Lunedì, Maggio 20, 2024

Dune - Orizzonte - Respiro. Recensioni di Roberta Leone

 Si propone una “tripletta” di recensioni, pellicole che non a caso, in questo periodo di “guerra pandemica” hanno attirato l’attenzione di molti, riscattando bisogni pulsanti: la voglia di vivere bene in gruppo, in libertà, in autonomia con le materie di cui siamo fatti, con la passione che è sempre speranza di qualcosa di buono da assaporare.

  

   Dune sfondo trasparente

       Le dune (Quadro di Roberta Leone) 

 

 

   

    Barriere è un film di Denzel Washington del 2016

 

   

    Leone 1

 

Il titolo dell’opera, in questo periodo storico colmo di barriere e barricate dietro cui ci proteggiamo dal contagio, da un virus ospite inatteso e fin troppo diffidente, osteggiando il libero fluire delle nostre più intime relazioni sociali, attrae risuonando suadente.

La visione della pellicola, seppure di andamento lento, tiene lì incollati allo schermo, fantasticando su quanto sarebbe stato bello vederlo al cinema, o meglio ancora dal vivo. Già perché l’opera è tratta da uno scritto per una pièce teatrale e, nonostante l’ostacolo della macchina da presa, questo passa. L’emozione è stridente, cruda e quasi permanente, fissata. L’assenza della corporeità grazie a una serie di stratagemmi cinematografici e ad un’ottima fotografia attraversa gli occhi dello spettatore toccando intense corde emotive personali.

Pochi attori, come fossero tutti protagonisti. Una sola location. Dialoghi intensi, personaggi ben definiti da raffinate e nette sfumature d’aria che arrivano allo spettatore da gesti, movenze, sguardi e parole. Il carattere disturbato del protagonista aleggia qua e là. Ci si affeziona a lui, poi ad un certo punto lo si odia con i suoi modi così irritanti, per poi tornare di nuovo a capirlo, a sentirsi vicini a lui e di nuovo ad odiarlo, proprio come si fa con un “padre”, con un affetto prossimo, con noi stessi.

Le descrizioni dei vissuti emotivi attraversano lo schermo e arrivano a toccare lo spettatore lasciandolo incollato alla sedia o al pavimento, un lungometraggio che dura un’infinità, un film d’autore, una pièce teatrale.

Una scena che si perpetua, un tempo che scorre senza che l’ambientazione cambi di molto e il filo conduttore, l’affetto che lega i personaggi, una semplice e modesta famiglia, è la trama tessuta tra i vari ciak. Identificazioni proiettive e proiezioni che si dispiegano, la fusione del Sé da uno all’altro, il fastidio o l’accomodamento di chi riceve. Il dolore di chi perde per sempre il fisico, terreno, corporeo e mai l’umore interno che un grande legame comunque lascia, memento.

Un film presente, come lo sono le relazioni descritte in modo veritiero e autentico. Bontà d’animo e necessità di emancipazione, di riscatto. Egoismo, delirio, scelte d’altruismo che celano uno sgualcito narcisismo infruttuoso. Musiche che confortano dando una luce di tepore ai tratti più difficili da digerire perché troppo simili al reale e da un film non te lo aspetti, spereresti in un po’ di finzione che ti dia respiro dalla vita con le sue difficoltà. Qui il respiro lo trovi ugualmente e forse migliore perché non c’è molta finzione, c’è onestà di vita e non è male, per chi fa analisi e sa in cosa consiste, sa cosa vuol dire conoscersi dentro, non è male. Si tratta di autenticità che non fa paura, e il ricordo/monito che la nuova vita porta sempre e comunque luce.

Un padre, un marito, un figlio che cercano di trovare il loro posto, un confine netto tra “negro” e “nero” che in base ai movimenti interni cambia e viene enunciato. Una donna fedele a una scelta per l’altro, un amico che accompagna, invidia, nutre ed è nutrito. Disagio socio-culturale, razziale, mentale, sentimentale, evolutivo, sembra esserci tutto in questo film o, se non tutto, tanto. Le corde interne suonano e risuonano e l’interpretazione colpisce con fare lento, moderato e poi andante. Si va avanti così, si abbandona infine, si cede alla falce nera con un suono di tromba spezzato, smorzato dal dolore sordo che lascia a un fratello l’assenza dell’altro. Nulla di raro se non pura realtà. Psicosi, nervosismo, esaurimento, canzoni di famiglia e vita, semplice vita che passa da un uomo a un altro, da un regista ai suoi attori, dall’ equipe cinematografica a noi spettatori per lasciarci pensanti a chi, cosa? Come... Riflettendo ancora con le immagini nitide in testa.

Tratto dall'opera teatrale Premio Pulitzer di August Wilson.

 

 

 

L'incredibile storia dell'Isola delle Rose è un film tratto da una storia vera, girato dal giovane regista Sydney Sibilia, uscito nel 2020.

 

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Elio Germano principale protagonista del lungometraggio dà prova ancora una volta delle sue grandi capacità interpretative e trasporta i suoi spettatori in un attento e appassionato movimento di vita. Attento perché curati con precisione sono i dettagli, le espressioni del viso, i movimenti delle sopracciglia e la gestualità del corpo che senza mai tradirsi esprime a ogni ripresa la passione, l’incertezza, la caparbietà di un uomo che sfida i limiti e le regole imposte da formazione e società, occupandosi di non far affievolire la fiamma del proprio desiderio. Una creatività spiccata, furiosa a tratti, deludente nei risultati che spesso non corrispondono alle aspettative fantastiche del poeta. Sì, seppur di poesia non si tratti, è questo che prova a realizzare quest’uomo, saggio nella sua weltanschauung che spera in un mondo pieno (forse troppo?) di libertà. Invettiva e forte curiosità lo conducono a vivere un’avventura realizzando un sogno utopico in un momento storico in cui la società incalza con un turismo allarmante, e così poco a poco le vite di giovani ricolmi di speranza si incrociano, chi per destino familiare prescelto, chi per incidenti di percorso inaspettati, tutti in qualche maniera schiacciati da un vivere che non gli appartiene, alla ricerca di una fuga che non solo li ispiri ma che li faccia sentire legittimati a vivere a pieno sé stessi. E così in uno scorcio degli anni ’70 quasi giunti, la combriccola vive momenti di libidine e aria libera. Spinti da una verve ribelle tardo adolescenziale, i protagonisti si arrangiano rifiutando di uniformarsi a vite prestampate, scegliendo di fondare uno stato alieno alle leggi repubblicane per emanciparsi e godere del proprio senso di autonomia assoluta, senza tradire un’ideologia di base che gli dia la possibilità di individuarsi e scegliere un destino differente. L’immagine proposta proviene da una cartolina autentica con cui viene ricordata oggi quell’impresa di breve durata ma senza dubbio riuscita!

Oggi, in un’epoca così difficile in cui la claustrofobia sembra la normalità corrente a causa del semaforo a colori caldi cui la pandemia ci costringe in casa, questo film risulta una piena boccata d’aria fresca. 

Come a quei tempi aiuta il ricordo di quella storica avventura, nell’attualità in cui siamo pieni di limitazioni e difficoltà. Un uomo che con speranza segue il proprio istinto e le proprie idee, in sottofondo un amore che domina e riscalda delimitando una intellettualizzazione del pensiero che rischia di far dimenticare la vera essenza motrice di tutte le cose. 

Volendo citare il conterraneo Battiato “tutto l’universo obbedisce all’amore”.

 

 

 

The Queen’s Gambit

 

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ovvero “La Regina degli Scacchi” è una mini serie televisiva drammatica statunitense creata da Scott Frank e Allan Scott, e diretta da Scott Frank che si divora in pochi giorni, eh sì se non siete pronti a un turn-over meglio evitare di iniziare, la dipendenza scatta sin dal primo episodio. Binge-watch a pieno ritmo.

I tratti caratteriali sono presentati con purezza, schietti, i colori fondamentali, tonalità spente piuttosto che accese al variare del tono dell’umore principalmente della protagonista, le cui fragilità assumono fin da subito un valore di potenza/onnipotenza, seppure nella sconfitta. Una giovanissima Anya Taylor-Joy conduce lo spettatore, come se stesse danzando un tango dei più sofisticati e lei ha la parte del cavaliere della mujer, ad ogni scena in cui domina sullo schermo, senza esitazione. La fotografia di ottima qualità, i movimenti lenti e le pause permettono allo spettatore di attraversare le sale, gli ambienti e di porsi sullo stesso filo emotivo dei personaggi. Bufere emotive oltrepassano il limite di sopportazione e in alcuni momenti la speranza cede a un’incredula disperazione, eppure le immagini scorrono e La Regina si eleva, con grande capacità di resilienza continua a sfidare il suo presente, passo dopo passo. I ricordi di un passato frammentato, difficile e pieno di solitudine non ostacolano il sopraggiungere di una forte passione né la scelta del proprio destino, senza dubbio diverso e non prestabilito. Un destino in cui una donna accede a tornei di scacchi per soli uomini, in cui una bambina silenziosa e estremamente giudiziosa oltrepassa regole e confini perché in preda ad astinenza sintetica. In cui l’amicizia può aiutare e dare una grande mano nei momenti di buio pesto.

Maestria nelle scelte di inquadrature, musiche, primi piani. Gli occhi della protagonista sono difficili da dimenticare. La sua tenacia e gli schemi (tecnici sportivi), realmente ripresi dal libro a cui la serie è ispirata, hanno ispirato a loro volta diversi spettatori che così, con meno pudore e maggiore audacia, hanno affrontato i propri avversari sul tavolo da 64 caselle bianche e nere.

Il focus è sul talento di una giovanissima solitaria e sola e la sua fantasia sistematica, ereditata geneticamente, che le permette di emanciparsi da vissuti di grigia sonnolenza. La scelta del gioco da tavolo che richiede astuzia, pazienza e silenzio le permette di riscattarsi. La storia scorre rapida sullo schermo e attrae perché gli scacchi diventano il cibo quotidiano di una bambina gravemente denutrita negli affetti, la cui passione per i pochi momenti di quiete e godimento di un sano legame silenzioso con il suo Maestro diventa una chiave, una via d’uscita. E nessun giro di boa per lei. Avanti e ancora avanti.

Immaginazione vs realtà. Fantasie che salvano da un quotidiano grigio che non apprezza, da un’assenza di calore e di colore, da un’individualizzazione negata a favore di un conformismo da orfanotrofio fin troppo scontato che stride e porta all’emergere nello spettatore una sensazione di risarcimento, un desiderio o meglio un bisogno forte di libertà, di emancipazione, di emersione di diritti civili e umani.

 

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