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Moccia G. - Sapere e non sapere: considerazioni su natura, clinica e terapia dei processi dissociativi

Giuseppe Moccia, 2016

…mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo. Nel riconoscerlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito di essere stato felice, di esserlo ancora. Perché tutto fosse consumato, perché mi sentissi meno  solo, dovevo solo augurarmi che ci fossero molti spetta-tori il giorno della mia esecuzione, e che mi accogliessero con grida di odio.          

Lo straniero (Albert Camus)      

 

Il dibattito sulla dissociazione è tornato a interessare la ricerca psicoanalitica dopo essere stato a lungo marginalizzato nell’ambito psichiatrico. E in effetti sono frequenti nella nostra pratica clinica gli incontri con pazienti dal vissuto opaco che parlano di sé stessi, senza emozioni, come farebbe una persona esterna. Pazienti che a volte riferiscono un’improvvisa e spaventosa impressione di estraneità rispetto a persone o contesti che erano in precedenza familiari e che sembrano lottare continuamente per definire sé stessi, sapere chi sono davvero, persino rispetto alla identità sessuale senza che nessuno dei nostri interventi sembra comunque toccarli. Come Meursault, il personaggio di Camus citato in esergo, ci impressionano con la loro impassibilità ed estraneità ad un mondo che vivono come insensibile ed indifferente. Stranieri a sé stessi descrivono la vita come qualcosa che accade loro senza sentirsene autori, distaccati persino dalle sensazioni corporee che non sanno significare se non attraverso le definizioni e le spiegazioni di un'altra persona.

Di solito arrivano da noi con diagnosi di disturbo depressivo o psicosomatico oppure di attacchi di panico ma quando comprendiamo che al di sotto degli epifenomeni sintomatici c’è uno scollamento interno, una difficoltà di assumere come proprio uno stato del sé e di appropriarsene soggettivamente (D.B. Stern, 2010) capiamo che questo difetto di integrazione è un tentativo di proteggersi dall’angoscia e ci domandiamo se nel loro vita non sia capitato loro qualche evento traumatico.

 A questo interrogativo, però, questi pazienti non sanno rispondere o meglio sanno che qualcosa è accaduto nella loro infanzia o anche in adolescenza ma non riescono a definirne i dettagli.

 Il ricordo delle esperienze dolorose passate è frammentato, ma non completamente perduto, è lì e non è lì ed è come se questi pazienti lo conoscessero e non lo conoscessero. Il fenomeno è dovuto al fatto che le esperienze passate e gli specifici e significativi periodi di tempo sottoposti ad amnesia non sono inconsci come ci si aspetterebbe nel caso di una dinamica rimotiva. Piuttosto si ha l’impressione di essere in presenza di una debolezza dell’istanza e della funzione rimuovente e di una cronica alterazione della coscienza e dell’identità che segnala invece l’azione di un processo dissociativo. Così questi pazienti non sanno definire la loro domanda, cercano una cura ma non sanno dire bene per cosa, appaiono vuoti, depressi o angosciati ma non sanno dire “io mi sento depresso”.

Queste osservazioni cliniche alludono alle tre dimensioni sintomatiche dei processi dissociativi: amnesia, depersonalizzazione-derealizzazione, confusione e alterazione dell’identità.

Dal punto di vista teorico però abbiamo bisogno di concettualizzare la dissociazione come un processo mentale interno e su questo, nonostante il numero crescente di lavori clinici e teorici sull’argomento, a tutt’oggi non c’è ancora accordo fra chi considera la dissociazione un processo patogeno di autoregolazione e adattamento relativo ad un funzionamento mentale alternativo e sostitutivo di quello fondato sulla rimozione (Bromberg, 2007, Stolorow, Atwood, 1992) e chi, invece, la maggior parte, lo riferisce solo alle specifiche difese automatiche e non intenzionali contro le angosce sopraffacenti che si attivano nelle situazioni traumatiche ma che tuttavia è anche articolato con le altre difese del soggetto.

 Le ragioni storiche di questa difficoltà sono note.

 Un po’ di storia

L’iniziale concezione della dissociazione delineata da Freud quando studiava i casi di doppia coscienza nelle isterie di origine traumatica aveva un carattere chiaramente dinamico. Nel fenomeno della scissione della coscienza il ricordo che formava il contenuto dell’attacco isterico era intenzionalmente dimenticato dall’isterica e si sottraeva alla funzione mnestica della coscienza normale o perché spiacevole o perché legato ad una esperienza paralizzante, quindi restava inaccessibile alle associazioni e alla riflessione, ed era accolto invece in un secondo stato dissociato della coscienza nel quale si manifestava come attacco isterico insieme con le impressioni e gli affetti provati nello stato psichico traumatico. La concezione della dissociazione di Janet che anticipava larga parte della letteratura psichiatrica sul trauma e la dissociazione, era invece più descrittiva: il termine dissociazione descriveva la scissione della coscienza e l’isolamento delle tracce di memoria della esperienza traumatica che priva di integrazione era destinata ad una automatica ripetizione. Janet collegava il fenomeno a traumi relazionali assai precoci, tuttavia, essendo ancorato alle terminologie neurologiche del suo tempo, usava termini come quello di degenerazione ereditaria che sembravano invece legare la dissociazione ad una debolezza costituzionale del soggetto delle capacità di sintesi psichica che impediva la possibilità di integrare le memorie traumatiche e di assimilare nuove esperienze. Freud che concettualizzava invece la scissione psichica come la difesa di un Io forte contro il conflitto abbandonò il concetto di dissociazione a favore di quello di rimozione che possedeva un superiore valore euristico ma non rinunciò del tutto alla ricerca sui processi dissociativi come si evince da questo passaggio del 1909:

 “La situazione di conflitto psichico è per certo oltremodo frequente, una aspirazione dell’Io a difendersi da ricordi penosi si osserva del tutto regolarmente senza che porti come risultato a una scissione psichica. Non si può respingere il pensiero che occorrano anche altre condizioni perché il conflitto abbia come conseguenza la dissociazione. Sono inoltre pronto ad ammettere che con l’ipotesi della rimozione non ci troviamo alla fine, ma soltanto all’inizio di una teoria psicologica”.

 Si può anzi dire che nonostante il ripudio del concetto di dissociazione a favore del concetto più esplicativo di rimozione Freud abbia integrato l’aspetto dissociativo della scissione della coscienza in quello di rimozione. Verso la fine della sua vita infatti (Freud, 1927) egli usò il concetto di diniego come difesa del feticista contro una percezione (piuttosto che un impulso) che genera angoscia, l’osservazione cioè della differenza anatomica fra i sessi da parte del bambino, e concludeva che il diniego necessariamente implicava una scissione dell’Io per la quale il bambino conservava la convinzione dell’esistenza del fallo nella donna ma contemporaneamente la abbandonava.

 Più tardi (Freud, 1938) avrebbe concluso che la scissione dell’Io non riguardava solo il feticista ma che andava estesa a tutte le nevrosi ed era un tentativo di operare un distacco della realtà” attraverso il diniego da “una richiesta penosa che il mondo esterno poneva al bambino. Il diniego determinava “due impostazioni contrastanti e tra loro indipendenti” della vita psichica determinando di fatto una scissione dell’Io. [1]

Per Freud la “richiesta penosa” del mondo esterno era una delle due componenti della situazione traumatica (Freud, 1925) (essendo l’altra una eccessiva spinta pulsionale) ma non precisò mai la relazione fra eventi esterni e processi interni al di là di un eccesso di stimolazione in una situazione sopraffacente che paralizzava l’Io.

 Fu invece Ferenczi (Ferenczi, 1933) a cogliere la natura intersoggettiva della scissione dell’Io nell’abuso sessuale del bambino con una concettualizzazione molto simile alle ricerche contemporanee sul trauma e la dissociazione. Nella sua concettualizzazione la scissione dell’Io del bambino abusato era dovuta alla inevitabile “introiezione dell’aggressore”, di solito una figura accudente, e alla assimilazione del rifiuto dell’abusante di riconoscere la realtà del trauma. La precondizione per una simile identificazione era la scissione della propria esperienza sensoriale, viscerale ed emotiva. Per conservare il legame con l’abusante, spesso una figura familiare, e proteggersi dal rischio di una ritraumatizzazione, il bambino operava un drammatico adattamento precoce imperniato sulla inversione dei ruoli di accudimento, diventando un “bambino saggio” e lasciando silente la propria memoria dell’esperienza. Così anche se in seguito era in grado di ricordare, in qualche modo, le esperienze traumatiche, restava in dubbio circa la loro realtà e in generale in dubbio sulla realtà delle proprie esperienze correnti. Fino a quando non si ripresentavano, successivamente, situazioni anche so- lo categorialmente affini al contesto originario del trauma che attivavano la componente somatica, emotiva e motoria della memoria dissociata.

 Le due funzioni della dissociazione

 In linea con l‘espressione di “spettro dissociativo” (Psychoanalytic Inquiry, 2013) che tiene conto di un gradiente dei processi dissociativi che va dalla dissociazione debole , fisiologica, “un accompagnamento perfettamente normale dell’emozione” (Fairbain, 1929) fino ai fenomeni di passiva divisione della coscienza in una situazione traumatica, propongo in questo lavoro di concettualizzare la dissociazione secondo una duplice funzione : da una parte essa rappresenta un meccanismo difensivo rispetto agli impensabili e disorganizzanti affetti di un trauma, dall’altra rappresenta una forma di organizzazione patologica della personalità con funzioni di autoregolazione adattiva non strettamente dipendente dal trauma.

 Sulla base della prima teoria quando il soggetto è esposto ad esperienze traumatiche sopraffacenti alle quali non può sottrarsi per la sua condizione di impotenza avverte una intensa angoscia di frammentazione imminente. In assenza di una figura che riconosca il suo stato interno e lo conforti si avvia il processo dissociativo che lo protegge dalla frammentazione. Molto dipende naturalmente dalla natura del trauma, dalla loro frequenza e dall’età del soggetto che ne ha fatto esperienza, ma essenzialmente la dissociazione disattiva l’investimento degli oggetti, sopprime gli stati affettivi e distacca la persona dal coinvolgimento soggettivo nell’evento stesso. Se poi il trauma è stato precoce la dissociazione disarticola i processi che traducono l’esperienza emotiva nelle successive formulazioni simboliche così che l’esperienza, sebbene iscritta in memoria, rimane non formulata e si sottrae alle trasformazioni e risignificazioni successive della posteriorità. Una tale memoria è destinata a ri-presentarsi, non trasformata, in maniera acontestuale e atemporale per l’associazione confusiva del contesto attuale a quello passato e produce immancabilmente una angoscia di ripetere il trauma che a sua volta alimenta una cronicità della risposta dissociativa. La dissociazione diventa perciò fissa e automatica scollegando il soggetto non solo dalle proprie memorie traumatiche ma anche dal proprio senso di sé. Ne risulta un soggetto alessitimico privo della capacità di riflettere sulle proprie emozioni che vive in una caratteristica restrizione della coscienza manifestata come ottundimento, deficit di attenzione, assenze, confusione.

 (Una delle ragioni, ad esempio, per la quale questi pazienti indulgono a comportamenti autolesivi (eccessi alcoolici, attacchi bulimici, tagli autoinflitti, ludopatie) è il tentativo di procurarsi una sorta di trance attraverso il quale proteggersi dal ritorno di memorie traumatiche disorganizzanti.[2])

 Strutture adattive patogene

Nel caso della funzione adattiva patogena del trauma questa deriva dalla esposizione protratta del bambino alla patologia caratteriale dei genitori piuttosto che a traumi massivi.

 Da un punto di vista evolutivo la dissociazione rappresenta una forma di adattamento ad un ambiente che non riconosce i segnali affettivi. È quindi riferibile ad una auto modulazione dell’affetto, in assenza di un riconoscimento affettivo dei propri stati interni da parte dei genitori. È una organizzazione inconsapevole della personalità che deriva dalla assimilazione nella struttura del sé del medesimo processamento dissociato dei genitori dei propri affetti. Il bambino dunque svilupperà contenuti mentali non integrati in linea con le comunicazioni dissociate dei genitori.

 Queste esperienze abitano l’inconscio non rimosso e sono codificate in modo prevalentemente non simbolico. I concetti di modello operativo interno” (Bowlby, 1969), di “conosciuto non pensato” e di “inconscio ricevuto” (Bollas, 1989), di “RIG” (Stern, 1985), di “principi organizzatori invarianti” (Stolorow, 1990) , di “conoscenza relazionale implicita” (Stern, 2005) si riferiscono tutti ad una forma di conoscenza degli schemi emozionali che deriviamo dalle primissime esperienze del mondo oggettuale.[3] dalle quali il bambino può trarre oppure no non solo il senso ma anche il valore della propria espressione affettiva, nella associazione fra uno stato del sé e la risposta contingente dell’ambiente.

 L’organizzazione dissociativa deriva dalle identificazioni con l’oggetto ed il suo modo di trattare gli affetti propri ed altrui, organizza le strategie patogene di accomodamento all’ambiente dalla quale deriva una carenza di integrazione dissociativa.

 L’azione della scissione comporta che la persona non riesca a sperimentare come una parte di sé stesso ciò che pure sa esistere realmente in una altra parte nascosta di sé. Le due esperienze di sé stessi vivono dunque una accanto all’altra. È questa una prima versione di quella particolare declinazione dell’esistenza umana consistente nell’essere due menti. Anche qui la scissione è relativa ad un affetto o ad uno stato del sé che tuttavia sono rappresentabili anche se scissi.   Il concetto è in linea con la psicodinamica del trauma e la nozione di “progressione traumatica” descritta da Ferenczi, ma anche con disturbi della personalità da trauma cumulativo caratterizzati dalla divisione fra intelletto e psiche soma di Winnicott o dalla “introiezione dell’oggetto insoddisfacente” di Fairbain (Fairbain, 1992) o di “scissione verticale” di Kohut (Kohut, 1976).

 La trasmissione transgenerazionale di una modalità dissociata di regolare gli affetti è conseguenza di una relazione rigida fra genitori e figli che non consente il riconoscimento e l’assimilazione della differenza e della molteplicità.[4] Una rigidità dei genitori, agita sul piano della relazione intersoggettiva, che riflette peraltro la medesima rigidità su quello della relazione intrasoggettiva. L’investimento narcisistico dei genitori, infatti, è spesso l’esito del medesimo rigetto o quanto meno della negazione che essi operano nei confronti dei propri affetti; cosicché ciò che di sé stessi presentano al figlio è quanto non possono ospitare dentro sé stessi ed è perciò trasmesso al figlio per identificazione proiettiva, senza mediazioni di parola, come affetto diretto privo di trasformazione. Ma come ho detto sopra ciò che è trasmesso non ha solo a che fare con i contenuti mentali scissi dei genitori ma anche con un processo. Poiché i genitori ripudiano alcuni affetti e rappresentazioni di sé stessi (soprattutto la tristezza per lutti non elaborati e le proprie ansie abbandoniche) non solo non riconoscono nel figlio i suoi segnali d’angoscia   ma comunicano inconsciamente al figlio una implicita coercizione a scinderli. Si avvia così la formazione di una struttura del sé fondata su un oscuro senso di vergogna e un obbligo ad auto sostenersi sforzandosi di coincidere con la versione ideale di sé “indotta” implicitamente dai genitori. Ciò che è trasmesso attraverso questo tipo di legami è una”allucinazione negativa” (Bollas, 1987; Green, 1985; Botella e Botella, 2001) dato che parti importanti della personalità del figlio non sono riconosciute . E poiché il figlio eredita le funzioni regolative della madre nel rapporto con sé stesso, anche le parti assenti nella allucinazione negativa della madre saranno introiettate e diverranno parti assenti della sua vita intrasoggettiva. Il risultato sarà una divisione tipica della personalità che si esprime in una difficoltà a riconoscere propri desideri e motivazioni e nella coazione automatica e incoercibile a lasciarsi definire dalla realtà psichica degli altri. Non si tratta di un falso sé compiacente quanto piuttosto un modo di conoscersi solo attraverso le attribuzioni altrui. L’esperienza di questa disarmonia interna riflette l’azione di identificazioni, non integrate e spesso operanti simultaneamente: una, poco strutturata e scissa, relativa alle rappresentazioni di un nucleo primario affettivo del sé che trova voce solo in occasionali manifestazioni di rabbia, nel comportamento, nei sogni, nel transfert e nelle risonanze dell’identificazione proiettiva; l’altra che riflette le sue identificazioni con le strategie dissociative dei suoi genitori. In questo settore della personalità prevale un senso di sé, costruito intersoggettivamente, che ad esempio può essere avvertito come funzionante e ben adattato in superficie ma oscuramente difettoso e malaticcio nella sua essenza. Momentanee sensazioni di irrealtà e di depersonalizzazione, espressione di un’attività difensiva con caratteristiche evacuative, compaiono ogni volta che le vicende della vita facilitano l’integrazione di spinte corporee, moventi, ed emozioni minacciose per le identificazioni, che per quanto esautoranti, hanno il vantaggio di garantire il legame interno con l’oggetto interiorizzato (Winnicott, 1965; Tagliacozzo, 1989).

 Considerazioni cliniche

La dissociazione dunque impedisce l’appropriazione soggettiva, l’assimilazione psicologica dell’esperienza scollegando la percezione dall’associazione ad altri ricordi. L’alterazione della coscienza che taglia fuori i legami associativi con l’esperienza cosciente, e nei casi di trauma infantile precoce, di articolazione simbolica dell’esperienza, separa l’esperienza dal sentimento di essere il soggetto dell’esperienza. Quindi i ricordi, per quanto incompleti e frammentari, rimangono accessibili alla coscienza ma solo in due modalità: o le qualità sensoriali, fisiologiche ed emotive delle esperienze traumatiche intrudono nel soggetto in uno stato alterati di coscienza e sono ripetute senza che il soggetto abbia alcuna possibilità di accedere ad una narrazione trasformativa oppure (e questo ha una importanza non secondaria per quanto la tecnica della cura) sono “recuperati” all’interno del legame affettivo con un'altra persona attraverso i significati che questa conferisce alle esperienze e alla storia del paziente. In questo caso però la persistenza in memoria è labile e il ricordo “recuperato” segue un andamento tipico fatto di ricordare, dimenticare, e ricordare (M. Steinberg, 2001). Questa modalità di conoscenza di sé stessi attraverso l’esperienza che un'altra persona fa del soggetto è tipica della situazione analitica in ragione del fatto che il dispositivo analitico è particolarmente adatto a favorire le comunicazioni affettive attraverso vie non verbali quali le identificazioni proiettive, gli enactment, gli agiti, i sogni ricorrenti, che sono le vie maestre di comunicazione delle memorie traumatiche.

 Naturalmente l’attenzione dell’analista a non iperstimolare il paziente angosciato preriflessivamente dalla aspettativa di ripetere il trauma è condizione fondamentale nel generare un clima crescente di sicurezza e fiducia che consenta il graduale recupero dei ricordi traumatici.

 Le memorie traumatiche si manifestano prevalentemente attraverso lo sviluppo del transfert e l’analisi del transfert consente appunto una prima simbolizzazione del trauma sottraendolo alla sua cieca e angosciante ripetitività. Tuttavia è anche importante collegare successivamente l’indagine sulla dinamica transfert-controtransfert nel qui ed ora con le esperienze del passato nel tentativo di ricostruire l’esperienza traumatica, sebbene in modo ancora frammentario e dare avvio ad un processo trasformativo.

Naturalmente non ci illudiamo di poter cogliere la verità storica dell’evento traumatico in sè ma quello che è essenziale è riconoscere l’esperienza dissociata che il paziente ha del trauma in modo da aiutarlo a legittimarla e a recuperare il contatto con la propria storia. Si tratta di una funzione di testimonianza dell’analista che rende reale l’esperienza vissuta dal paziente nel riconoscimento che qualcosa è davvero accaduta nonostante la difficoltà di ricostruirlo completamente. Per il paziente, infatti, gli affetti, le sensazioni, le impressioni e agli stati interni indotti dalle memorie traumatiche che non sono mai stati convalidati arrivano ad essere reali e pensabili solo nella comprensione dell’analista. Quando la sicurezza dell’holding mette al riparo il paziente dal rischio di ritraumatizzazione è allora possibile avviare un processo elaborativo delle convinzioni patogene che rappresentano un tentativo difensivo della mente di rintracciare le cause del trauma e sfuggire alla cecità imposta dall’identificazione con l’aggressore. La colpa quindi di esserne responsabili per non aver saputo essere una persona migliore, la certezza di non poter essere amabile per l’eccitazione provata durante l’abuso sessuale, l’indegnità per le reazioni difensive successive al trauma, il distacco, l’aggressività esplosiva e l’evitamento delle relazioni umane, la vergogna per la propria identità di genere, associati alla fantasia di aderire ad una identità ideale in grado di purificare il soggetto da affetti non integrabili.

Non vorrei però fornire una versione ottimizzante del processo analitico con i pazienti dissociati. Esistono degli ostacoli psicodinamici consistenti al lavoro di reverie trasformativa delle esperienze traumatiche con i quali si avrà a che fare relativamente presto.

 Una di queste è il fraintendimento controtransferale dell’analista che interpreta il distacco emotivo e l’ipervigilanza del paziente come una resistenza alla cura motivata da un conflitto intrapsichico. Interventi in tal senso sono di solito iatrogeni per come riespongono il paziente a una originaria esperienza di colpevolizzazione e rifiuto ed esprimono una reazione dell’analista al controllo di cui si sente oggetto. Tuttavia il controllo della relazione con l’analista dipende dal fatto che questi pazienti, non avendo accesso cosciente ai ricordi del trauma, ne sentono invece le attivazioni implicite in una oscura aspettativa di ripetere il trauma, come se spostassero verso il futuro ciò che è accaduto nel passato (qualcosa che già Winnicott aveva chiarito nelle sue considerazioni sulla paura del crollo). Una dinamica questa, lo dico per inciso, che è anche l’espressione della coazione a ripetere intesa come bisogno di padroneggiare attivamente esperienze subite passivamente (Freud, 1920).[5]

 In questi casi l’analista non coglie lo scorrere di una dinamica intersoggettiva e reagisce difensivamente spostando il fuoco sulla dinamica intrapsichica. Ma in realtà il più delle volte è attivo un transfert precocissimo per il quale il paziente teme di ripetere con l’analista una esperienza di annullante invasione e quindi controlla la situazione non permettendo che sia detto su di lui qualcosa che egli non abbia già pensato. L’esperienza traumatica dissociata contiene infatti gli affetti dolorosi legati alla memoria di una sequenza attaccamento-intrusione annullante per la quale il paziente avverte, senza sapersene spiegare il motivo che il trauma è sempre dietro l’angolo. In alcuni casi anche un movimento brusco dell’analista sulla poltrona può suscitare una reazione d’allarme che di solito rimane non comunicata se non è l’analista a spiegarne le ragioni. Di conseguenza più l’analista continua a interpretare, anche plausibilmente, più il paziente continua a segnalare di non essere capito. La ragione sta nel fatto che le realtà dissociate del paziente non possono essere comunicate per via verbale ma solo risperimentate nel campo intersoggettivo attraverso l’identificazione proiettiva anche se questo produce nell’analista sentimenti di controtransfert di assoluta inutilità ed impotenza. L’indifferenza agli interventi dell’analista, la continua obiezione nei suoi confronti di non essere davvero capiti, il rifiuto delle sue parole, il silenzio impassibile e il ritiro narcisistico dalla relazione sono l’espressione di un vissuto del paziente di essere invaso della realtà psichica dell’analista proprio attraverso le parole ma nel contempo è anche la via (se l’analista resiste alla distruzione del paziente) attraverso la quale l’analista può capire cosa significa non sentirsi un soggetto per un'altra persona.

Molto dipende dalle qualità empatiche e trasformative dell’analista se una interpretazione verrà recepita come un tentativo di comprendere dell’analista o al contrario come una espressione del suo effettivo disinteresse.

 E tuttavia queste impasse intersoggettive sono spesso l’unica via attraverso la quale esperienze non ancora pensate possono riattualizzarsi e divenire oggetto di comprensione e trasformazione.

 Al termine di questa mia breve relazione sulla dissociazione in psicoanalisi restano naturalmente aperte le questioni relative a come concettualizzare i processi dissociativi (se in una forma estesa o più ristretta), a quali differenze e convergenze siano riscontrabili con concetti simili presenti nel campo analitico, se e quale articolazione la dissociazione potrebbe avere con la rimozione e le altre difese tipiche dei disturbi della personalità. Tuttavia credo che dinanzi al compito indispensabile di aggiornare la psicoanalisi favorendo l’evoluzione delle sue teorie, in un modo aperto e coerente, saranno le osservazioni cliniche sulla dissociazione come processo mentale interno a far avanzare la nostra ricerca sul concetto e a reintegrare pienamente la dissociazione nel campo psicoanalitico.

 


 

[1] “Che in relazione ad un determinato comportamento esistano due impostazioni nella vita psichica della persona, tra loro contrastanti ed indipendenti, è anzi un carattere generale delle nevrosi, solo che in questo caso una appartiene all’Io; e l’altra essendo rimossa all’Es” (Freud,1938).

[2] Tenendo presente che i comportamenti autodistruttivi rappresentano anche una espressione del bisogno di padroneggiamento dell’esperienza traumatica attraverso la sua ripetizione in altri casi i comportamenti di self-cutting rappresentano invece un tentativo di sfuggire all’ottundimento dissociativo (numbing) attraverso la stimolazione corporea.

[3] Dapprima codificate presimbolicamente in quella che le neuroscienze chiamano memoria implicita e poi soggetta a successive ritrascrizioni simboliche.

[4] Gergely (Gergely e Watson, 1996) in un interessante sviluppo della teoria winnicottiana, derivato dalle ricerche sull’infanzia, distingue all’interno del rispecchiamento della madre una funzione di amplificazione (marcatura) delle proprie manifestazioni di sintonizzazione affettiva in modo da renderle differenti dalle emozioni del bambino. Così le emozioni rispecchiate dalla madre attraverso la marcatura sono segnalate come non appartenenti alla madre e sarà l’abilità innata del bambino a stabilire una connessione temporale ed una somiglianza transmodale fra il proprio comportamento e la risposta del genitore che gli permetterà invece di riferirle a sé stesso.

[5] Una donna di 40 aa, nubile, in analisi per difficoltà della vita amorosa, lamentava la propria incomprensibile tendenza ad iniziare improbabili relazioni sentimentali con uomini contattati attraverso agenzie di incontro in rete che finivano regolarmente di lì a poco fra infiniti litigi. Sebbene fosse consapevole della inaffidabilità del mezzo telematico, della vulnerabilità e del proprio senso di inadeguatezza non riusciva a sottrarsi alla ripetizione della medesima, dolorosa e fallimentare esperienza. Con il tempo divenne chiaro che la relazione con questi uomini seguiva uno schema invariante. La paziente che pure era persona di talento e successo professionale agiva inizialmente in modo puerilmente sottomesso stimolando nel partner fantasie e comportamenti di controllo e dominio. A questo punto si ritraeva indignata e, rovesciando i ruoli, diventava giudicante e a sua volta controllante. Tuttavia questo comportamento non esprimeva tanto un suo bisogno di una rappresaglia quanto piuttosto il piacere di sentirsi capace di autodeterminarsi; l’esperienza era associato allo scopo inconscio di rendere assimilabile e controllabile una esperienza dissonante di accudimento controllante subito da una madre ossessiva che si era protratto per tutta l’infanzia fino all’adolescenza.


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