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Report di Elisabetta Papuzza su “La Giornata della Memoria” (Evento intercentri, 30 gennaio 2021)

L’incontro di stamane, oltre che il mio intelletto, ha toccato corde emotive. La Shoah, il razzismo, il male radicale ed estremo, il ricordo, l’oblio, l’ascolto, la memoria del trauma, individuale e collettiva, l’odio, il perdono: temi che coagulano emozioni e pensieri, di costante attualità, punto di convergenza di contributi interdisciplinari, che sfidano la psicoanalisi a confrontarsi e nutrirsi di altri sguardi, letterari, filosofici, artistici, sociologici, e a interagire col sociale, uscendo dalla stanza d’analisi, “compito non semplice - dice Tiziana Bastianini (neopresidente CPdR) - per chi di mestiere è più tipicamente persona d’intimità; eppure l’identità di un popolo, e non solo di un individuo, affonda nella propria storia, e questa va continuamente sostenuta e nutrita da un lavoro di cultura e civiltà (Kulturalbeit) ”, cui la psicoanalisi può e deve offrire il proprio contributo. Luigi Solano (neopresidente CdPR) è particolarmente contento che proprio questa occasione veda i due centri romani uniti, in un momento storico così complesso e doloroso a causa della pandemia.

Il Centro di Psicoanalisi Romano (CdPR) e il Centro Psicoanalitico di Roma (CPdR) celebrano insieme la Giornata della Memoria, attraverso una mattinata scientifica (on line) aperta anche al pubblico, che rappresenta al contempo il primo evento, congiunto peraltro, organizzato dai rispettivi nuovi comitati esecutivi. La prima parte della mattina è introdotta dalle relazioni dei segretari scientifici, cui segue un dibattito; nella seconda parte la dott.ssa De Rosa[1] legge un proprio lavoro, che apre ad un confronto esteso con il pubblico.

Non è un caso che il kulturalbeit di questa mattinata, il difficile lavoro per pensare e ricordare insieme, sia ricco di contributi evocativi, immagini, musiche, opere d’arti, poesie: Alessandra Balloni (segretario scientifico del CdPR) propone un breve filmato di immagini di Manfred Bockelmann, pittore e fotografo austriaco (dalla collezione “Drawing against oblivion”, disegni a carboncino reinterpretati a partire da ciò che l’artista ha trovato negli archivi fotografici ufficiali delle SS), da cui proviene, peraltro, il volto di fanciulla scelto come immagine della locandina della giornata: visi di bambini, disegni in bianco e nero, binari di treni, occhi, sorrisi e foto di ebrei prima in abiti civili e quotidiani, poi in quelli dei campi di concentramento, immagini del campo, quadretti familiari, volti tristi e svuotati, sguardi; la musica di un’opera di Rossini sullo sfondo (o in primo piano, a seconda che l’udito prevalga sulla vista), come a sottolineare la prevalenza, ma anche la necessità, di un registro sensoriale e corporeo, piuttosto che linguistico e verbale, per narrare l’irrappresentabilità del trauma, la complessa traduzione di esperienze corporee e sensoriali intraducibili - sottolinea Alessandra Balloni - che forse solo l’arte (e anch’essa a malapena) può svolgere. L’opera “Infiltration for piano” (1966, di Joseph Beuys, Centre Pompidou di Parigi) e condivisa sullo schermo da Balloni, raffigura un pianoforte a coda avvolto da un tessuto, con una croce rossa stampata su di esso, una stoffa che avvolge lo strumento musicale; tale tessuto nella realtà permise all’artista, soldato nazista, ferito in Crimea e soccorso dai locali, di sopravvivere al freddo, come a rappresentare che è necessario l’ascolto della collettività perchè i superstiti possano veramente sopravvivere. Il mio stesso tentativo di descrivere a parole un’opera e le sensazioni che suscita mi appare, infatti, anch’esso solo un timido tentativo.

Fabio Castriota (segretario scientifico del CPdR) sottolinea l’importanza della memoria, della necessità di ricordare, a livello individuale e collettivo, impegnati tutti, come psicoanalisti e come cittadini, ad onorare i valori democratici. Cita Brecht, Baricco, Etty Hillesum, scrittrice olandese ebrea morta a 29 anni ad Auschwitz, Edith Bruck, altra scrittrice, ungherese, sopravvissuta all’esperienza del campo di concentramento e alla perdita di tutti i suoi affetti, e Jen de Nur, lo scrittore polacco deportato e miracolosamente sopravvissuto, poi trasferitosi in Israele, di cui si ricorda il celebre svenimento quando fu chiamato a testimoniare contro il criminale nazista Aidelmann. Da dove i sopravvissuti al lager hanno attinto la forza per resistere, nei campi ma anche dopo e fuori? Quale forza morale e spiritualità, quale resistenza esistenziale ha permesso loro di sopravvivere? L’antisemitismo, nuvola nera sull’Europa, è tornato o non è mai andato via? Cosa sta succedendo nel mondo? Come è possibile elaborare un trauma, un tale lutto? Lo svenimento dello scrittore polacco appare come l’ennesimo eclatante esempio di intraducibilità a parole di un vissuto traumatico, di un’esperienza devastante, un esempio di irrappresentabilità, se non forse proprio attraverso una dissociazione netta, un’assenza, un collasso. Quanto è importante – si chiede Castriota - riconoscere il proprio elemento distruttivo interno, insito in ogni essere umano, per elaborare il trauma e la violenza subita? Qual è il ruolo che gioca il perdono nell’elaborazione di un tale trauma? Quanto è necessario riconciliarsi interiormente con l’aggressore, “dimenticare il desiderio di vendicarsi e separarsi dal proprio persecutore, per rinascere” (Kristeva)? Quanto conta la possibilità’ di creare nuovi legami, di recuperare aspetti fondamentali del Sè, attraverso una nuova relazione di fiducia e di calore, e rivedere il legame tra il Sè e il proprio destino di vittima?

Qui si accende un vivace dibattito (che riporto in modo corale), sul tema del perdono, come a sottolineare il forte impatto emotivo di una questione così sensibile, sia in termini individuali che collettivi: è possibile perdonare? Come incide il perdono nell’elaborazione di un tale lutto? Qual è l’influenza della concezione religiosa rispetto al tema del perdono, quali differenze, per esempio, tra la religione cristiana e quella ebraica? Il perdono è l’esito non solo di un percorso personale della vittima ma richiede il pentimento dei carnefici; in fondo però, citando Bion, anche l’odio è un legame, che impedisce la vita, la rinascita, e sciogliere tale legame richiede il difficilissimo attraversamento del proprio dolore. Viene citato Primo Levi in Sommersi e salvati: “... non so se in me si nasconde un assassino, ma so che sono stato vittima e non aguzzino”, un richiamo alla distinzione fra chi ha subito e chi ha sbagliato, al peso dell’azione reale, al netto di ogni impasto pulsionale e delle quote distruttive di ogni essere umano. Un pensiero viene rivolto anche ai carnefici, vittime anch’esse in un lontano passato, poichè non esiste individuo violento o nazista che non abbia necessariamente a sua volta subito un trauma.

La relazione della dottoressa Barbara De Rosa, dal titolo “Nathalie Zaltzman: la sfida del Kulturalbeit tra testimonianza e ascolto”, che occuperà la seconda parte della mattinata, letto appassionatamente dalla sua autrice, parte da un piccolo e prezioso saggio della psicoanalista francese Nathalie Zaltzman (recentemente scomparsa) in cui viene analizzata la problematica dell’incontro testimoniale e della faglia di Kulturarbeit che l’ha accompagnato, il cui merito è stato quello di condurre la psicoanalisi “extra moenia”, fuori dall’intima stanza d’analisi, ad occuparsi del male radicale, del malessere sociale, del trauma collettivo. Il lavoro di De Rosa “ si propone di approfondire il ruolo, le possibilità e i limiti dell’incontro testimoniale e la dimensione aporetica che sembra connotarlo, oggi potenziata da specifiche fragilità connesse al nostro attuale malessere, ... e prova, altresì, ad accogliere l’invito proveniente dalla letteratura concentrazionaria ad utilizzare la Shoah come una lente di ingrandimento sull’umano - sulle sue potenzialità mortifere così come sulle sue capacità di resistenza in situazioni estreme – applicandola all’individuazione e alla comprensione di insidiosi approcci totalitari all’umano che impregnano il nostro contemporaneo. “

L’intervento di De Rosa suscita un appassionato dibattito: sul ruolo della psicoanalisi, sulla responsabilità dell’analista, chiamato ad ascoltare il trauma dei pazienti ed in tal senso, suo malgrado, ad avere un effetto ritraumatizzante, perchè sollecita il ricordo e il riattraversamento del dolore, processo non solo quindi trasformativo in senso evolutivo ma anche riacutizzante l’esperienza traumatica. L’analista esposto, nella sua persona, al dolore dell’altro, a rivivere i suoi stessi traumi, svolge una funzione fondamentale nel favorire quella rappresentabilità del trauma che il paziente da solo non riesce a raffigurare e che pertanto non può integrare. Dall’individuale al collettivo, cosa impedisce l’elaborazione del trauma nella società? Cosa rende la Shoah un evento sia storico che tragicamente attuale, esempio tragico di una coazione a ripetere che dall’umano porta al disumano? Quali sono i motivi di fallimento del Kulturalbeit, nel gruppo, nella collettività in termini di mancata o insufficiente integrazione psichica? E cosa invece consente di continuare a lavorare in condizioni traumatiche collettive estreme? Come può la psicoanalisi svolgere una funzione integrativa sociale, oltre che individuale?

Barbara De Rosa teme una strumentalizzazione della Giornata della Memoria (il 27 gennaio[2]), un evento che rischia di ridursi a puro evento celebrativo ed estetico, che rischia di finire in una nicchia della storia, mentre invece simboleggia le aberrazioni umane di ogni epoca. Preferisce allora onorare piuttosto la data dell’8 maggio[3], quale simbolo di un percorso della memoria, una serie di esperienze che aiutino individui e collettività ad attraversare e a “sostare nell’aporia”, in condizioni sufficientemente sicure, cioè potenziando la funzione del contenitore (l’adulto, le agenzie educative, la psicoanalisi), tenendo conto delle capacità psichiche del destinatario, onde non sollecitare troppo difese e resistenze (per esempio non si dovrebbe proporre l’oggetto Shoah ai bambini – afferma la De Rosa – poichè è inevitabile che se ne “difendano”).

L’immagine finale si poggia così sull’infanzia, come a riprendere quei volti di bambini in bianco e nero apparsi sullo schermo di ognuno dei partecipanti all’inizio di questa mattinata culturale e scientifica. Uno schermo che ha permesso alle persone di riunirsi e condividere un’esperienza culturale ed umana ma che, al contempo – sottolinea in chiusura Barabara De Rosa, ne ha pure sottolineato una certa scotomizzazione. Un’aporia anch’essa.


[1] Barbara De Rosa è ricercatrice  presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università Federico II di Napoli, docente del corso di  Psicoanalisi, fra le sue aree di ricerca: la questione del male  estremo nel rapporto con il lavoro di civiltà, l'esercizio del  potere nella relazione e il processo di disumanizzazione, la crisi  della funzione adulta nella società moderna. In particolare Barbara De Rosa ha introdotto in Italia il pensiero di Nathalie Zaltzman, psicoanalista francese recentemente scomparsa, fondatrice assieme a Piera Aulagnier del Quartrième Groupe, figura di rilievo nel panorama psicoanalitico contemporaneo ma forse ancora poco conosciuta in Italia. È curatrice del volume “Il male dal prisma del Kulturarbeit” e redattrice della rivista “Notes per la psicoanalisi”.

[2] 27 gennaio 1945: le truppe sovietiche liberano il campo di Auschwitz e rivelano al mondo le atrocità del genocidio nazifascista.

[3] 8 maggio 1945: si conclude la seconda guerra mondiale in Europa.

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