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Busato Barbaglio C. - Corpo cibo affetti (2015)

21 marzo 2015: "Forme Anoressiche"

Riprendo come titolo del mio intervento quello del volume ‘Corpo cibo affetti’, da me curato con il dottor Lucio Rinaldi del Gemelli, perché bene e sinteticamente esprime il forte valore che sempre più attribuiamo agli equilibri e alle disregolazioni del corpo che è immediatamente esperienza di sé e dell’altro. Quanto ho maturato personalmente e col gruppo di colleghi, con cui ho condiviso in un assetto multiprofessionale e multidisciplinare l’attenzione ai disturbi alimentari, il lavoro psicoterapico e la stesura del testo, ha come prima presa d’atto la necessità di una seria collaborazione tra formazioni diverse per affrontare la multifattorialità   della sofferenza che si coagula intorno al cibo.

Procedendo e riandando alle mie pazienti anoressiche nel tentativo di capire ulteriormente mi è tornata alla mente la fiaba dei fratelli Grimm, Hansel e Gretel e in modo particolare la scena spesso vista da bambina, ma anche rivista da mamma e da nonna in cui Hansel sta nella gabbia e porge alla strega, che non ci vede, un ossicino per testimoniare la magrezza e il non tempo dell’essere mangiato aiutato in questo da Gretel che come nel miglior immaginario del femminile deve accudire la casa per la strega…. Ma perché continua a venirmi in mente questa immagine della fiaba? Chi rappresento io nel mio lavoro di analista: la sorella, la strega o Hansel? A quale di questi personaggi do vita per tutelare la sopravvivenza? Ma anche qual è il gioco che si mette in movimento nella relazione con sé e con l’altro in queste situazioni? Certamente le mie pazienti non mi danno un ossicino da tastare….spesso sono un ossicino loro stesse, non pronto al pasto e alla convivialità. In parte immolate a ripulire la casa, penso all’ossessività presente in quello che fanno e nel pensiero del cibo, in parte ingabbiate a tener buona la strega. Uno scenario nel quale come in molte fiabe la vita si è fermata in attesa… per esempio nella bella addormentata tutti dormono in attesa del bacio del principe, in questo caso della strega che venga messa ad arrostire. Avvicino a questa immagine l’immagine che mi si forma nelle osservazioni sulla relazione madre bambino in modo particolare quando il bimbo sta attaccato al seno….. Se ne colgono a volte distanze e difficoltà di entrambi i partner ad incontrarsi altre volte un incontro gustoso e piacevole, pomelli rossi, dita che accompagnano con disegni sulla pelle il succhiare, sguardi beati. Dita che si aggrappano alle dita della madre. Che cosa è intervenuto a spegnere quei pomelli rossi o quello sguardo beato rendendo complesso l’aggancio per finire poi nella gabbia della strega e che cosa si può fare per liberare la situazione senza o rimanere arrostiti o permanere ciechi a tastare ossicini dalla gabbia? Come ripristinare il piacere per la vita che si avverte anche nella seduta quando qualcosa si scongela e si allarga il bene- essere assieme? E ci si riesce davvero oppure bisogna accettare che ci siano dei funzionamenti che possono essere bonificati, ma che portano con sè per sempre lo stigma, la memoria di qualcosa che non ha funzionato e che nonostante tutto continua a non funzionare. Hansel e Gretel hanno avuto un lutto all’inizio della vita, poi qualcosa ancora non ha funzionato nel prosieguo, nella nuova coppia che si è formata e a dire del mio nipotino non potevano essere tenuti anche per motivi economici perché erano poveri e non perché la matrigna era cattiva. Comunque non potevano essere tenuti e vengono portati nel bosco…. Eppure secondo le più moderne teorie della mente sulle competenze di ogni bambino sin dalla vita intrauterina riescono a tornare a ricollegarsi alla vita, ma non è possibile essere tenuti , sono troppo poveri e vengono riportati nel bosco. Mi ha incuriosito la lettura del mio nipotino che non ha focalizzato l’attenzione sulla mamma matrigna cattiva, ma sulla povertà, facendomi pensare a quanto spesso trasformiamo all’interno della lettura psicoanalitica le madri in matrigne cattive o in madri morte…. Penso piuttosto che ci sia una multifattorialità di componenti che intervengono nella relazione sin dalla gravidanza e fanno si che quella relazione sia difficile, complessa al di là di matrigne cattive o troppo morte. Il filo rosso che mi sembra accomunare le varie situazioni sembra indicare una organizzazione selettiva del pensiero al di là del cibo, un pensiero che appare ricco, puntuale anche con una sua originalità a parlare di emozioni, ma un pensiero senza emozioni o come a volte si afferma nel linguaggio corrente ‘senza pancia’o con una pancia difficile da incontrare’. Una pancia che stenta a farsi. Certamente si tratta di una selettività che si presenta sempre con modalità diverse, ma che tuttavia rende la comunicazione difficile, mononota, reificando nella relazione stessa la frattura. Cioè quel punto al quale si giunge in analisi e si avverte che è difficile andare oltre. A volte anche quando si parla di emozioni magari anche nel pianto c’è un uso del corpo e del sistema emozionale particolare come una trappola che paralizza il procedere….

Come e quando si avvia una strada di selettività che per certi aspetti è parte inevitabile della vita di ciascuno, del crescere di ogni individualità, e ci possono essere risposte al perché viene presa la strada della difficoltà alimentare? Quale difficoltà comunicativa si è avviata, che cosa non ha funzionato? Perché alcune forze diventano predominanti altre più deboli?

Muroni nel suo lavoro sulla selettività alimentare nei bambini afferma che nei neonati che sperimentano un ambiente pericoloso e/o poco ricettivo accada di dover spostare le loro oscillazioni fisiologiche verso valori estremi, di chiudere o di ridurre già in termini somatici la ‘vitalità’ insita in loro, per garantire un qualche livello di sopravvivenza. (Scrive Damasio ‘ogni organismo vivente , ha come valore biologico quello di sopravvivere al meglio fino al raggiungimento della sua capacità riproduttiva. Per fare ciò mantiene l’efficienza dei tessuti all’interno di una oscillazione fisiologica. Ma se percepisce l’ambiente esterno come pericoloso o poco adatto, ..“la vitalità dei tessuti declina e aumenta il rischio di malattia o di morte”.(Damasio A. 2012)

Questo meccanismo a volte sembra risolversi dopo poco tempo, come se gli aggiustamenti ambientali avessero favorito una ripresa, altre volte persistono e caratterizzano il modo di funzionare e di accostarsi alle esperienze di vita. Possiamo ipotizzare che in questi casi l’ambiente probabilmente non sia riuscito ad attivare facilitazioni oppure forse esiste una debolezza strutturale, interna dell’individuo.

Sempre riflettendo sulla frattura pensiero -emozioni ( pensandola alla Shore fra cervello destro e sinistro)mi ha confortato in questa prospettiva una lettura interessante di Baron Cohen: La scienza del male, (2012). L’autore dopo una lunga disamina sulle radici dell’empatia, in modo particolare di quella che lui chiama di grado zero che lo aiuta a leggere varie situazioni cliniche (borderline, autismo, psicopatie) si chiede se questa lettura non sia estensibile ad altre forme per esempio l’anoressia. Partendo da uno studio di Tresaure (2007) che ipotizza l’anoressia come una forma di autismo, quindi prendendo le distanze da una semplice diagnosi di disturbo alimentare afferma: una caratteristica dell’anoressia che molti medici e genitori riconoscono è: ”la mancanza di empatia autocentrata, anche se questa non è considerata un criterio diagnostico. Mentre i genitori di una ragazza si preoccupano di vedere la figlia che continua a discendere la china di un’autoconsunzione potenzialmente fatale, lei può continuare caparbiamente a dire che il suo peso e la sua figura la soddisfano. Può insistere nel voler mangiare separatamente dalla famiglia, più interessata al contare le calorie e a pesare i cibi fino al minimo milligrammo che al suo stare bene nel gruppo familiare .Questa incapacità di comprendere un punto diverso dal proprio sembra essere molto simile ad un’altra forma del grado zero dell’empatia.”

L’autore avvicina l’autismo e l’anoressia per la massima attenzione ai dettagli che entrambe le situazioni comportano e afferma: ”il fatto che nel primo caso” il comportamento ripetitivo ricada nel dominio del cibo e della forma del corpo, mentre nel secondo il dominio sia quello delle ruote di un giocattolo che girano e girano può essere irrilevante”

Colloca questi gruppi di persone in una categoria da lui chiamata “zero positivo” rispetto alla scala dell’empatia e specifica che la caratteristica di queste persone è di ‘tenersi fuori dal tempo’ e che per loro il cambiamento è come un ‘veleno’.

Penso in questa prospettiva al venire in analisi di Giulia a cui sono sparite da tempo le mestruazioni da una parte per non compromettere la possibilità di maternità, ma dall’altra contemporaneamente all’orrore di crescere di un etto.

Oppure ai racconti di cene pantagrueliche che non hanno a che fare con livelli di realtà.

Penso anche che questo potrebbe essere una risposta ai tempi lunghissimi nei quali certi temi si ripetono all’infinito e sembra non abbiano possibilità di sbocco, facendo vivere all’analista impotenza, insignificanza, dubbi sul lavoro terapeutico che sembra in alcune situazioni un guardare senza fine la centrifuga di una lavatrice. Pensieri come movimenti circolari che tornano sempre allo stesso punto-ruote. Come rientrare nel tempo e sopportare il cambiamento, questi due livelli evidenziati da Baron Cohen, ma presenti intuitivamente e legati all’esperienza clinica anche in lavori da me scritti e da Mondello (1992). La lettura oggi mi sembra consustanziata da ricerche che hanno a che fare con mente-cervello e che ci danno notizia di aree del cervello che con probabilità non si sono formate, non sono state attivate o lo sono state molto poco o ancora meglio si sono attivate secondo un percorso particolare e l’adolescenza con le sue mutazioni fisico-psichiche presenta il conto. I circuiti neuronali che sottostanno ad una esperienza somatica sono ben conosciuti, mentre sono meno chiari i processi che sottostanno alla nostra rappresentazione del corpo. Il nostro corpo è la nostra esperienza di noi, ma è anche un oggetto fisico come ogni altro oggetto del mondo. Questa dualità suggerisce due modi attraverso cui possiamo fare esperienza e capire il nostro corpo: da un lato lo possiamo percepire da dentro, dall’altro lo possiamo pensare da fuori, questo è importante e rende ragione di come noi lo percepiamo e di come noi lo ricordiamo o pensiamo che esso sia.Non sempre accade che le due modalità coincidano, anzi a volte esse sono opposte e discordanti come bene lo dimostrano le esperienze degli arti fantasma. Accade infatti che qualora un l’individuo subisca una amputazione di un arto, e pertanto ne sia consapevole, egli possa comunque sensorialmente continuare a percepirlo e provare a metterlo in moto o sentirne il dolore…Ramachandran , un neuroscienziato, ha prodotto un interessante esperimento in cui si ponevano i pazienti davanti ad un congegno di specchi e li si invitava a fissare la propria immagine riflessa, massaggiando l’arto residuo, che nella immagine riflessa corrispondeva all’arto assente, si poteva avere una riduzione del dolore…

Dobbiamo allora chiederci cosa vedono le nostre pazienti anoressiche nella loro immagine allo specchio, un corpo fantasma ? una immagine di sé che non esiste ? Forse non è un caso che oggi una delle tecniche riabilitative usate nei centri di cura per le pazienti anoressiche preveda la Terapia dello Specchio, in un graduale avvicinamento della paziente alla propria immagine riflessa ed in un graduale riconoscimento di un sé amputato di aspetti vitali…

Ma perché spesso la crescita possibile sembra appartenere solo al pensiero, ad un certo tipo di pensiero, ma non al corpo. Come fare un gioco di specchi perché i due livelli si incontrino.

Penso a Giuditta che, smesso di parlare ed elencare all’infinito i cibi da lei ingoiati e che stando alle sue descrizioni l’avrebbero dovuta ridurre alla forma sferica, ha iniziato a parlare a raffica di ragazzi. Ragazzi con i quali messaggiava, possibili partners, ma che poi dopo un fittissimo scriversi sparivano come se mai si concretizzasse nella realtà la possibilità di incarnarsi in una storia. Spesso all’interno di questi racconti fatti in modo da non esserci spazio, né per una sua riflessione né per una mia domanda o risposta, avevo la sensazione che anche le persone venissero ‘ingurgitate’ da lei in modo che una intimità vera non potesse mai crearsi. Che ne dice? Che ne dice? Mi chiedeva in alcuni momenti a bruciapelo continuando poi imperterrita nel suo discorso. Eppure sentivo che un qualche legame si stava muovendo perché ero sempre sorpresa che tornasse e ci tenesse tanto al lavoro che insieme stavamo facendo a volte anche telefonandomi con richieste che alla fine mi sembravano solo un modo per ricollegarsi con me e forse nutrirmi di speranza. Si stava attivando un livello sconosciuto alla mia comprensione e sicuramente anche alla sua, ma io stavo diventando un luogo, una casa, una persona, forse. Si erano attivati neuroni diversi? Spesso a queste ragazze sembra non mancare nulla: bellezza, intelligenza, possibilità per il futuro, eppure ripeto qualcosa si è interrotto e sembrano sostare in una loro personale incubatrice. Tra i tanti fattori che possono contribuire mi chiedo anche quanta influenza possano avere le aspettative sociali legate sempre più a valori di immagine e non sostanza, nella ricerca di aderire all’unico ideale di perfezione diffuso per le donne (basta che siano seducenti e tutto va bene)la rappresentazione di sé è sempre più inconsistente e svalutata perché legata più a valori di immagine. Ferrarotti si chiede;cadute le ideologie, liquefatti gli ideali che cosa resta come guida per le giovani generazioni? La moda, la convenzione ciò che il mercato offre, sapendo già che il mercato non offre ideali, ma quello che è trendy, che finanziariamente rende di più. Il mercato è stato dotato di una funzione di guida che non gli spetta perché è un valore strumentale…. e a questo punto ,aggiunge, emerge il corpo: io sono e valgo per ciò che appaio e lo strumento del mio apparire e della mia visibilità è il corpo che contemporaneamente viene negato nei suoi bisogni più profondi.

Molti sono gli interrogativi che mi si pongono a contatto con storie simili in cui il sintomo ha preso la strada di un disturbo alimentare o i sintomi contengono anche questo aspetto. Come si origina questa frattura, questa rottura di sintonia tra corpo e mente, sé e altro? Da che cosa è sostenuta? E’ un disturbo alimentare o un qualcosa di più complesso che ha minato la possibilità di vivere il momento adolescenziale, quale tempo costitutivo di identità come concepimento di sé il più integrato possibile? La maggior parte dei casi in cui si ‘accende’ questo sintomo infatti riguarda la pubertà . Ma, sembra che si parta da molto prima.

C’è un profondo arricchimento nello studio integrato dei processi relazionali e correlati neurobiologici. Interessante a questo proposito una ricerca che evidenzia come il movimento fetale sia maggiore quando la madre è depressa e che il feto si muova in modo diverso in utero a seconda del tipo di depressione della madre. ( Field, Diego, Hernandez –Reif 2006) I feti di madri, la cui depressione si manifestava in comportamenti più intrusivi, si muovevano meno rispetto a quelle madri che avevano una forma di depressione più ritirata. Il rapporto tra feto e corpo materno è pieno di tira e molla delicatamente bilanciati (Music 2013). La trasmissione madre-figlio e poi anche ambiente-bambino non riguarda quindi mai solo la psiche, ma funziona in una intermodalità che va dalla sensorialità agli affetti.

Siamo consapevoli dei consistenti scambi bidirezionali tra feto e madre, della raffinata regolazione, della complessità e della contemporanea fragilità e forza del sistema materno-placento-fetale che vede madre e bambino come sistema dialogico già nella fisiologia della gravidanza regolata da un terzo.

E’ il feto quindi come fa il neonato e il bambino nella vita post-uterina a dare il là, cioè a saper chiedere, regolare, rendere funzionale la madre. Già a livello bio-chimico. La vita intrauterina è aliena e insieme prossima alle regolazioni dell’ambiente di vita in tutti i suoi aspetti. La placenta, oltre che organo di scambio di sostanze nutritive, produce una serie di sostanze chimiche che vanno ad agire sul cervello in formazione del feto, influenzando un suo sviluppo. In questo continuo scambio inizia a costruirsi un percorso identitario che è prima di tutto biologico, fatto di tanti fattori che condizionano le associazioni di diverse reti neurali, che ci rendono suscettibili o più esposti a eventi futuri. Non esiste forse una risposta chiara alla domanda che Bion si pone: “ ma le ghiandole surrenali ci permettono di iniziare a pensare o è il nostro pensiero che mette in moto la secrezione delle ghiandole?”(Memoria del futuro 2007), ma è facile capire quanto di biologico e relazionale insieme c’è nel nostro pensiero . Il dialogo con l’altro inizia quindi in utero ed è fatto di scambio di sensazioni emozioni, sostanze , ormoni, che andranno a plasmare e condizionare anche una evoluzione successiva. Sono oramai più che noti gli studi sul ruolo dell’ossitocina nel favorire l’attaccamento tra la madre ed il bambino. La sua produzione avviene sia durante la gravidanza che durante la fase di allattamento dove, insieme alla prolattina, andranno a favorire l’accudimento. In che modo e quali vie neurobiologiche conducano a questo è ancora in parte misterioso, certo è interessante pensare che recenti ricerche sull’autismo hanno portato a sperimentare come la somministrazione per via trans nasale di ossitocina in piccoli pazienti determini un maggiore aggancio visivo al care giver. Sono studi iniziali e certo siamo lontani da una globale comprensione delle vie dell’attaccamento e delle sue distorsioni, ma certamente esse dicono che è impossibile oramai non considerare il continuo dialogo tra il biologico ed il relazionale.

La psicopatologia infantile colloca i disturbi della sfera alimentare in segnali di un difficile inizio della relazione tra la madre ed il bambino; gli studi psicanalitici parlano di un fallimento di adattamento tra la madre ed il bambino, oppure di un eccesso di identificazioni proiettive che ostacolano la separatezza e la crescita. Gli studi della infant research , della infant observation e delle neuroscienze ci riportano ad uno sviluppo del cervello e della mente che ha inizio sin dall’epoca intrauterina; ci permettono di spingere ancora più indietro la nostra visione di insieme e di pensare ad una origine ancora più arcaica delle relazioni umane, che iniziano a plasmarsi sin dalle prime settimane di vita, attraverso un continuo flusso fatto di sensazioni tattili e cenestesiche, ormonali e nutritive.

Biologicamente si è studiato come anche una vulnerabilità alle condotte alimentari può passare di madre in figlio già in utero. Uno studio recente del Marzo 2012 mostra come madri con problematiche alimentari che riguardano una obesità, producano, durante la gravidanza e poi durante l’allattamento, alti livelli di leptina. Questa, insieme a altre citochine e a fattori di crescita, va ad agire sulle aree cerebrali del feto deputate al comportamento alimentare e poi nell’intestino del bambino, favorendo una sua maturazione.( Power M.L. 2012).

In quale misura tutto questo possa poi influenzare anche un diverso modo in noi di essere e relazionarci con l’esterno e col cibo è ancora da valutare. (Dal lavoro di Muroni)

Riprendo un lavoro (Busato 2010) in cui scrivevo che la comunicazione a livelli particolarissimi non attiene solo all’incipit della vita, ma continua anche per il continuo rifarsi del cervello e le buone introiezioni sembra favoriscano la plasticità neuronale. E introducevo una riflessione su un altro momento della vita in cui corpo e mente riprendono fisiologicamente la scena ed è il passaggio adolescenziale. Sembrerebbe che ci fosse in questo tempo un invaso di memoria implicita e procedurale … scherzosamente si potrebbe dire alla ricerca di costituire nuovamente una memoria autobiografica. L’essere corpo si presenta in modo evidente da trattare mentalmente. In questa fase il corpo viene usato per narrare se stessi perché la mente deve ancora apprendere a fare questo e tutte le particolarità o i fuochi di artificio di questo momento, estremamente angoscioso, fanno si che corpo e mente siano ‘luogo di concezione dell’adolescente, concezione intesa come un inizio di pensiero su di sé’. Appartiene a questa età un’altra modalità relazionale che ha a che fare più con un lavoro su di sé, intrapsichico e con una modifica di tecnica rispetto all’originalità del farsi identitario mente-cervello. Una relazione complessa che mette in moto anche nell’altro, genitori, fratelli, insegnanti , terapeuti, livelli particolari e instabili da poter reggere. Questo parlare con il corpo, perché ancora la mente non lo sa fare, mi sembra delineare il punto da me chiamato, all’inizio del lavoro, la frattura. Come se, a livello della memoria implicita, fosse avvenuto un qualcosa che non è riportabile ad una storia, ma non per un funzionamento normale di questa memoria che non sempre e necessariamente è trasformabile, ma per qualcosa di calloso che non permette empatia per sé e per l’altro. E se pure è riportabile ad una storia bisogna fare molta attenzione che la storia che entra nella stanza di analisi e che magari ci rende contenti e ci fa sentire bravi analisti, non sia solamente una costruzione mentale perfetta Segnalavo nel mio precedente lavoro una cosa che mi aveva destato interesse e che mi sembrava un cordolo che univa, nell’assoluta diversità di ogni storia, un qualcosa che appariva appartenere a tutte. La sensazione che mi si ripete ad ogni incontro è che questi adolescenti, all’inizio della loro vita, non sono stati ‘centrali’ o lo sono stati troppo poco per l’altro o hanno attivato un certo tipo di centralità. E mi chiedevo e mi chiedo come, in relazione con 'menti‘ intermittenti, se non evanescenti, rispetto all’accudimento, questi adolescenti ora nell’adolescenza, possano fare i conti con la costruzione di identità che già in sé è un muoversi nell’instabile.

Ciò che si è fatto sistema di sopravvivenza e, comunque, tentativo di costruzione, proprio perché intessuto ai margini, è contemporaneamente impregnato di poca relazione ‘sufficientemente buona’ e con una insufficiente continuità. Il disagio alimentare ha maggior attecchimento nelle adolescenti . Il cambiamento più visibile nelle forme? I fianchi, l’apparire del seno? Guardando la Danae di Tiziano e riprendendo le parole di Monsignor Della casa che, rispetto ad essa, preannuncerà al Cardinal nipote Alessandro Farnese che si tratta di una “nuda che faria venir il diavolo addosso al cardinale San Silvestro” ho pensato a quanto il corpo adolescente che si priva delle forme, si priva o meglio esorcizza il piacere che passa nella relazione e lo perverte nel piacere solo di sé, magra il più possibile…un etto in più rende ingombrante. Ma questo accade perché vi è un affacciarsi all’altro? Un potenziale ripresentarsi di relazioni scarsamente soddisfacenti nelle quali la propria esistenza è di nuovo a rischio?

Questo mi presentifica il parlare di mangiate enormi e di vedermi di fronte ragazze troppo magre.

Quando il principe arriverà o meglio potrà arrivare e bacerà ‘le dormienti’ svegliando tutti dall’infinito ripetersi del sonno? Avverrà?

Concludo con un sogno, che per motivi di riservatezza racconterò solo, che mi appare come un dono di una paziente anoressica per questo convegno del quale non sa coscientemente, ma che in ciò che passa ‘al di là della parola’ sembra nel sogno chiaro alla sua mente. In me risuona   come un inizio di reciprocità. Un ‘essere insieme’ ad aiutarci.

 

Bibliografia

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