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Report di Chiara Benedetti sul Convegno “La consultazione psicoanalitica: metodologie a confronto” (5, 6 novembre 2016)

Il convegno organizzato dai due Centri di Psicoanalisi, Romano e di Roma, si è aperto con i saluti del vicepresidente della S.P.I, Cono Aldo Barnà, che ha introdotto il tema collegandolo al progetto dell’esecutivo uscente di istituire un Centro Clinico della Società di Psicoanalisi, come quelli esistenti in molte istituzioni ad orientamento psicoanalitico, si pensi alla Tavistock come al Centro Kestemberg a Parigi. Di queste esperienze peraltro i partecipanti al convegno hanno avuto una specifica e puntuale descrizione da parte di Alain Gibeault, che partecipando attivamente ai dibattiti ha illustrato l’organizzazione e la propria esperienza nei citati centri, esprimendo per altro il suo apprezzamento per il nostro lavoro.

“Incontrare l’altro e incontrare se stessi” è il lavoro presentato da Anna Nicolò. La consultazione come primo momento di incontro con il paziente ha conseguenze significative sul decorso del trattamento, ma è già di per sé altamente terapeutico dal momento in cui permette un cambiamento nel livello dello stare insieme e del pensare. Entrambi, analista e paziente, sono nell’attesa dell’altro che diviene attesa di se stesso ed è nell’attesa che si può generare un buon o nessun incontro, un altro livello di incontro con se stesso e con l’altro. La consultazione necessita di una tecnica ed una formazione che permettano all’analista di cogliere il nodo che caratterizza il paziente ed il suo bisogno, potendo poi individuare la strada per arrivare a dargli la risposta migliore. Questo apre a molteplici scenari, alla scelta talvolta di un setting che progressivamente sia in grado di avvicinare il paziente al lavoro di cui necessita, ed in questo senso il costituendo Centro Clinico si dispiega in setting differenti, a seconda della necessità del paziente che vi si rivolge, e rende necessaria anche una riflessione sulla metodologia di lavoro ed un affinamento di tecniche che non sono, sottolinea la relatrice, la psicoanalisi tout court. Un altro nodo significativo riguarda il tema dell’invio, modalità e motivazioni dello stesso.

Qual è la specificità del primo incontro analitico? Quali le condizioni che permettono di valutare il funzionamento mentale, quali i criteri per valutarle? Si può ricorrere a dei criteri oggettivi o bisogna tenere conto della coppia analista- paziente? Quanto la variabilità delle distinzioni tra psicoanalisi e psicoterapie entrano nella differente valutazione del primo incontro, e quali differenze tra la consultazione nel contesto privato ed in quello pubblico? Queste le domande da porsi quando si riflette sull’approccio alla consultazione psicoanalitica, proposte da Alain Gibeault. Tutto il lavoro si snoda sul concetto del “ terzo”, ed è questo il piano che più coinvolge anche la sala, accendendo un dibattito denso di quesiti come di riflessioni. Il terzo, proposto nel ripercorrere il primo colloquio di Freud con Katharina, è la dimensione delle implicazioni terapeutiche del primo colloquio, relative alla relazione transfero-contro-transferenziale. La possibilità stessa che si sviluppi un primo colloquio presuppone il riferimento al terzo: questo può essere virtuale, nel legame tra setting e processo, generalmente sufficiente con le organizzazioni nevrotiche, ma è invece spesso necessario che venga oggettivato, tanto più nel contesto istituzionale, nelle organizzazioni non nevrotiche. Alcune ricerche hanno dimostrato che tanto più l’organizzazione psichica del paziente è di ordine psicotico, tanto più la presenza di terzi è utile, e quanto più il paziente è vicino alla nevrosi tanto più il dialogo individuale gli è necessario. Dispositivi differenti hanno comunque sempre la funzione di dare un posto ad una funzione terza materializzata. La funzione dell’Istituzione come terzo sembra essere condivisa nell’esperienza del nostro Centro, per quanto riguarda le esperienze di pazienti che tornano alla consultazione in momenti di impasse dell’analisi o dopo la fine delle stesse.

Nel pomeriggio del sabato è stato sviluppato il tema dei Destini della Consultazione. Attraverso la presentazione del lavoro di Adriana D’Arezzo veniamo portati nella danza dinamica degli incontri, nell’emozionante capacità riflessiva di aspetti contro-transferali, essendo accompagnati in un incontro con l’altro- paziente- collega consultante, ma anche con noi stessi; l’inconscio da “arpionare” come suggerisce Manuela Fraire. A partire dalla presentazione dei dati sugli utenti rivoltisi al Servizio di Consultazione, vengono proposte una serie di riflessioni, che portano alla condivisa esigenza di una organizzazione del polo clinico che si rimodelli anche in base ai diversi approcci e competenze. Nel lavoro presentato da Maria Giovanna Argese, viene proposta la tematica degli invii: quali gli aspetti che caratterizzano le situazioni di consultazioni prolungate cui non segue un trattamento e quale la metodologia più adatta circa l’opportunità di un invio. Partendo dalla esperienza del gruppo che ha visto modificare in corso d’opera il proprio approccio, da un invio imprescindibile ad altro analista, ad una valutazione di questa eventualità, la consultazione si staglia come processo a sé stante atta a valutare la risposta più adatta a quella domanda di aiuto, alla luce di una richiesta istituzionale, che sembra rievocare il funzionamento non prettamente nevrotico ipotizzato da Gibeault. Viene introdotto come ipotetico discrimine la tipologia della domanda rispetto agli esiti dell’invio ed è dal tipo di domanda portato, che deriva il “quantum” dei colloqui di consultazione. Il gruppo ha cambiato metodo con l’idea che la consultazione possa anche non esitare in un trattamento.

Segue la tavola rotonda, con gli interventi di B. Guerrini degli Innocenti, G. Moccia e G. Pellizzari, e il dibattito con la sala. La prima propone tre modi di fare consultazione: il primo come preludio all’avvio di un trattamento, il secondo come un percorso a sé stante, come la Consultazione prolungata dell’adolescente proposta da Senise, ed il terzo “l’esperienza di parlare con un analista”, ripresa e sviluppata nella seconda giornata da Anna Ferruta. L’intervento di Moccia sottolinea il concetto di estensione del metodo e la coniugazione tra le finalità della clinica contemporanea ed i vincoli del nostro metodo, che danno specificità alla psicoanalisi. La concezione della consultazione come attività al limite, sembra ancora impregnare il pensiero che sta dietro al riflettere sulla consultazione. Viene inoltre proposta una riflessione sugli invii precoci, considerando diversi assetti dell’analista, che ci consentono di andare incontro al paziente. Pellizzari, d’altra parte sottolinea l’importanza durante la consultazione di far capire al paziente che la crisi può essere un’ occasione, la sua sofferenza può essere interessante, una metafora inaugurale.

La seconda giornata del convegno ha come argomento “ La consultazione psicoanalitica come clinica del preliminare. La messa in forma della domanda”.

Carmen Gurnari sostiene che affinchè un lavoro psicoanalitico possa svolgersi, si richiede un lavoro preliminare in cui l’analista si orienti a cogliere i tratti del caso. La consultazione è psicoanalisi nel momento in cui ha a che vedere con l’inconscio e la domanda portata, deve prendere la consistenza di questione soggettiva sentendosi il paziente implicato da una causa inconscia. Il momento diagnostico cerca di scandagliare il rapporto del soggetto con il simbolico. Segue la presentazione di due consultazioni. La prima propostaci da Clelia De Vita, è quella di un caso in cui l’incipit, ovvero gli incontri di consultazione sembrano avere già dentro di sé l’immaginabile sviluppo attraverso le immagini dei sogni raccontati dal paziente. Se il sogno dell’ equilibrista su di una corda tesa tra due finestre, rievoca l’immagine dell’analista traghettatore, ma forse anche quella dell’analista eterno debuttante nelle consultazioni, quello del topolino bianco che si teme di non riuscire a rimettere nella scatola, sembra evocare la preoccupazione di cosa fare, quando la consultazione è finita, dove riporre le cose liberate durante l’incontro e a chi consegnarle. Ludovica Grassi propone invece una consultazione con un gruppo familiare, una situazione che offre interessanti riflessioni sul setting allargato e sulla trasformazione della domanda come questione soggettiva.

Anna Ferruta sostiene decisamente che non si può parlare della consultazione come clinica del preliminare, ma essa è il primo atto di cura psicoanalitica. Viene proposta la necessità di dare una configurazione istituzionale alla consultazione: una configurazione minima che possa aprire alla possibilità di trattamenti analitici con setting variabili. Con Winnicott, ciò che rende la consultazione il primo atto analitico è l’incontro con qualcuno capace di capire ed aiutare, ovvero capace di cogliere lo sviluppo transferale in atto. E’ questa capacità che l’analista offre anche in consultazione e il primo incontro con un analista ha la funzione di riattivare un funzionamento che si è bloccato. Se ciò è intrinsecamente implicito nella teorizzazione freudiana, una evoluzione può essere rappresentata dalla plasticità dello psichismo studiato dai moderni sviluppi della psicoanalisi. Un funzionamento psichico attivo è presente sin dall’inizio e si va confermando; il primo incontro rimette in gioco la capacità di agency del soggetto, e la possibilità di usare il nuovo oggetto come attivatore di aspetti di Sè. L’oggetto che l’analista offre, ha una qualità specifica, con una valenza anche sensoriale, che viaggia verso la soggettivazione: ogni incontro è una esperienza ed occasione unica con un oggetto nuovo e in quanto tale permette di scoprire cose nuove di sé. L’incontro con uno sconosciuto e con un aspetto di sé sconosciuto, l’inconscio appunto, si accompagna alla capacità di ascolto dell’analista, la capacità di raccogliere il sé diverso del paziente, altro da quello abituale che viene riconosciuto quotidianamente al paziente; è questo che definisce l’incontro come primo atto di cura psicoanalitica

Negli altri interventi della tavola rotonda, Roberta Guarnieri presenta la sua esperienza anche nel contatto con la realtà francese e riporta una serie di dati di realtà, quali la crisi economica, come elementi da considerare nell’analisi della fattibilità del progetto dei centri clinici. Sottolinea l’importanza del momento della consultazione come incontro pienamente psicoanalitico avente un valore di per sé, al di là degli sviluppi che avrà o meno. Ulteriormente posa l’attenzione sul valore del lavoro di gruppo, come occasione di lavorare con un controtransfert allargato, ma anche come elemento di controllo rispetto all’istituzione come super io castrante. Fiorella Petrì porta l’esperienza del centro di Consultazione di Napoli, e della metodologia seguita con quattro incontri gratuiti proprio per il convincimento che la consultazione sia di per sé il primo atto di cura, la non previsione dell’invio, se non laddove venga formulata una richiesta soggettiva in tale direzione. La domanda proviene per lo più da classi sociali non agiate, e quando c’è una richiesta di intraprendere una analisi i pazienti vengono inviati agli allievi anziani. Questo è il senso del “dovere di cura” allargato all’istituzione.

Il dibattito conclusivo, estremamente partecipato, sviluppa ed estende alcune questioni relative ai vari modelli di valutazione, alla necessità dell’estensione del setting, all’attenzione al contesto socio-economico e alle nuove forme di comunicazione digitale. Infine la condivisione dell’idea che l’istituzione di centri clinici non possa prescindere da una riflessione circa le esperienze dei centri di consultazione porta al suggerimento della denominazione di Centri di Consultazione e Trattamento Psicoanalitico da realizzare nel futuro prossimo.

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