Martedì, Marzo 19, 2024

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Perrotti N., L’aggressività umana. 1972

 

Nel 1950 i non molti analisti italiani di allora si riunirono in un Congresso, il cui tema era: “L’aggressività”. La relazione di apertura di quel Congresso venne tenuta dal Prof. Nicola Perrotti. La ripubblichiamo qui, oltre che per alcuni interessanti concetti in essa contenuti, per ravvivare e onorare la memoria di Nicola Perrotti, la cui scomparsa ha lasciato nella psicoanalisi italiana, e soprattutto nel suo Istituto di Psicoanalisi, un vuoto non facilmente colmabile.

L’aggressività umana*

* Quaderni di Psiche, 1951.

L’istinto sessuale ha fatto molto parlare di sé in questi ultimi anni, e la psicoanalisi che ne studiava le sorprendenti manifestazioni veniva accusata di pansessualismo.

Era uno scandalo.

Ora quei giorni sembrano lontani. Negli ambienti culturali più progrediti le idee scaturite dalla psicoanalisi sono universalmente accettate, e con esse anche il polimorfismo dell’istinto erotico.

Oggi sono le tendenze distruttive, gli istinti aggressivi, che hanno il posto d’onore nelle discussioni e nelle polemiche. A dire il vero, prima di essere alla ribalta del mondo scientifico, le tendenze aggressive sono state alla ribalta della storia.

Ogni guerra è caratterizzata dallo scatenamento degli istinti aggressivi, ma l’imponenza e la vastità delle distruzioni, le bassezze, le atrocità commesse ultimamente, sono state tali da farci pensare che mai come in questi tempi l’umanità sia stata pervasa da tanta follia distruttiva.

Noi credevamo davvero che alcune forme di crudeltà e di sadismo fossero per sempre scomparse nei popoli civili; ed è forse per questo che il piacere di uccidere, la gioia di veder soffrire, la voluttà di torturare, ci sono sembrate le cose più inaudite del mondo.

Studiosi e pensatori di tutto il mondo si sforzano di comprendere il significato di questa umana aggressione e cercano di risolvere i problemi che vi sono connessi.

A Londra, nel 1948, due dei tre congressi di psicologia furono dedicati all’aggressività; a Bruxelles si è tenuto un congresso psicoanalitico sullo stesso tema; a Parigi quest’anno ha avuto luogo un congresso internazionale di Criminologia, con l’aggressività, com’è naturale, in primo piano; ovunque, su questo argomento, si accendono discussioni e polemiche.

Poiché questi problemi si pongono e si ripongono, ed investono l’essenza stessa della natura umana, ci è sembrato utile di porre questo argomento come tema di discussione per questo Congresso, nella certezza che gli psicoanalisti e gli psicologi italiani sapranno portare un fecondo contributo alla comprensione sempre più approfondita dell’animo umano.

Le tendenze aggressive

La vita di tutti i giorni ci ricorda che gli uomini, ad onta di secoli di civilizzazione e di cultura, sono sempre quegli animali da preda che tutti conoscono: homo homini lupus.

In linea generale, le occasioni in cui le tendenze aggressive si manifestano con più evidenza sembrano potersi ricondurre a due situazioni fondamentali: rivalità sessuale e lotta per il cibo.

Tutto il regno animale e la stessa società umana sono pieni di queste lotte sanguinose per il possesso della femmina e per la conquista del cibo. Passano davanti alla nostra mente tutte le guerre, i duelli, le rivalità, le lotte per il predominio, con le fatali conseguenze di morte, distruzione e sofferenze.

Tuttavia tutta l’aggressione umana non si lascia ricondurre ad uno stimolo determinato dall’istinto sessuale o da quello di conservazione. L’aggressività sembra proprio connaturata con l’essenza stessa della vita in genere, e con quella dell’uomo in particolare.

Ogni giorno, ogni ora, sentiamo che dobbiamo nutrirci, assicurarci la soddisfazione dei bisogni essenziali, difenderci, proteggerci, migliorare le nostre posizioni; e l’energia occorrente per queste attività è certamente di natura aggressiva.

L’uomo, infatti, fin dai primi mesi di vita, deve servirsi di denti per masticare, per mangiare e per nutrirsi. Ma come il bambino lattante trova naturale mordere il seno materno, così noi tutti non abbiamo affatto la coscienza di triturare crudelmente con i denti la sostanza organica necessaria per la nostra nutrizione.

La stessa natura dell’uomo, come degli animali, esige che per vivere si sia capaci di attaccare e di incorporare la preda; e la stessa digestione è disgregazione di materia organica.

Per vivere bisogna mangiare, per mangiare bisogna uccidere, per uccidere bisogna lottare!”Mors tua vita mea! – spietata, ma inderogabile legge di natura. Non solo, ma nella cruenta lotta per l’esistenza, le sofferenze, l’agonia dell’avversario, non possono non essere avvertite che con suprema gioia.

E l’aggressività non si può nemmeno giustificare affermando che l’animale e lo stesso uomo attaccano soltanto per difendersi dall’aggressione altrui, perché spesso è l’aggressione che precede la difesa.

È facile infatti dimostrare come il prorompente bisogno di aggredire vada in cerca di un pretesto per estrinsecarsi, come nel caso del tipo ben noto di attaccabrighe, che con la scusa di difendere il proprio onore offeso o quello della sua donna, trova il modo di manifestare la sua prepotenza.

Ma la più bella illustrazione, sia pure sotto forma poetica, si può trovare nella descrizione dei cavalieri dell’Ariosto che si combattono a morte per le “angeliche forme di Angelica”, ma anche per un cavallo, per uno scudo, per un emblema; in fondo perché ognuno di essi non può tollerare l’esistenza di un altro cavaliere più forte.

Dice Orlando a Ferraù:

“…Mentitor, brutto marrano,

In che paese ti trovasti, e quando,

A poter più di me con l’arme in mano?”.

Del resto la calunnia, la maldicenza, l’ironia, traducono lo stesso bisogno di demolire il prossimo; e l’attività aggressiva di molti critici letterari, politici e perfino scientifici, è così trasparente da non lasciare dubbi di sorta sulle intenzioni palesi o nascoste degli autori.

Da queste e da altre considerazioni che si potrebbero fare, sembra lecito poter concludere che le tendenze aggressive non si giustificano né con l’istinto sessuale, né con quello di conservazione, né con una necessità di difesa; ma che tendono alla distruzione, senza bisogno di alcuna motivazione.

Questa conclusione però merita di essere meglio chiarita e giustificata, anche perché la genesi delle tendenze aggressive, il loro significato ed il loro inserimento nella vita psichica, sollevano molti problemi di difficile soluzione.

In particolare i punti che si prestano per un’utile discussione sembrano essere i seguenti:

1) Esiste veramente un istinto di morte di cui le tendenze aggressive sarebbero la naturale espressione?

2) In quali rapporti si trovano fra loro l’autoaggressività e l’eteroaggressività ?

3) Le tendenze aggressive sono modalità reattive all’ambiente ed al servizio di altri istinti, oppure sono l’espressione di un istinto primordiale?

4) Quali interferenze vi sono fra le tendenze aggressive e quelle erotiche?

Recenti progressi della psicoanalisi

Prima di rispondere a questi interrogativi, sarà utile ricordare, almeno schematicamente, alcuni progressi fatti recentemente dalla psicoanalisi.

Questi progressi sono dovuti soprattutto alle analisi delle nevrosi infantili, allo studio più approfondito dei meccanismi che presiedono a certe psicosi (schizofrenia, paranoia) ed alla rielaborazione di alcuni processi psichici dei bambini e degli adulti, normali e nevrotici.

Questi progressi hanno determinato un approfondimento nella conoscenza della genesi e della struttura dell’Io e del Super-Io.

Com’è noto, Freud, nel suo lavoro L’Io e l’Es, precisa il suo pensiero sulla genesi e le funzioni dell’Io, che egli descrive come una differenziazione dell’Es. “È facile vedere – egli dice – che l’Io è una parte dell’Es che ha subito una modificazione sotto l’influenza diretta del mondo esteriore”. L’Io perciò sarebbe un prodotto dello sviluppo e tenderebbe a coordinare gli impulsi parziali dell’Es, e questi con le possibilità ambientali, ed infine a mantenere gli stimoli interni entro certi limiti compatibili con l’integrità dell’organismo.

Per questi scopi l’Io dispone di quattro facoltà fondamentali: 1) Percezione interna dei bisogni istintivi; 2) Percezione delle condizioni esistenti nell’ambiente; 3) Facoltà integrativa con la quale può coordinare le “spinte” istintive l’una con l’altra e con l’esistenza del Super-Io; 4) Facoltà esecutiva con la quale controlla la condotta volontaria: facoltà questa molto importante perché con essa può controllare i dati del mondo esterno e modificare l’ambiente stesso per renderlo più adatto alle soddisfazioni dell’Es.

Per adempiere a queste funzioni, l’Io deve continuamente lottare contro le tendenze istintive primitive; e per difendersi da queste spinte istintive, e dai conflitti che ne risultano, l’Io costruisce le sue difese, fra le quali la rimozione è quella che è stata più studiata.

Questo concetto delle difese dell’Io è stato applicato a quei meccanismi di difesa in atto nei primi stadi dell’organizzazione dell’apparato psichico, prima ancora che si siano stabilite delimitazioni precise fra l’Io e il mondo esteriore. A questo proposito Melanie Klein insiste sull’importanza speciale che avrebbero i meccanismi di proiezione e di introiezione.

Alcuni punti di vista di M. Klein e della sua scuola meritano di essere sottolineati e ritenuti.

Anzitutto l’attenzione posta alle fasi preedipiche ed in modo particolare alla fase orale, nei primi sei mesi di vita.

In secondo luogo, l’aver messo in evidenza la genericità e l’elementarità delle risposte che il neonato dà alle sensazioni interne ed esterne. Per lui non esistono che oggetti buoni e oggetti cattivi ed una modalità reattiva unica: quella dell’introiezione e della proiezione.

Per quanto, nelle sue esposizioni, Freud faccia continuamente riferimento a situazioni preedipiche, purtuttavia il Super-Io che egli andava descrivendo prendeva consistenza dalla situazione edipica. Egli così si esprime: “…questo ci conduce alla nascita dell’Ideale dell’Io, poiché dietro questo ideale si dissimula la prima e più importante identificazione effettuata dall’individuo: quella con il padre...”.

Ma l’attenzione degli psicoanalisti, soprattutto sotto l’influenza dei progressi della psicoanalisi infantile, si è andata sempre più rivolgendo ai meccanismi che preludono al sorgere dei primi rudimenti dell’Io, del Super-Io e dei primi conflitti.

Il problema dell’Io in rapporto ai primi conflitti fra le tendenze erotiche e quelle distruttive, è uno dei punti di divergenza fra la scuola di M. Klein ed altri eminenti psicoanalisti, tra i quali basterà ricordare A. Freud e Glover.

M. Klein, infatti, a differenza degli altri, sostiene che l’urto fra le tendenze opposte del tipo amore-odio avviene prima che sia stabilito un Io centrale capace di integrare i processi mentali; ed in fondo questa controversia si riduce al problema se sorga prima l’Io o il Super-Io.

Evidentemente il fatto stesso che esiste una controversia dimostra che nessuna delle due teorie si presta a spiegare in modo chiaro e persuasivo il meccanismo di questi primi processi psichici.

Ora, non potendo indugiare su questa discussione e non volendo seguire la scuola di M. Klein nel gioco delle proiezioni e introiezioni dei buoni e dei cattivi oggetti, delle tendenze a divorare gli organi dei genitori ed a essere divorati, ma applicando i punti di vista sopra esposti, che la mia esperienza mi induce a condividere, credo di poter indicare un’altra via di accesso alla comprensione delle prime reazioni aggressive del neonato, seguendo a ritroso il complesso di evirazione.

Secondo la concezione classica questo complesso deriva direttamente dal complesso edipico. Ma gli psicoanalisti, per poter spiegare tutta la potenzialità emotiva inerente a questo complesso, hanno sentito sempre il bisogno di far riferimento ad altri eventi che avessero il significato di una separazione o di una mutilazione, come lo svezzamento e la stessa nascita. Ciò che già implicava la necessità di ricercare nelle fasi preedipiche i precedenti affettivi del complesso.

D’altra parte è ugualmente noto che il neonato non sa distinguere quanto appartiene al proprio corpo e quanto appartiene al corpo della madre o al mondo esterno. Egli anzi considera la mammella come facente parte del suo organismo, e se non la trova a sua disposizione, l’allucina. Quando anche questa allucinazione si addimostra deludente, egli si irrita e manifesta forti tendenze aggressive per riavere quello che egli considera come suo e che gli è stato tolto.

Dopo ripetuti tentativi deludenti egli realizza la differenza fra un oggetto buono (che si può avere) e un oggetto cattivo (che non si può avere), e poiché la soddisfazione dei suoi bisogni è incostante e dipende dall’arbitrio dell’oggetto che per solito è un unico oggetto: la madre, che a volte è un buon oggetto ed a volte è un cattivo oggetto, egli infine realizza che si tratta di un oggetto problematico, indipendente, diverso, staccato da lui.

Egli però, in ogni caso, si sente defraudato, privato di qualche cosa che gli apparteneva, e reagisce a questa situazione con violenta aggressività. Tutti i pianti, tutti i suoi sforzi tendono a riavere quanto gli apparteneva, a ricongiungersi con quanto gli è stato strappato. Egli non conosce che un modo solo per avere quello che desidera e per riavere quello che gli è stato tolto: l’ingestione orale, l’introiezione. In particolare egli introietta, con la mammella, la madre e questa introiezione, che è una riconquista, è un’identificazione, anzi è un’identificazione appunto perché è una riconquista.

A proposito dell’identificazione Freud, ad un dato momento, dice: “…all’origine della fase orale, primitiva, nell’individuo la concentrazione su un oggetto e l’identificazione sono processi difficili ad essere distinti l’uno dall’altro”.

Ebbene, questo aspetto oscuro dell’identificazione può essere lumeggiato se si ammette che esso è condizionato dalla tendenza a ricongiungersi, a riavere quanto, per effetto di una mutilazione o di una privazione, è stato tolto.

Il neonato, dunque, in primo luogo si identifica con l’oggetto piacevole che considera come facente parte del suo organismo. Si tratta di un’identificazione avanti lettera, del tutto primaria, perché il neonato sente il latte tiepido, dolce e calmante la sua fame, allo stesso modo come sente il sangue che circola dentro di sé e la mammella come il proprio corpo che muove piacevolmente.

Soltanto quando il latte non è a sua disposizione ed in quantità sufficiente, egli incomincia a provare la spiacevole sensazione di un desiderio insoddisfatto. Allora allucina la mammella ed il latte, si illude di poppare; ed anche in questo caso si identifica con l’oggetto. Ma questa è un’identificazione allucinata, prima fonte delle future fantasie sostitutive.

Quando, poi, questa illusione di soddisfazione fittizia si addimostra insoddisfacente, egli realizza l’esistenza di oggetti spiacevoli e indipendenti da lui. Se poi introietta lo stesso oggetto, a volte soddisfacente altre volte insoddisfacente, si ha un’identificazione con un oggetto piacevole e spiacevole ad un tempo. Ma perché l’oggetto piacevole-soddisfacente o spiacevole-insoddisfacente si trasformi in oggetto buono o cattivo, è necessario che vi sia un inizio di oggettivazione, fatto questo che, come vedremo subito, ha una certa importanza per il problema dell’origine dell’aggressività e dell’autoaggressività.

Io poi credo che contemporaneamente alla qualificazione dell’oggetto – ciò che comporta la scissione del mondo esterno in buoni o cattivi oggetti, in oggetti amici o nemici – si operi una modificazione dell’Es secondo una duplice direzione e si formino contemporaneamente ed in maniera interdipendente i primi nuclei dell’Io e del Super-Io.

Il fatto che l’universo si scinda da una parte in proprio organismo e dall’altra in mondo esteriore, la realtà esteriore si divida in buoni e cattivi oggetti, e le istanze psichiche che si vanno differenziando si dividano in Io e Super-Io, costituisce il fondamento psicologico della tendenza insita nell’uomo a ricongiungere ed a ricomporre le diverse parti in una unità superiore che a sua volta torna a dividersi per nuovamente ricomporsi; il fondamento psicologico, cioè, di quella dialettica che giustamente sta tanto a cuore a Lacan.

A ben considerare le cose, si può dire che in un determinato periodo di tempo, verso i sei mesi di vita, si producono le prime e più importanti modificazioni psicologiche del neonato che – ripeto – consistono nelle prime tendenze all’oggettivazione del mondo esteriore, nelle prime categoriche qualificazioni degli oggetti e nella formazione dei primi nuclei dell’Io e del Super-Io.

La nascita psicologica

È questo un momento veramente cruciale nella vita umana, a tal punto che io non esiterei a considerarlo come la vera nascita, la nascita psicologica. È da quel momento, infatti, che il neonato, da un essere prevalentemente fisiologico, diventa un essere prevalentemente psicologico, mentre tutto il periodo precedente potrebbe essere considerato come un periodo prenatale, con una fase intrauterina ed una extrauterina. Comunque, questo momento della vita psichica infantile, che ci appare come il punto nodale più importante per l’ulteriore sviluppo della personalità, è anche il punto più delicato per l’evoluzione psichica ulteriore, perché tutte le modificazioni alle quali si è accennato possono essere disturbate o compiersi in maniera disordinata. La differenziazione, ad esempio, dell’Io dall’Es può avvenire con ritardo; l’obiettivazione degli oggetti può essere incompleta; in modo particolare quell’identificazione allucinata della quale abbiamo parlato può permanere come una modalità di soddisfazione preferita in luogo della soddisfazione reale; ed altrettanti disturbi o tendenze a disarmonie molto gravi possono essere determinanti in quel momento.

Io credo che gli autori che si sono occupati di questi meccanismi, avendo osservato quei casi che sono al confine della schizofrenia e della paranoia ed avendone intuito i meccanismi patogeni che si svolgono in questo periodo dell’infanzia, hanno creduto che si trattasse di processi normali e generali, mentre erano la conseguenza di un già grave disturbo di questo periodo evolutivo.

Ritornando ora al problema dell’aggressività, nessun dubbio v’è che la prima sensazione del bambino al suo nascere sia una sensazione spiacevole, come pure che il suo primo grido non sia soltanto un’espressione di dolore, come potrebbe essere un lamento, ma una protesta, un’aggressione tendente ad allontanare gli stimoli dolorosi ed a ristabilire la situazione preesistente.

Queste manifestazioni aggressive si ripeteranno tutte le volte che egli sentirà un bisogno non soddisfatto. Ogni soddisfazione sarà accompagnata da distensione e da rilasciamento fisico, mentre le insoddisfazioni saranno seguite da irrigidimento, da moti muscolari, da grida o da pianti collerici, che sono tutte manifestazioni aggressive.

Se la soddisfazione ritarda, la scarica aggressiva aumenta ed aumenterà fino all’esaurimento completo dell’organismo, come ha illustrato la Dr. Dolto-Marette.

Ma, come osserva Nacht, l’aggressione è un fenomeno biologico generale, mentre l’odio è un fenomeno psicologico; come avvenga questo passaggio non è facile precisare.

Però, in base a quanto abbiamo osservato, si può dire che la risposta aggressiva all’insoddisfazione è diversa dalla risposta aggressiva alla frustrazione. E la frustrazione si determina quando la soddisfazione e l’insoddisfazione sono incostanti, capricciose e all’arbitrio dell’oggetto; quando il bambino, abituato a vedere soddisfatti con un certo ritmo i suoi bisogni, improvvisamente vede delusa questa aspettativa. È allora che egli si sente maltrattato, come se la soddisfazione dei suoi bisogni dipendesse da cattiva volontà dell’oggetto. È in questo momento che l’aggressione (fenomeno fisiologico) si trasforma in odio (fenomeno psicologico).

Anche questa trasformazione entra nel quadro del periodo nodale che abbiamo qualificato come nascita psicologica. E lo stesso si può dire dal sentimento di colpa, collegato a questi meccanismi,

che in questo momento fa la sua comparsa e che tanta parte ha nell’ulteriore sviluppo psichico del bambino.

A partire da questo momento è facile seguire l’ulteriore sorte delle tendenze aggressive; e la relativa descrizione corrisponde a quella ormai classica, per es. a quella che così lucidamente ha fatto Nacht al Congresso di Bruxelles.

Dall’insieme di queste considerazioni discendono alcune conclusioni degne di nota:

a) non si può descrivere tutta l’aggressività umana come conseguenza della frustrazione, quindi come una reazione all’ambiente esterno;

b) l’aggressività si manifesta primitivamente come una forza al servizio di una tendenza originaria a possedere il mondo, considerato come proprietà esclusiva del soggetto, poi come reazione contro qualsiasi privazione e contro ogni minaccia alla integrità fisica, ritenuta come un tentativo di sopruso mutilante. Infine l’aggressività tende con particolare vigore ad allontanare e distruggere la causa o la presupposta causa di uno stimolo doloroso o di un’eventuale minaccia attuale o futura;

c) l’aggressività ci appare pertanto come l’espressione di una tendenza primitiva ed irriducibile, a servizio ed a protezione della vita.

L’autoaggressione

Ma quest’ultima affermazione, che concepisce l’aggressività come una tendenza di vita, incontra subito una grande difficoltà: se è vero che le tendenze aggressive sono a protezione della vita, come mai esse si rivolgono molto spesso, troppo spesso, contro la vita? Le tendenze autodistruttive, i processi autopunitivi, le terribili nevrosi ossessive, le depressioni malinconiche, la stessa nevrosi d’échec, così ben descritta da Laforgue, ne sono una dolorosa, ma chiara dimostrazione.

Esaminiamo brevemente le principali modalità dell’aggressività rivolta contro se stessi.

Una prima modalità è dato scorgere nel comportamento dei bambini, i quali, quando sono fortemente incolleriti, si graffiano il viso, si feriscono il corpo ed arrivano a sbattere la testa “contro il muro”– il lettino –; quasi che l’aggressione non trovando sfogo, refluisse e si scaricasse sul proprio corpo.

Un’altra modalità è rappresentata dalla forza che inibisce un impulso istintivo. Il bambino vuol toccare un carbone acceso; si scotta, e da quel momento l’impulso a toccare il fuoco è inibito. Donde proviene l’energia necessaria ad inibire questo impulso? Evidentemente si tratta di energia aggressiva utilizzata ad inibire una tendenza istintiva, con il chiaro scopo di proteggere l’integrità dell’organismo.

In altri casi si può osservare un’inibizione più o meno volontaria dell’impulso aggressivo. Un figlio rimproverato ingiustamente dal padre, un impiegato maltrattato dal superiore, un marito tormentato dalla petulanza della moglie, se sono “bene educati”, rimarranno impassibili e soltanto qualche contrazione delle mascelle potrà svelare un’aggressività repressa. Repressa perché l’esperienza ha insegnato che ad una reazione impulsiva potrebbe seguire una sofferenza maggiore, un danno più grave.

L’impulso aggressivo allora viene represso, l’attacco differito, l’aggressività frenata ed immagazzinata. Il morale Super-Io, che assolve a questa funzione, appare veramente come un accumulatore e un deviatore dell’aggressività. Esso allora, una volta armato di energia aggressiva, se ne servirà per reprimere, a volte con eccessiva severità, tutti gli impulsi aggressivi o erotici che siano o sembrino pericolosi.

Una terza modalità di autoaggressione si può riscontrare nell’autopunizione per sentimento di colpa, dinanzi alla quale si ha l’impressione che una parte della personalità rimproveri, accusi e punisca l’altra parte. Sono i casi in cui più evidentemente cariche aggressive sono rivolte contro la personalità del soggetto.

Al fondo del sentimento di colpa – che è alla base di ogni conflitto e forse di tutta la vita psichica – sta l’identificazione di cui sempre più si scopre l’importanza e la generalizzazione. Per comprendere i meccanismi primordiali dell’autoaggressione per sentimento di colpa, bisogna riferirsi ai complicati meccanismi di identificazione, all’introduzione degli oggetti buoni e cattivi, di cui abbiamo prima parlato.

A scopo illustrativo citerò una modalità di autoaggressione, meno primitiva, ma più caratteristica.

Come è noto, contrariamente alle tendenze aggressive, l’altro istinto fondamentale, quello sessuale: l’Eros, avendo bisogno di oggetti per la sua soddisfazione, ha la tendenza a contrarre legami ed attaccamenti duraturi con gli oggetti esterni e con le persone di questo mondo. È attraverso questi attaccamenti affettivi che noi piano piano emettiamo i nostri “pseudopodi” ed estendiamo i confini dell’Io. I genitori, i fratelli, i parenti, gli amici d’infanzia, i maestri, i compagni di lavoro, sono le persone alle quali normalmente ci affezioniamo.

Le modalità di questi attaccamenti sono complesse, ma si può dire che essi avvengono tramite l’identificazione con l’oggetto amato. Una parte, cioè, della nostra personalità si modifica, si plasma sul modello dell’oggetto ed acquista le sue qualità e le sue istanze: il risultato più notevole di questa identificazione consiste nel fatto che, mentre l’oggetto amato viene introiettato, contenuto nella nostra personalità, una parte di noi stessi viene collocata nella persona amata: la persona amata vive in noi e noi viviamo in essa.

Si comprende così perché sono soltanto gli oggetti investiti del nostro amore quelli che sono protetti dalla nostra aggressione: perché aggredire e distruggere la persona amata equivarrebbe ad aggredire e distruggere noi stessi.

Ma spesso, troppo spesso, ci accorgiamo che le persone amate ci deludono: il padre è ingiusto e severo con noi, la donna amata ci tradisce, l’amico ci umilia. Allora noi ripudiamo l’oggetto amato ed una terribile collera ci invade. La collera e l’aggressione, dirette contro queste persone che ormai sono dentro di noi, sono in realtà dirette contro una parte di noi stessi. L’aggressione diventa autoaggressione, con le terribili conseguenze che questo stato di cose comporta. Accade allora che la parte della nostra personalità che contiene l’identificazione con la persona ripudiata viene considerata estranea, viene isolata e possibilmente espulsa.

Attraverso queste ed analoghe considerazioni si può perciò dimostrare che tutta l’autoaggressione può essere ricondotta ad eteroaggressione, e che perciò in definitiva non esiste nessuna difficoltà ad ammettere l’esistenza di un istinto aggressivo originario, rivolto verso l’esterno ed a protezione dell’organismo vivente.

Esiste un istinto di morte?

Dobbiamo, a questo punto, esaminare brevemente l’ipotesi dell’esistenza di un istinto di morte.

Come è noto, Freud da principio aveva distinto l’istinto sessuale dagli istinti dell’Io, fra i quali poneva l’istinto di conservazione e l’istinto di potenza o di autoaffermazione. Fra questi due gruppi di istinti egli ammetteva la possibilità di conflitto e la forza repressiva la faceva derivare dagli istinti dell’Io. Più tardi, egli fu indotto ad abbandonare questa sua prima teoria che non si prestava più a spiegare i meccanismi psichici inerenti al narcisismo, ed ammise l’esistenza di due istinti fondamentali, l’istinto erotico: istinto di vita, e l’istinto distruttivo: istinto di morte.

Per giustificare questo istinto di morte, egli faceva valere molte considerazioni, fra le quali la coazione a ripetere situazioni passate ed una tendenza, innata alla sostanza vivente, al riposo, alla quiete ed all’inorganico. Per spiegare tutte le manifestazioni delle tendenze distruttive, egli sosteneva che, analogamente a quanto accade per l’istinto erotico, anche l’istinto di morte, originariamente rivolto verso se stessi, potesse poi estrovertirsi e rivolgersi verso il mondo esterno, sotto forma di aggressione, di odio e di morte. Questa ipotesi di un istinto di morte fu accolta con molta riserva da parte degli psicoanalisti e da alcuni decisamente negata fin da principio.

Quando, qualche tempo fa, io criticavo questa ipotesi, pensavo di dover vincere molte resistenze; oggi ho l’impressione che la concezione di un istinto di morte venga ormai tacitamente e pacificamente accantonata da quasi tutti.

Non indugerò pertanto a rilevare che questa ipotesi appare più come un frutto di considerazioni metafisiche che il risultato di osservazioni di fatti, né rileverò come gli odii, i combattimenti, le guerre, appaiano certamente come conseguenza delle tendenze aggressive umane, ma non come l’espressione di un istinto di morte. Combattendo si può incontrare la morte, ma il nostro istinto ci spinge a provocare non la nostra morte, ma quella dell’avversario. E sarebbe veramente inconcepibile un istinto di morte che planasse sugli esseri viventi e fosse pronto ad incarnarsi in quegli che stesse per essere ucciso dall’avversario.

Né è giustificato il dubbio che noi possiamo essere più facilmente portati alla concezione di un istinto di vita che non a quella di uno di morte perché ci farebbe velo la parte cosciente della nostra personalità. Al contrario, giustificato mi sembra l’altro dubbio che, col pretesto dell’istinto di morte, si abbandoni l’osservazione obiettiva dei fatti e si indulga a speculazioni intellettualistiche.

La concezione, pertanto, piana, geometrica, suggestiva, di Freud, di due istinti fondamentali simmetrici, in perpetuo contrasto, dovrà essere modificata, ed al suo posto si dovrà mettere quanto l’osservazione obiettiva dei fatti ci induce a ritenere e cioè l’esistenza di un istinto aggressivo primario ed irriducibile, al servizio della vita e non della morte.

Resta sempre grande il merito di Freud, anche in questo campo, per aver saputo individuare l’istinto aggressivo, isolandolo da altri istinti e soprattutto da quello cosiddetto di conservazione.

La nozione di istinto

L’altro quesito è il seguente: queste tendenze aggressive sono tendenze reattive parziali, dipendenti da altre istanze, o appartengono ad un unico istinto?

Per rispondere a questo interrogativo, bisognerebbe anzitutto chiarire la nozione di “istinto”, cosa non agevole, perché sull’argomento fervono tuttora le più vivaci discussioni.

È da molto tempo, del resto, che biologi, filosofi e psicologi, discutono sull’“istinto”. Per alcuni l’istinto è intelligenza degradata ed automatizzata, per altri invece è il germe primordiale di ogni forma d’intelligenza; per molti, l’istinto è tutto, per altri è nulla. Queste divergenze che, sotto forme diverse, risorgono continuamente, stanno a indicare che molto probabilmente il problema è mal posto e che le difficoltà sono inerenti alla nozione stessa che si vorrebbe precisare.

Comunque, non entrerò in queste discussioni, anche perché so in anticipo che qualunque posizione prendessi sarebbe sempre attaccabile. Dirò soltanto che la nozione di istinto, criticabile tutte le volte che si voglia qualificarla con caratteri rigidi ed immutabili, si presta tuttavia ad esprimere abbastanza bene il concetto di un incitamento, d’un impulso ad agire in un certo senso determinato per raggiungere uno specifico scopo, non prestabilito. Se poi si dovesse constatare che un determinato comportamento istintivo varia sotto l’influenza di fattori endogeni ed esogeni, questo starebbe precisamente a dimostrare che l’impulso fondamentale al quale sono pur condizionate queste varianti, è quello che viene concepito come un istinto primario. Ritengo pertanto che, con queste riserve e con quella che farò più avanti, si possa conservare la nozione d’istinto.

Alexander, a proposito delle tendenze aggressive, ha formulato un’ipotesi secondo la quale la tendenza alla disintegrazione sarebbe una tendenza separatistica di autoaffermazione e di natura narcisistica da parte di alcuni elementi (cellule, organi), già integrati in un’unità più vasta. La morte allora sarebbe conseguenza di questa anarchia, non il fine della tendenza stessa. Egli applica il concetto di queste tendenze disintegrative alle nevrosi ed illustra i conflitti che sorgono fra le tendenze dell’organismo intero e quelle parziali che vorrebbero emanciparsi per avere più immediata soddisfazione.

Questa teoria molto seducente, perché applicabile tanto alla cellula, rispetto all’organismo intero, quanto all’organizzazione psichica nel suo complesso, come pure alle collettività sociali, si riallaccia alla concezione secondo la quale l’energia erotica costruttiva sarebbe connessa con l’“anabolismo” cellulare e l’energia aggressiva con il “catabolismo”.

Questa concezione è interessante perché getta un ponte fra la parte organica e la parte psicologica dell’uomo e perché si è dimostrata feconda di applicazioni, dando impulso alla medicina psicosomatica.

Non sembra però che si abbiano finora sufficienti dati dell’esperienza per potersi pronunciare sulla validità scientifica di questa concezione che qualche volta dà l’impressione di essere il frutto di troppo intelligenti costruzioni, ma fondate su analogie meritevoli di ulteriore verificazione.

L’istinto aggressivo come istinto di vita

Abbiamo già osservato che il comportamento umano, sia nell’infanzia come nell’età adulta, induce a farci ammettere che le tendenze aggressive siano indipendenti dall’istinto sessuale e da quello di conservazione; abbiamo poi anche accennato – e gioverà ripeterlo – che l’aggressività umana non può essere tutta spiegata come una reazione alla frustrazione, ciò che implicherebbe che le reazioni aggressive sarebbero in definitiva determinate dall’ambiente. E su questo punto sono del tutto d’accordo con quanto scrive A. Freud: “Gli ostacoli frapposti dall’ambiente alla realizzazione dei desideri, accrescono l’aggressività del bambino, ma non la creano”.

Ma è soprattutto l’onnipotenza, l’universalità delle tendenze aggressive, in tutti i campi, in tutti i luoghi, in tutte le età, che ci inducono a concludere con J. Boutonier:

“Ogni gesto, ogni atteggiamento che conduce ad una distruzione, ad un’aggressione, ogni sentimento (simpatia, orrore, timore, desiderio) che accompagna la coscienza di un’aggressione, permette di svelare l’esistenza di un unico e primario istinto distruttivo o aggressivo”.

Primordiale, dunque, irriducibile, cieco, l’istinto aggressivo ci appare come un potenziale elettrico di cui è carico il rivestimento dell’essere vivente, pronto a sprizzare scintille ed a scaricarsi attraverso qualche punta o appiglio offertogli dal mondo esteriore.

L’aggressività in rapporto con l’Eros

Orbene, dal momento che consideriamo tutti e due gli istinti primari, quello erotico e quello aggressivo, come istinti di vita, nulla vieta di considerarli come una differenziazione di un istinto di vita.

Ad avvalorare questa idea sta il fatto incontrovertibile che in tutti gli atti della vita, in tutti i processi psichici, sono presenti e concordi entrambi gli istinti: dall’atto del mangiare a quello sessuale, dal lavoro manuale a quello intellettuale. Soltanto quando essi sono discordi, quando, ad esempio, è carente l’istinto aggressivo, si producono perturbamenti gravi come l’anoressia mentale e l’impotenza virile.

Per spiegare questi fatti, Freud ricorse all’idea dell’impasto e disimpasto dei due istinti, concezione questa che fin dal principio destò molte perplessità per le difficoltà che si incontravano a conciliare l’ipotesi di due istinti che sono per definizione di senso opposto, ma che viceversa, nella vita normale, vanno sempre d’accordo.

Evidentemente sarebbe bastata una critica a fondo di questi fatti per arrivare alla concezione che, a mio giudizio, è quella esatta, e cioè che in fondo si tratta di un solo istinto di vita che ha due momenti, o due aspetti, che rispettivamente si caratterizzano come erotismo e come aggressività. Il primo di questi aspetti è percettivo, l’altro motorio; l’uno è più collegato con la sensibilità interna, l’altro con la motilità; il primo è in rapporto con l’immaginazione, l’altro con la realtà.

È l’Eros che percepisce il piacere e il dolore, che è il portavoce dell’Es, che avverte le tensioni che si creano, che spinge ad avere una soddisfazione immediata e, quando questa è ostacolata, cerca, guarda, suggerisce altre possibilità. Se esso trova ostruita la strada maestra, ne trova altre più tortuose; sa nascondere e mascherare le intenzioni vere dell’Es, sa trovare compromessi, incalza ed incita all’azione, crea legami durevoli con gli oggetti: è l’attività che unisce, lega, costruisce.

L’aggressività, invece, appare come un organo esecutivo che, mediante la motilità, ha più presa sul mondo esterno, che può attuare quanto l’Es esige, che elimina ostacoli, abbatte nemici e rivali, costringe l’ambiente a piegarsi ai suoi voleri, ed in ogni caso tende alla sicurezza, alla tranquillità, alla serenità dell’organismo. L’Eros è un faro, una luce, che cerca possibilità vecchie e nuove; l’aggressività è il macigno che tutto stritola pur di salvare il salvabile.

Secondo questo modo di vedere, l’atteggiamento originario sarebbe di ostilità verso il mondo, e soltanto in secondo tempo questa ostilità sarebbe controbilanciata da attaccamenti affettivi per quegli oggetti di cui ha bisogno: donde l’ambivalenza originaria. Ma l’attaccamento affettivo può sorgere con ritardo; in ogni caso è condizionato da molteplici fattori e non sempre, anzi molto raramente, riesce a compensare le cariche aggressive.

Orbene, tutto ci induce a ritenere che è proprio questo fatto, l’aggressività che colpisce gli oggetti amati, quello che costituisce la fonte principale dei conflitti psichici, anche di quelli del tutto primitivi, di cui parla M. Klein; mentre quella tensione, quel disagio, quel malessere che chiamiamo sentimento di colpa, ci appare come l’espressione subiettiva di questo conflitto organico.

***

Seguendo questo corso di idee, molti aspetti della personalità si lumeggiano e molti processi della storia psichica individuale potrebbero essere rielaborati da questo punto di vista. A proposito, ad esempio, del Super-Io, ricorderò che da molto tempo io avevo insistito sull’opportunità di separare l’Ideale dell’Io dal Super-Io, adducendo precisamente il fatto che l’Ideale dell’Io è una formazione proveniente dall’Eros, mentre il Super-Io – come abbiamo sopra osservato – proviene dall’aggressività. Oggi che le scoperte della Klein inducono ad ammettere un Super-Io elementare, già questa formazione psichica ci appare formata almeno da tre elementi: un proto-super-Io prelogico, un Ideale dell’Io ed un morale Super-Io.

Partendo, inoltre, da questa concezione, si potrebbe ripensare tutta la descrizione della vita psichica, si potrebbe scrivere una teoria dell’aggressività come è stata scritta una teoria della libido, si potrebbero applicare queste concezioni alle nevrosi e via dicendo.

Io però voglio osservare che, qualora una tale descrizione fosse fatta, l’impressione generale della vita psichica che ne risulterebbe, non cambierebbe molto; ciò che è naturale, solo che si rifletta che, studiando gli stessi fenomeni, da qualunque angolo visuale ci si ponga, si dovrà pur sempre, oltre alla faccia illuminata, illustrare anche l’altra faccia in ombra.

Così, ad esempio, il sadismo può essere descritto come una manifestazione aggressiva, ma purché si tenga conto dell’erotismo che vi si soddisfa, oppure come una soddisfazione dell’erotismo, che però si manifesta mediante una particolare scarica aggressiva.

In ogni caso però sarebbe chiaro che, quando si osservano e si descrivono le manifestazioni aggressive, si parte dal comportamento per risalire all’intenzione, mentre nel caso inverso si parte dalle intenzioni per arrivare alle diverse modalità di comportamento.

Se così sono le cose, infine, si comprende perché la nozione di istinto sia così vacillante. Se infatti esiste un unico istinto di vita, la nozione d’istinto può essere superflua, dal momento che si confonde con quella di “vita”. Basterebbe dire, infatti, che si tratta sempre della vita che si svolge e si manifesta attraverso impulsi, tendenze, conflitti, sentimenti, azioni, volontà, realizzazioni, ecc.

Conclusioni

Volendo ora rispondere alle domande formulate fin da principio, dirò che le osservazioni e le considerazioni fatte finora, conducono alle seguenti conclusioni:

1 ) Un istinto di morte nel senso biologico della parola non esiste.

2) Tutta l’autoaggressione può essere ricondotta ad eteroaggressione, tenendo conto dei processi primari e secondari dell’identificazione.

3) Le tendenze aggressive ci appaiono come manifestazioni di un unico istinto di vita, primario ed irriducibile.

4) I due istinti, erotico ed aggressivo, appaiono come due momenti di un unico istinto di vita, o, per meglio dire, come i due aspetti fondamentali della vita.

Conclusioni supplementari

Molte sono le considerazioni supplementari che a proposito dell’aggressività umana si dovrebbero fare. Accennerò soltanto a quelle più importanti:

1) L’istinto aggressivo, come tutte le forze della natura, è al di fuori del bene e del male, perché si tratta di una forza cieca e spietata, come la caduta dei gravi. Ogni idea morale che vi si volesse annettere rischierebbe di introdurre elementi perturbatori che contribuirebbero soltanto ad oscurare la visione della nostra vita psichica, già di per sé tanto oscura.

2) Che l’aggressività sia utile all’uomo, lo dimostra non solo il fatto che ogni progresso, ogni scoperta, ogni conquista, e che tutte le azioni vitali sono condizionate dalla disponibilità di questa energia, ma che alla stessa costruzione ed organizzazione della nostra personalità contribuisce, ed in modo decisivo, l’energia aggressiva.

3) Si è detto e ripetuto che l’aggressività non è sublimabile, e questo sembra proprio vero; ma se essa non può essere sublimata, certamente può essere canalizzata. Canalizzare non è sublimare, né reprimere, ma è semplicemente utilizzare in modo diverso le forze istintive. Di questa utilizzazione il lavoro manuale è il più antico, semplice e persuasivo esempio. Ma anche lo sport, le competizioni, le dimostrazioni, gli scioperi, i duelli oratori, le battaglie parlamentari, sono altrettante utilizzazioni, abbastanza, ma non sempre, innocue, dell’istinto aggressivo.

***

Prima di chiudere questa esposizione, una domanda viene spontanea, che è nel cuore di tutti.

Vi è un rimedio per quella parte dell’aggressione umana che, non altrimenti utilizzata, fa troppo spesso degli uomini dei criminali oppure degli inibiti e sul piano sociale provoca sofferenze e distruzioni, spesso tanto atroci quanto inutili?

È difficile che, dopo lo spettacolo di tanta aggressività che presenta l’attuale società, si possa avere anche la più piccola dose di ottimismo. Ma anche un pessimismo assoluto è ingiustificato, a patto, naturalmente, di accettare l’uomo, qual esso è, e non quale vorremmo che fosse.

Ama il prossimo tuo come te stesso!

Signore e Signori, io so che nella mia esposizione sono stato manchevole ed incompleto. Ad alcuni di voi essa sarà sembrata in qualche punto oscuro, ad altri molte delle cose che ho detto appariranno superflue. Vogliate tener conto della grande mole di lavori e di considerazioni di cui ho dovuto tener conto, dei molti punti oscuri che mi sono sforzato di chiarire o per lo meno di precisare, ed anche del fatto che ho avanzato delle ipotesi nuove e che ogni nuova concezione richiede prudenza e ponderazione.

All’inizio vi dicevo che la scoperta della libido fatta dalla psicoanalisi è stata per molti anni uno scandalo.

Ora a ben pensarci, la scoperta dell’istinto aggressivo primario ed irriducibile, dovrebbe costituire uno scandalo ben più grande.

Ed invece non vi sarà uno scandalo! E già questo fatto di per sé dice fino a qual punto sentiamo l’aggressività connaturata con l’essenza stessa della nostra vita.

Ma io non vorrei lasciarvi con un’impressione così deprimente; perché, se è vero che l’uomo è pur sempre quell’animale da preda che tutti sappiamo, è ugualmente vero che è l’unico essere al mondo capace di dir no ai propri impulsi istintivi e di sapersi sacrificare per qualche fascinante idealità.

Ma è soltanto mediante l’amore che l’umanità può umanizzarsi, appunto perché è soltanto l’Eros che può proteggere i nostri simili dalla nostra aggressione. Naturalmente nei limiti concessi all’amore; e l’amore ha questo di caratteristico: che ha un raggio d’azione piuttosto limitato.

Ci appare perciò sotto nuova luce la profondità della massima cristiana: “Ama il prossimo tuo come te stesso!” dove per “prossimo” si deve intendere non già il vicino indesiderabile che al massimo si può tollerare, ma colui che può entrare nel nostro nucleo di intimità affettiva.

L’umanità oggi sente il bisogno di un rinnovamento dei suoi legami affettivi su tutti i piani: individuale e sociale; ed ogni principio di rinnovamento nasce sotto i segni del male.

Ma se in questo momento, particolarmente critico per l’umanità, guarderemo all’Eros come ad una bussola, e se terremo conto di tutta la personalità umana, delle sue luci e delle sue ombre, saremo sempre sicuri di agire nel senso della vita, del bene e dello spirito creatore.

Pubblicato in Rivista di Psicoanalisi, 1972 vol. 18( 1), pag. 94-117

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