprezzato la colonna di C’era una volta in America, si complimenta con l’allievo di sempre, ma non può accettare l’evoluzione che, grazie a quell’allievo irregolare, si compie nella musica colta. Infatti: “complimenti per la musica! Però avrà modo di recuperare!”. Ovvio: le contaminazioni portano trasformazioni insostenibili, ma impongono la revisione delle regole che, lentamente sono diventate impedimenti. Il conflitto, quindi, si porta fra la rigidità e il rigore. Agli psicoanalisti viene in mente il continuo dialogo sul tema del setting (alterazioni o modificazioni?) o sulla “neutralità” dell’analista (schermo opaco o inevitabile partecipazione soggettiva?) o sulla funzione dell’azione (acting-out o enactment?). Durante il film riprendi ad accorgerti che nella stessa psicoanalisi tutto ciò che all’inizio si evidenzia come un problema, gradualmente (ma soprattutto attraverso un percorso conflittuale, fatto di fazioni, tradimenti, coraggiose e magari eccessive accelerazioni…) diventa poi una risorsa che emerge proprio dall’assunzione organica di contaminazioni inizialmente improprie. E’ accaduto con le posizioni del transfert, controtransfert, con le ripetizioni, inizialmente viste solo come resistenze fino a poter essere considerate come particolari e felici “modalità di comunicazione” (Freud, 1913-14) e, molto presto (Freud, 1897), con la sostituzione della realtà con la fantasia come oggetto psicoanalitico fondamentale.

Il film ci porta nella stessa parabola che ora cogliamo come felice, ma che dalle interviste cogliamo come controversa e dolorosa per i protagonisti condannati alla infelice posizione del “mistico” (Bion, 1970) responsabile delle trasformazioni. Non lo sapevo prima, ma mi sono accorto che forse il film ha ragione. Le colonne sonore forse sono sempre state di “accompagnamento” musicale alle scene: dovevano riportare il tono affettivo di quello che stava accadendo nella storia. Quindi la musica triste per il dolore, i violini frenetici per la tensione e le rincorse, i tamburi per le soste e per l’incedere. Capisco ora il mio sottile fastidio che ho sempre provato per “Pierino e il lupo” (Prokof'ev,1936) perché sin da subito mi hanno spiegato che quella musica andava letta come la descrizione sonora della storia. Quindi, i suoni cupi: il lupo; i flauti leggeri: Pierino ignaro del pericolo; i violini e i tamburi frenetici: Pierino che cerca di mettersi in salvo….! Il film dice che la musica va per conto suo e l’associazione con le scene la scegli tu e non è lineare. Peraltro, è assolutamente vero anche per ogni analista col suo paziente: “se un regista da la sceneggiatura a dieci musicisti diversi ognuno farà una musica diversa dall’altro. Il problema è capire qual’è la musica migliore per quel film e non è una cosa facile”.La felice difficoltà è di riuscire a tenere insieme, costantemente, la base sicura e le fughe, la tradizione e l’invenzione, la tradizione e la sperimentazione. Morricone (non sapevo e non avrei immaginato…), non solo rompe con l’implicito delle musiche dei film e con gli arrangiamenti delle “canzonette”, ma curerà per tutta la vita la sua adesione ad un gruppo di musica sperimentale “Nuova Consonanza”. La cosa interessante è che “Io sono fatto di tutto quello che è la musica che ho studiato” e, quindi, anche questa musica ispirata alla dodecafonia arriverà ai film (Gli occhi freddi della paura di Enzo Castellani, 1971).

Commiato

Nel film Ennio è vivo. Direi: particolarmente vivo! A questo punto tutta la musica del film diventa nostalgica perché non puoi non associare quell’uomo appassionato ed intenso all’assenza che, invece, sappiamo. Le immagini riprese nello studio le puoi vedere come immagini finali che, quasi, introducono al tono di un sogno. Quindi, segui con triste piacere Ennio che nel disordine del suo studio si muove dirigendo un’orchestra che sicuramente è li e tutti la vedono, perché la vede lui. C’è differenza fra un’orchestra assente ed una presente. Gli analisti più di chiunque altro sanno che ciò che è nel transfert esiste davvero in quel momento e tutto si muove ed accade perché quella è una scena “reale” che si compie adesso! Tutti gli altri al massimo possono immaginare la presenza dell’orchestra assente, ma un analista no. Gli analisti, nonostante quello che si pensa, vivono con i loro pazienti un infinito presente. Infatti, il silenzio sacro della sala attenta e l’applauso liberatorio finale che si alza dalla platea dice che quei fatti, per la pancia delle persone, sono veri… stanno accadendo ora. La psicoanalisi si occupa della pancia e di come la pancia costruisce la vita e la storia delle persone. In fondo è quello che Freud scrive a Fliess nel settembre del 1897 quando scopre che i traumi delle isteriche potevano essere non accaduti realmente, ma erano veri per la loro vita e come tali dovevano essere accolti. Una particolare coincidenza fra realtà e verità che solo nell’inconscio è possibile perché invece nella vita non tutto ciò che è reale deve per forza essere vero (ovvio che conosciamo molte falsità reali…).

P.S Alla fine, se posso (ovvio che posso, perché partecipare alla esperienza della visione di un film per me significa modulare e porgere al film le mie emozioni che nel film trovano immagini. Ovvero: nel cinema quel film diventa mio…) avrei qualcosa da correggere. Moricone nella chiusura sostiene che “la musica bisogna prima pensarla e poi scriverla”. Penso di capire a cosa si riferisca, ma per tutto quello che ho visto e soprattutto sentito durante il film penso che non si riferisse al “pensare”, ma all’immaginare. Infatti subito dopo si corregge: “bisogna lasciare che la musica venga da sola…”.

“la musica… non parla all’intelligenza, di cui mi

fido meno: la razionalità è limitata…. Attraverso

la musica mi rivolgo… all’inconscio dello spettatore”

(Claude Lelouch)

 

Riferimenti bibliografici

Bion W.R. (1970). Attenzione e interpretazione. Roma: Armando, 1973.

 

Claude Lelouch (2007). La Repubblica (21.10.2007, p. 48).

 

Freud S. (1897). Lettera a Wilhelm Fliess del 21 Settembre 1897, In Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

 

Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni, O.S.F., 3.

 

Freud S. (1913-14). “Ricordare, ripetere, rielaborare” in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, O.S.F., 7.

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