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Beebe Tarantelli C. - “Sarò fatto a brandelli”: verso la teoria bioniana del trauma catastrofico (2014)

“Sarò fatto a brandelli”: verso la teoria bioniana del trauma catastrofico

Carole Beebe Tarantelli

Di prossima pubblicazione in The Wilfred Bion Tradition, H. Levine e G. Civitarese (a cura di), Karnac, Londra.

… la vita ha ormai raggiunto un tale culmine che mutilazioni orribili o la morte non potrebbero essere concepibilmente peggiori. Mi sono ritrovato a desiderare di essere ucciso. Bion, Diary, 1997a, p. 94.

Come fa una persona a sapere di... un dolore così impalpabile che la sua intensità, la sua pura intensità, è così intensa da non poter essere tollerata, ma da dover venire distrutta anche se questo comporta l’assassinio dell’individuo ‘anatomico’? (Bion, Memoria del futuro, 1991, vol. I, pp.52-3).

Se Bion non si riferisce quasi mai esplicitamente al trauma nel corpus della sua opera teorica, la narrazione delle sue esperienze come comandante di carro armato durante la Prima Guerra Mondiale nelle sue autobiografie è il resoconto di una catastrofe psichica. La guerra fu per lui un’esperienza di continua immersione in quella che in Memoria del futuro (1991) viene chiamata la “paura subtalamica”, un terrore “tanto intenso che le formulazioni verbali sono inadeguate a rendergli giustizia” (p. 648). In una delle sue narrazioni della battaglia di Amiens, riferendosi a se stesso in terza persona, dice che durante quella battaglia “gli stessi fili d’erba sembravano spaventarlo a morte” (1997c, p. 290).

Nel corso degli anni Bion raccontò ripetutamente la catastrofe che visse in guerra. Quasi subito dopo la sua smobilitazione nel 1918 scrisse un diario (Diary, 1997a), che costituisce il resoconto dettagliato della guerra in forma di lettere indirizzate ai genitori. Nel 1958, dopo un silenzio durato quarant’anni, scrisse un racconto incompiuto, “Amiens”. Nel 1972, dopo che Francesca Bion dattilografò il diario giovanile di Bion, egli scrisse un “Commentario” in forma di dialogo tra ‘Bion’ e ‘Me stesso’[1]. Redasse un racconto della sua vita fino al termine della guerra dal titolo ferocemente ironico, La lunga attesa[2](1982), un’impietosa descrizione autocritica del periodo immediatamente successivo alla guerra intitolato Tutti i miei peccati (1985). Infine ritornò a quell’esperienza ripetutamente nel suo ultimo lavoro, Memoria del futuro (1991).[3] E, come per sottolineare la natura estrema della sua visione di questa esperienza, Bion chiude così il libro: “D: Devo precipitarmi; ho un appuntamento con il fato. R: Addio – Buon Olocausto” (vol. III, p. 143).

In La lunga attesa, Bion racconta un episodio terribile che illustra come l’esperienza bellica seguitasse a dover essere raccontata. Prima di una battaglia, egli incontra inaspettatamente un vecchio compagno di scuola e mentre camminano insieme verso il fronte sentono “un lamento provenire dal fango, in lontananza; seguito da un richiamo ancora più lontano … come uccelli di palude” (p. 156). Si tratta di un suono assai piacevole. Questo “coro gentile”, però, proviene dai compagni feriti e abbandonati nel “fango in lontananza” (p. 156), lasciati morire soli. “‘Zitti! Zitti! Maledetti fracassoni, zolle di terra insanguinata’”, li apostrofa Bion. “Ma non si zittirono; e non si zittiscono” (p. 157).[4]

Da questi racconti della sua esposizione alla battaglia si evince che l’effetto su Bion[5] fu catastrofico. Nel suo diario del 1919 (1997a) egli scrive: “Mi ritrovai a desiderare di essere ucciso” (p. 93). Nel “Commentario” del 1972 (1997b) scrisse sulla battaglia di Amiens: “Non mi sono mai ripreso dall’essere sopravvissuto alla battaglia di Amiens” (p. 209). In un capitolo di Memoria del futuro (1991), nel ricordo di essere caduto in un cratere di granata colmo di cadaveri in decomposizione, Me Stesso commenta: “’Dice che la consistenza della sua mente non si è mai ripresa’” (1991, vol. I, p. 55).

Inoltre, Bion pronuncia l’affermazione terribile e paradossale che questa immersione nella guerra lo abbia ucciso. In La lunga attesa (1982) scrive: “Hanno trovato il sistema di farci sembrare vivi, ma in realtà siamo morti. Anch’io? Ma certo anch’io sono morto… l’8 agosto 1918” (p. 280). In Memoria del futuro (1991) uno degli avatar dell’autore afferma: “‘A me sparano addosso, vengo ucciso, soltanto che non muoio” (vol I, p. 58), e un altro dice: “Non andrei vicino alla strada da Amiens a Roye per timore di incontrare il mio spirito: sono morto là’” (vol. III, p. 38). Come dobbiamo intendere tali dichiarazioni? Naturalmente possiamo leggere metaforicamente l’asserzione di Bion di essere morto: è come se fosse morto pur non essendo deceduto. Questa è la verità letterale, ma Bion usa il linguaggio con estrema precisione e non dichiara di essere quasi morto o di avere la sensazione di essere morto. Afferma di essere morto.

In La scrittura del disastro, Blanchot (1986) propone una metafora che esprime il paradosso dell’effetto di un’esperienza catastrofica sulla mente: è un’esperienza che “rovina tutto, lasciando tutto intatto” (p. 1), un’esperienza in cui “scompaio senza morire (o muoio senza scomparire)” (p. 119). Evidentemente, come afferma Bion in Trasformazioni (1965), “La regola secondo cui una cosa non può, nello stesso tempo, essere e non essere, è inadeguata”(p. 144).

Se consideriamo il corpus della teoria che Bion iniziò a pubblicare quasi quarant’anni dopo la fine della guerra su un sottofondo delle sue rappresentazioni letterarie dell’esperienza bellica, possiamo interpretare retrospettivamente il sentimento paradossale di essere morto e insieme di essere in vita come uno dei punti di origine del suo pensiero: la sua teoria fu costretta dalla necessità di comprendere la simultanea distruzione e going-on-beingdel suo psiche-soma. Egli esplicita la questione in La lunga attesa (1982): “Dovevano essere stati pochi quelli che non si erano chiesti, come me, come fosse possibile che qualcuno sopravvivesse a un simile inferno” (p. 134). Ma egli vi sopravvisse e, come scrive in Memoria del futuro (1991), si ritrovò ad affrontare il compito di comprendere in che modo “‘quelle stesse ossa morte diedero vita ad una mente’” (vol. I, p. 60).

Come è noto, la teoria bioniana prese avvio come indagine sulla parte psicotica della personalità. Nel 1956 Bion affermò esplicitamente che, sebbene la psicosi “prend[a] origine dall’interazione tra (a) ambiente e (b) personalità” (1967, p. 65), egli intendeva ignorare l’ambiente. Nel mio contributo viceversa sosterrò che, facendo riferimento alla sua rappresentazione letteraria delle esperienze in guerra, le sue scoperte teoriche possono in parte essere utilizzate per illuminare i meccanismi intrapsichici che si formano a seguito di un trauma psichico catastrofico.[6]

  1. La fenomenologia del trauma catastrofico: le autobiografie.

   Le narrazioni autobiografiche sono racconti di quello che Freud (1920) chiamò “trauma esterno”, la disastrosa affermazione dell’esterno.[7] Non appena Bion, durante una battaglia, si precipitò fuori da un carro armato, “i fianchi [del carro] sembrarono aprirsi come un fiore, una cortina di fiamme si abbatté su di esso, ed ecco che il carro giaceva con i fianchi squarciati e il tetto scomparso” (1997c, pp. 253-4). Tutti gli uomini che vi aveva appena lasciato erano morti. La distruzione istantanea dello “scudo protettivo” da 40 tonnellate di acciaio è l’illustrazione concreta del fatto che “non c’è protezione più solida di un parto dell’immaginazione” (1982, p. 143), e che la sicurezza è un’“illusione” (1982, p. 145). “Sicurezza immaginaria; immaginaria aggressione? Eppure gli uomini morivano” (1982, p. 145).[8]

   Il ritratto dell’esperienza bellica che Bion dipinge nelle autobiografie è la narrazione di un’immersione nella morte, della vita nella morte. In La lunga attesa (1982) un soldato di nome Broome, “dal roseo viso infantile e dall’irrefrenabile turpiloquio”, racconta ai suoi commilitoni di essere inciampato su del filo spinato e di essere scivolato in un cratere di granata: “Era enorme, tutto pieno d’acqua. Non mi sono fermato che quando c’ero dentro fino alla vita. Una puzza; era tutto un ammasso di braccia, gambe e pance gonfie. Vi assicuro, era una specie di minestrone umano” (p. 153). In Memoria del futuro, Bion rievoca lo stesso ricordo ma qui lo attribuisce al Capitano Bion: “‘Bella minestra: in una buca da obice nei Campi di Fiandra. Gambe e budella… dovevano esere almeno in venti [morti] là dentro” (vol. I, p. 54). Alla fine della guerra ci dice: “Non uno solo dei miei amici personali era in vita” (1997b, p. 211), e molte di quelle morti erano avvenute davanti ai suoi occhi.

L’esperienza di essere scampato alla morte per pochi secondi o per pochi centimetri è una costante nella narrazione: “una pallottola vi si era schiacciata mancando di poco la mia testa. [Non l’avevo sentita e non me n’ero accorto.]” (1982, p. 146). Dopo un numero intollerabile di giorni al fronte, la sua compagnia è rilevata proprio prima dell’attacco al Monte Kemmel: “Degli 84 uomini che diedero il cambio ai nostri, se ne salvò uno solo”(1997a, p. 99). Nella battaglia di Cambrai, “Nell’ora e mezza trascorsa dall’inizio dell’attacco la nostra compagnia aveva perso quasi due terzi degli ufficiali e degli uomini di truppa” (1982, p. 195). Il fatto che Bion non morì insieme ai suoi compagni fu del tutto fortuito. Non c’era motivo per cui loro erano morti e lui no.

Le autobiografie ritraggono un assoggettamento all’esperienza più primitiva possible, quella di totale impotenza, di assoluta incapacità di agire per modificare la realtà, di essere intrappolati con nessuna altra destinazione se non la tomba. Nella seconda elaborazione del ricordo della battaglia di Amiens (1997c), Bion racconta che si rifugia in un cratere da granata vicino a quello che sembra un binario di metallo nella posizione più esposta possibile. Deve spostarsi. “Che aspetti?” Ma egli è impotente. “Il fuoco delle granate è troppo fitto, non posso muovermi… Se provo ad andare avanti ed esco dal riparo di questa buca, sarò fatto a pezzi. Non posso muovermi” (p. 254). In La lunga attesa (1982), racconta come, sotto attacco nella sua prima battaglia e intrappolato nel carro armato, si rese conto che “tra breve un proiettile di artiglieria pesante ci sarebbe esploso addosso” ed era quindi prossimo alla morte istantanea. Ma, anche qui, fu impotente, immobilizzato: “Sentivo che avremmo dovuto muoverci, ma non c’era nessun posto dove andare” (p.143). Avanzare significava morire; ritirarsi significava morire; restare sul posto significava morire; abbandonare il carro significava morire. Essere intrappolato è un’esperienza ripetutamente presente nei suoi testi.La capacità di modificare la frustrazione è un’illusione.

È ancora più rilevante il fatto che l’esperienza della battaglia è un assalto alla mente da parte di eventi interni ed esterni che essa è intrinsecamente incapace di fronteggiare. Accanto al furibondo attacco della “paura subtalamica” dall’interno e all’assalto del cannoneggiamento dall’esterno, l’esperienza sensoriale in battaglia è un agglomerato di impressioni sensoriali non interpretabili che si mescolano senza la possibilità di essere decodificate – come il terrificante “minestrone umano” nel cratere di granata che “era tutto un ammasso di braccia, gambe e pance gonfie” nel Campo di Fiandra (1982, p. 153). Il terreno della battaglia di Ypres si trasformò, dopo giorni e giorni di pioggia, in “quella lucida fanghiglia color ocra, senza punti di riferimento, [estesa per miglia e miglia segnate da cicatrici]” (1982, p. 139), un paesaggio devastato reso più terrificante dall’assenza di punti riconoscibili. Analogamente, il campo di battaglia di Amiens era coperto da un’“immensa muraglia di nebbia” (1982, p. 262) tanto impenetrabile che una delle staffette di Bion vi fu ingoiato e scomparve. Per Bion era impossibile affidarsi all’evidenza dei sensi; era impossibile sapere dove si trovava; tutto era irriconoscibile. Il campo di battaglia era un oggetto bizzarro, percepito come cosa-in-sé, che lasciava il soldato sospeso in un mondo atemporale, amorfo, incomprensibile. In altri termini, era impossibile convertire le impressioni di senso degli eventi interni e di quelli esterni in elementi alfa. Il pensiero verbale (e perciò la sanità mentale, il contatto con la realtà e la capacità di apprendere dall’esperienza) dipende dalla capacità della funzione alfa di trasformare le esperienze emotive grezze in eventi psichici gestibili. Ma queste erano esperienze sulle quali la mente non poteva imporre alcuna spiegazione veritiera, esperienze che non depositabili e utilizzabili in futuro, esperienze dalle quali non si poteva apprendere nulla.

L’episodio che, secondo Bion, lo uccise avvenne durante la battaglia di Amiens, ed egli lo ha raccontato in tutte le autobiografie belliche e ci è ritornato diverse volte in Memoria del futuro. Nel resoconto riportato in La lunga attesa (1982), in preda al panico e incapace di trovare il cammino per raggiungere la sua posizione nella fitta nebbia che avvolgeva il campo di battaglia, assalito dall’“urlo acuto, demenziale, … e il fragore dello sbarramento” (p. 262), Bion e le sue staffette, i fratelli Sweeting, si affrettano, “come se stessimo andando da qualche parte”. D’improvviso uno dei due fratelli scompare. “Che diavolo gli era accaduto? Perso nella nebbia? Si era fermato ad allacciarsi le scarpe? La sua scomparsa era stata completa”. Bion ingiunge con tono impaziente all’altro fratello di ignorarne la scomparsa ordinandogli: “‘Avanti!’” ma il cannoneggiamentoè troppo pesante e si rifugiano in una buca da obice. Sweeting chiede d’un tratto al comandante, che sta cercando freneticamente di orientarsi nella nebbia, “‘Signore! Signore! Perché non riesco a tossire?’” Bion è stupito dell’interrogativo: “Che domanda! Che momento… Gli guardai il petto… gli mancava tutta la parte sinistra del torace” (p. 263). Nel resoconto del 1958 (1997c), quando vide “le budella là dove avrebbe dovuto trovarsi la parte sinistra del torace… Bion cominciò a vomitare senza freno, senza poterci fare niente” (p. 255), un’evacuazione esplosiva dell’orrore provocato dalla sua immedesimazione con Sweeting. Infatti avrebbe potuto benissimo essere il suo torace a saltare in aria.[9] Il vuoto creato dall’espulsione del suo terrore dinanzi alla ferita di Sweeting si colma immediatamente di odio e repulsione, ed egli si infuria con il ragazzo: “Oh, per Dio, sta’ zitto” (p. 255). Nel racconto riportato in La lunga attesa (1982), Sweeting cerca di mettersi seduto, e Bion si infuria nuovamente: “‘Mettiti giù, accidenti a te!” (p. 269). I pensieri del ragazzo morente vanno allora alla sua infanzia. Egli chiama: “‘Mamma… mamma… mamma…’”, e Bion coglie la possibilità di lasciarsi distrarre dalla ferita di Sweeting. “Be’, ringraziai Iddio per quella sua maledetta mamma. Ora per lo meno potevo stare un po’ in pace, e tener d’occhio il bombardamento” (p. 263). Ma quando il ragazzo rivolge nuovamente l’attenzione al suo comandante, implorandolo: “‘Signore! Scriverà a mia madre, vero?” (p. 264), la reazione di Bion è terribile. In “Amiens” (1997c) ci racconta: “Desideravo che stesse zitto. Desideravo che morisse. Perché non può morire?” (p. 256). In La lunga attesa (1982) apostrofa così il ragazzo: “‘Sweeting, per piacere Sweeting … per piacere sta’ zitto.’” Ma giunge la fine. “‘Scriverà davvero, signore, eh?’… E poi, credo, morì. O forse fui solo io” (p. 264, corsivo nell’originale).

Chi venne ferito? Chi morì? Bion aveva tentato freneticamente di preservare l’integrità della sua mente – la distinzione tra il giovane morente e se stesso – tramite il vomito espulsivo e la rabbia scatenata dal tentativo del ragazzo di distrarre l’attenzione del suo comandante dall’affannoso sforzo di orientarsi nella nebbia. La descrizione della sua reazione alla ferita di Sweeting è una rappresentazione drammatica di quel meccanismo che costituisce una delle pietre miliari della teoria bioniana sulla mente psicotica (1962), in cui le emozioni che inondano la mente sono talmente esplosive e “il terrore … è talmente grande che dei passi vengono compiuti al fine di cancellare ogni coscienza di avere dei sentimenti, anche se ciò equivale a sopprimere la vita stessa” (p. 34). Come qui appare con evidenza, si tratta di un meccanismo di sopravvivenza.

La morte di Bion mostra che la spogliazione della sua mente riuscì solo in parte. Se infatti l’emozione incontenibile fu subito espulsa, assicurando così la sopravvivenza, la distruzione completa della consapevolezza dell’emozione non riuscì ed egli fu ucciso dall’esperienza. Potremmo ipotizzare che il terrore esplosivo provocato dalla ferita di Sweeting annientò la barriera di contatto che separa i pensieri consci da quelli inconsci, dissolvendo la separazione tra vita e morte, tra lui e me, tra l’essere vivo e l’essere morto. Fu questo a far morire Bion, “non sul piano fenomenico… [ma] senza parole, senza lasciare traccia e quindi senza morire” (Blanchot, p. 32).

2. Il trauma catastrofico da un vertice teorico

Supponiamo che il paziente sia in grado di essere normale o che lo sia stato: il conglomerato di frammenti di personalità che fa da personalità al paziente può soltanto essere considerato come la prova che è avvenuto un disastro. La discussione di un caso di questo tipo è difficile perché abbiamo a che fare non con le normali strutture di personalità umana …, ma con i pezzi frammentati … che sono stati rimessi assieme ma non riarticolati tra loro. (Bion, 1992, p. 91.)

     I meccanismi psichici devastanti che seguono alla catastrofe trovano ampia illustrazione nelle autobiografie bioniane. Si può evincere il verificarsi di un disastro dal suo prodotto, “il conglomerato di frammenti della personalità che fa da personalità al paziente”, che è la rappresentazione di sé presente nelle autobiografie del Bion che sopravvisse alla catastrofe. In tutte le sue opere letterarie il tono è quello di una penosa e intensa disapprovazione della propria inadeguatezza. In A ricordo di tutti i miei peccati (1985), per esempio, Bion si ritrae come un “poco invitante ammasso di inettitudine” (p. 20); quando le sue capacità gli sono riconosciute ad Oxford, si sente ciò nondimeno “assolutamente indegno della fiducia” che gli insegnanti ripongono in lui (p. 27); e il “passaporto” che gli ha assicurato l’ammissione alla Scuola di Medicina è “falso” (p. 26). E in Memoria del futuro (1991), il Capitano Bion è, tra l’altro, un “idiota consequenziale” (vol. I, p. 155).

     È evidente, però, che se la psiche, per quanto devastata, è rappresentabile, la morte o l’assenza assoluta non lo è: non si dà narrazione per l’istante della morte o della condizione in cui si è morti. Il Bion morto non è presente e non è descrivibile.

   Ma vi sono delle pagine straordinarie in Attenzione e interpretazione (1970) in cui Bion descrive la reazione psicotica alla frustrazione insopportabile, e suggerirei che questa sua analisi descrive anche la reazione alla catastrofe psichica nell’istante del suo verificarsi, oppure, a “‘un dolore così… intens[o] da non poter essere tollerato, ma da dover venir distrutto anche se questo comporta l’assassinio dell’individuo ‘anatomico’” (1991, vol. I, p. 53). Bion (1970) rappresenta la reazione psicotica con una metafora: è un’esplosione emotiva catastrofica “violenta e accompagnata da una paura immensa” (p. 22). Nelle pagine che seguono egli analizza l’effetto che ha sulla mente l’esplosione catastrofica, la cui conseguenza più estrema è la morte.

     Egli descrive l’assetto mentale nel momento dell’esplosione come assenza assoluta, rappresentandolo con il ricorso al concetto di realizzazione di spazio mentale quando manca il dispositivo per mapparlo o delimitarlo in modo che sia percepibile. “Ciò che si sente allora è che ha luogo una proiezione esplosiva in quella che ... è la realizzazione di uno spazio mentale: uno spazio mentale cui non corrisponde alcuna immagine visiva in grado di svolgere la funzione di un sistema di coordinate... La realizzazione mentale dello spazio è perciò sentita come un’immensità così grande da non poter essere rappresentata affatto” (pp. 23-23, corsivo nell’originale). L’esplosione, cioè, è sentita come se producesse uno spazio infinito (o il suo equivalente, cioè il nulla) nella mente, uno spazio privo di immagini visive e di pensieri e quindi di qualsiasi esistenza soggettiva. Bion ritrae una mente senza contenuto, o una mente che è morta. Fa uso di una metafora medica, il modello dello shock chirurgico, per rappresentare tale stato: “ La dilatazione dei capillari in tutto il corpo aumenta talmente lo spazio in cui il sangue può circolare che il paziente può sanguinare a morte nei suoi propri tessuti” (p. 22).

          È questa la rappresentazione di un’esperienza emotiva che la funzione alfa non può trasformare: l’assenza di immagini visive è indice del suo fallimento.[10] Il corollario del fallimento della funzione alfa è la distruzione della mente come contenitore di pensieri ed emozioni. Ne consegue che è preclusa l’identificazione proiettiva delle emozioni o di parti della personalità, che sarebbe la risposta attivata in condizioni meno estreme, poiché manca la concezione di contenitori in cui potrebbe avvenire la proiezione (p. 22). Un altro corollario è che la violenza dell’esplosione è sentita come distruttiva della barriera di contatto che separa mente conscia e inconscia, così da permettere all’inconscio di soverchiare la mente conscia inondandola di stimoli infiniti che essa non può né contenere né trasformare. La mente dunque regredisce allo stato di mancanza primaria di senso e si riduce allo stato di assoluta impotenza.

     In questo stato si sente che le emozioni sono trascinate e disperse nell’immensità: “La realizzazione dello stato mentale, non essendo legata, consente un’espansione e separazione continua e continuativa di elementi beta” (p. 25). Nelle sue descrizioni di Auschwitz, Primo Levi fa riferimento ad un’immagine che rappresenta la sensazione che il sé si stia disintegrando: i reclusi vivono sull’orlo del collasso nel “buio e nel gelo dello spazio siderale” (1947, p. 50) di solitudine cosmica, priva di ogni qualità umana. “Un disagio incessante, che inquinava il sonno e che non ha nome” delle vittime dei campi di sterminio nazista è “un’angoscia atavica … dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento” (1986, p. 66).

La dispersione di un’emozione in uno spazio infinito comporta altresì l’annientamento del tempo, la cui esistenza si basa sulla possibilità di trasformare i dati sensoriali in immagini visive e pensieri ordinati in una narrazione sequenziale.

     L’effetto ultimo dell’evacuazione delle emozioni dalla mente è, come dice Bion (1970), la creazione di “un regno del non esistente”o di uno stato di “non-esistenza”. La realizzazione più prossima a questo stato che egli riesce ad immaginare è uno stupore intenso (p. 32). Descrive un’esperienza che potremmo considerare come una sua rappresentazione in La lunga attesa (1982): sorvegliare la terra di nessuno per individuare possibili attacchi nemici produsse in Bion uno stato d’animo straordinario che “non era incubo, né veglia, né sonno... Uno non pensava, uno non guardava: uno fissava” (p. 226).

   Lo stato di non-esistenza è incompatibile con la continuità dell’essere della mente, e Bion (1970) afferma che la sua realizzazione può durare al massimo pochi istanti prima che sia evacuato (p. 32). Ma la mente ricomincia nell’esistenza solo per ritrovarsi immersa in un mondo di oggetti dalla ferocia assassina: la “non-esistenza” proiettata diventa immediatamente “un oggetto ostile e riempito di invidia omicida verso la qualità o la funzione dell’esistenza ovunque venga reperita” (p. 32). Ciò mette in moto la reazione intrapsichica all’annientamento che segue la catastrofe e che le autobiografie bioniane illustrano ampiamente.

     Nelle suo opere teoriche Bion analizza i meccanismi intrapsichici. Tuttavia dovremmo anche ricordare che nelle autobiografie l’oggetto ostile e omicida proiettato e reintroiettato dopo la catastrofe psichica non è soltanto un oggetto interno esternalizzato ma è anche un oggetto reale. Bion subisce attacchi omicidi dall’esterno e dall’interno, e la realtà interiore diventa il riflesso, terrificante come un incubo, di quella esterna.

3. La teoria e la rappresentazione della catastrofe

… ma sentii che ora le cose non sarebbero potute andare peggio e che, in realtà, c’era un barlume di speranza – era sempre possibile essere gravemente ferito o forse addirittura ammazzato. (Bion, 1997a, p. 94)

     La narrazione di Bion della sua reazione al disastro subìto in guerra è la rappresentazione letteraria di un uomo la cui personalità ‘normale’ è stata frantumata e i “pezzi frammentati… sono stati rimessi assieme ma non riarticolati tra loro” (1992, p. 91): il ritratto che dà di sé è quello di una personalità spesso sopraffatta dai meccanismi psicotici. È inevitabile la tentazione di ipotizzare che l’insight di Bion rispetto alla mente psicotica sia stato reso possibile anche grazie alla propria esperienza personale della follia. Tuttavia procedo in base all’ipotesi che, se ciò che motivò il Bion storico non è conoscibile, gli insight teorici rispetto al funzionamento della mente psicotica (o traumatizzata) possono illuminare le reazioni alla guerra del personaggio Bion. In altri termini, sosterrò che Bion ha concettualizzato degli stati della mente nelle sue opere teoriche per i quali in seguito ha creato una rappresentazione letteraria nelle sue autobiografie.

       A titolo di esempio, l’episodio della morte di Sweeting è un’esemplificazione dell’affermazione di Bion in Trasformazioni (1965) che, quando la mente si riduce ad assoluta impotenza (o quando è esposta ad una frustrazione intollerabile), essa ricorre automaticamente alla fantasia onnipotente come fuga dalla realtà e in particolare dai sentimenti di impotenza e terrore (p. 78)[11]. Dinanzi alla minaccia costituita dalla persistenza in vita del giovane, nonostante la sua ferita spaventosa, Bion vuole onnipotentemente che le qualità della morte (immobilità e silenzio) si impongano a Sweeting; nel suo bisogno frenetico di liberarsi dell’orrore della morte del ragazzo lo vorrebbe trasformare immediatamente in un oggetto inanimato anziché morente[12]. Naturalmente, però, è incapace di fare “star zitto” Sweeting. Lo stato della sua mente in questo e in altri episodi è quello di “un adulto che mantiene uno stato di onnipotenza ↔ impotenza (helplessness) esclusivamente primitivo” (1965, p. 79) che è intrinsecamente violento: gli oggetti interni ed esterni vivi, e di conseguenza non soggetti al controllo onnipotente, sono una fonte di terrore e la mente viene spogliata del senso della loro vitalità. In altri termini, l’autonomia degli oggetti è equiparata a una minaccia alla vita. Essi sono tollerabili purché siano degli automi.

     Non c’è dubbio che il tentativo di Bion di distruggere i legami con Sweeting morente non è un meccanismo di difesa ma di sopravvivenza: la sopravvivenza psichica comporta la spogliazione della rappresentazione dell’evento catastrofico dal significato che ha per il soggetto. Possiamo però ipotizzare che l’immersione del soldato nella morte abbia anche creato un’identificazione inconscia con il ferito, il morente e il morto, un’interpretazione suggerita da un’immagine che compare diverse volte nelle autobiografie e in Memoria del futuro, l’immagine di un cadavere disseccato la cui “pelle verde era tesa come pergamena sulle ossa del viso” (1982, p. 152). Nel “Commentario” del 1972 (1997b) Bion presenta questa immagine come un ricordo del proprio stato passato e presente: “Posso ancora sentire la mia pelle tesa sulle ossa del viso come se fosse la maschera di un cadavere” (p. 204). In La lunga attesa (1982), d’altronde, c’è la descrizione di un cadavere con cui Bion ha diviso un cratere di granata nella battaglia di Ypres (p. 152). Se nel racconto in cui è lui il cadavere, Bion rammenta la sua solitudine assoluta, in La lunga attesa (1982) la sua osservazione amaramente ironica è che il cadavere con cui ha diviso il cratere era stato almeno una compagnia: “Ad ogni modo non ero solo” (p. 152). I cadaveri assumono le qualità appartenenti alla vita e i vivi quelle appartenenti alla morte; la morte nella vita e la vita nella morte. L’immagine ricompare un’altra volta in un dialogo di Memoria del futuro (1991) in cui è descritta in una rievocazione condensata di vari ricordi tra i più terribili registrati nelle autobiografie precedenti.

     L’immersione nella morte e la dialettica risultante tra l’identificazione con i morti e la difesa della sopravvivenza attraverso la scissione e l’evacuazione dell’odio e del terrore costituiscono uno degli effetti principali della catastrofe psichica così come viene ritratta nelle autobiografie.

       In La lunga attesa (1982) Bion dipinge un ritratto verbale dello stato della mente prodotto dal terrore: la prima marcia della sua compagnia verso il fronte lo espose all’“inferno”, ma la sua reazione fu che “era soltanto una seccatura, rovinata da orrendi, informi grumi di paura” (p. 134). Ovviamente sta descrivendo uno stato di dissociazione, o quello che chiama anche il “rifugio nell’incoscienza” (p. 143).

         Da una parte, la dissociazione è una benedizione. Quando infatti non è consapevole di alcun pericolo, Bion è libero dalla paura (p. 178). Ma dall’altra, come scrive in un altro passaggio, la paura “avrebbe potuto fare da surrogato al buon senso, che mi mancava completamente” (p. 178). La dissociazione spontanea, cioè, è una fuga nell’autoconservazione illusoria, ma la sicurezza illusoria può essere potenzialmente costosa, poiché la conseguenza dell’espulsione della percezione della natura letale della realtà è che la capacità residua di valutare realisticamente un’azione tesa a preservare la vita è compromessa, come dimostrano ripetutamente le azioni di Bion in combattimento. Come dice P.A. in Memoria del futuro, “‘Non avevo paura – non avevo nulla’” (vol. III, p. 46).

     Uno degli episodi che meglio illustra quella che Bion definisce la sua “follia totale” (1997a, p. 106), è descritto in La lunga attesa (1982) e ancora in Memoria del futuro (1991). Il carro armato di Bion è sotto un pesante cannoneggiamento e, nel primo testo citato, egli ordina ai suoi uomini di evacuare il carro nel timore che venga colpito, mentre egli vi resta dentro, conducendolo a tutto gas verso le linee nemiche. Poi scrive: “Prima di rendermi conto di quel che facevo avevo lasciato il sedile del conducente e avevo raggiunto il resto dell’equipaggio” (p. 277). Fu “allora, e solo allora”, cioè soltanto dopo essere sfuggito alla morte certa, che “venni preso dal panico” (p. 277). Ma il terrore di Bion non è il panico al pensiero che avrebbe potuto saltare in aria. Egli è invece terrorizzato al pensiero della sua mancanza di “coraggio” e delle possibili conseguenze di questa “codardia”, che considera il suo tratto più distintivo: aveva abbandonato un carro armato in perfette condizioni consegnandolo così al nemico verso le cui linee lo aveva lanciato. Ciò lo spinse a rincorrere il carro nel tentativo di raggiungerlo, ma il carro fu colpito prima che Bion lo raggiungesse ed esplose, “con le fiamme che sprigionavano da tutte le parti” (p. 277).

     In questo e in altri episodi, lo stato mentale di Bion è connotato dalla perdita di contatto con la realtà in cui la parte non psicotica della personalità è sommersa, tanto da oscurare la capacità di distinguere tra gli stati interni e la percezione di un evento reale soggetto alle leggi della natura. Ciò che è importante nel determinare le sue azioni in questo episodio non è la realtà che il nemico distruggerà il suo carro armato e lo ucciderà. Le sue azioni sono dettate dal dialogo interno tra i rimproveri di natura superegoica rivolti a se stesso (e riproiettati sui suoi compagni e sui comandanti che avrebbero finito per vederlo per il “codardo” che era) e il suo impulso a uscire dal carro evitando così di essere ucciso.

     Questo episodio illustra anche le conseguenze dello spogliare la mente dell’emozione temuta e odiata, poiché oltre al principio di realtà, parti della personalità e la paura di morire vengono espulse insieme all’emozione. Se il processo di spogliazione è esteso, come in questo caso, anche la volontà di vivere, necessaria perché la paura di morire sia percepita, viene espulsa (vedi Bion, 1962, p. 164). In effetti, fin dal suo diario (1997a) di gioventù, Bion racconta che in guerra quando avvertiva una speranza, era la speranza di essere ucciso (p. 94).

Ma il terribile paradosso è che quando vengono meno i meccanismi di sopravvivenza – la scissione e l’evacuazione della paura, l’assicurazione illusoria di sicurezza – e il soldato percepisce la realtà della guerra, il fatto della “non protezione” fa coagulare gli “orrendi informi grumi di paura”, e allora il contenuto fa esplodere il contenitore. Poiché il fatto dell’impotenza non può essere sopportato: la percezione della “verità” significa dolore intollerabile, choc da guerra e disintegrazione. Così è successo a Gates, che “rinsavì molto tempo prima che finisse la guerra; ma non poteva sopportare la verità … Faceva pena – disteso là nel fossato, che singhiozzava senza ritegno. Si diede al bere; ma nemmeno questo poteva salvarlo dalla realtà” (1991, p. 207). Finché il soldato è immerso nella violenza e nella morte della guerra, gli è impossibile rimanere “sano”.

     Come Bion indica in Apprendere dall’esperienza (1962), quando gli oggetti sono spogliati di senso, scissi in pezzi e proiettati, la mente si sente accerchiata di agglomerati di elementi beta indigeribili, oggetti bizzarri sadici e persecutori che, reintroiettati, fanno “ritorno ad un oggetto che può investirli di poco più che l’apparenza di una psiche” (p. 164). Nell’episodio del carro armato sopra riportato, questi elementi beta si sono uniti per formare un esoscheletro che offre alla personalità un’illusione di coerenza, ed è questa apparenza di personalità che Bion ha reintroiettato: nel suo caso la personalità spuria è formata dall’aderenza ai valori collettivi – il terrore di essere un vile, il timore di prendere decisioni sbagliate, l’intenzione di “meritarsi” la medaglia al valore di cui è stato insignito, che significava considerare il valore come superiore alla vita. È questa personalità che orienta le azioni di Bion in guerra. Ma, come dichiara in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico (1967), se i legami tra gli elementi che compongono il suo carattere appaiono logici, essi non sono emotivamente ragionevoli (p. 165), poiché sono stati spogliati della volontà di vivere e quindi di ogni soggettività.

     In entrambe le autobiografie il tono è quello di una disapprovazione dolorosa e intensa della sua inadeguatezza personale; sono una registrazione del suo “completamento di tanti anni di oscura nullità” (1985, p.63). Come sostiene Bion in Attenzione e interpretazione (1970), quando le emozioni temute sono proiettate e reintroiettate, diventano un oggetto immensamente aggressivo che si impianta nella mente come super-io ostile e distruttivo (p. 33). Forse l’esempio più terribile del giudizio spietato di Bion verso se stesso è la sua risposta immaginaria alla domanda sulla morte della prima moglie, che morì di parto mentre egli era assente in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale. Chiedendosi: “Cosa aveva ucciso Betty e quasi ucciso la bambina?”, risponde paragonandola a un direttore d’orchestra che scopre di essere stato “condannato … per tutta l’eternità a cercare di ottenere un risultato armonioso da un’orchestra stonata, maligna, e fondamentalmente maldisposta” (1985, p. 62) - per estensione, da se stesso (1982, p. 118). Le due autobiografie sono il ritratto di un uomo impegnato in una lotta incessante con i suoi oggetti interni (1967, p. 52), un uomo che ha improvvisato una personalità partendo da elementi che sentiva privi di valore (1962, p. 49), un uomo in balia di un super-io primitivo e persecutorio (1967, p. 157) che indica ferocemente dove Bion “dovrebbe” essere ma non è mai (1965, p, 78). Le autobiografie ci lasciano, e cito Francesca Bion (1985), con “una persistente impressione di sconsolata tristezza e di profonda scontentezza di sé” (p. 7).[13]

4. La sopravvivenza

Prima di rendermi conto di quel che facevo avevo lasciato il sedile del conducente e avevo raggiunto il resto dell’equipaggio. (Bion, 1982, p. 277)

   È certamente vero che Bion non avrebbe potuto far nulla per evitare la morte causata da un proiettile vagante o da una pallottola diretta a lui in trincea o sul carro armato. Il fatto che fu l’unico tra i suoi amici a sopravvivere alla guerra fu puramente fortuito. Ma se i suoi resoconti di guerra ritraggono una personalità in balia dell’odio per la vita e di altri stati psicotici della mente, è altrettanto vero che nell’episodio del carro armato egli agì per salvarsi la vita: balzò fuori dal carro prima che il mezzo fosse colpito ed esplodesse. Che cosa scattò in azione per salvarlo prima “di rendermi conto di quel che facevo”, cioè sotto, dietro e al di là della morte che aveva subìto, prima di pensarci e senza pensarci? A un certo punto in Memoria del futuro (1991), Bion rappresenta questo livello della personalità come un personaggio, DU, la cui funzione è di mantenere in vita Bion nonostante il suo “‘dannato egoismo e le sciocchezze concettuali’” (vol. II, p. 61). Quando gli viene chiesto che cosa abbia fatto durante la guerra, DU risponde: “‘Io me ne stavo tranquillo, sdraiato e più vicino possibile al tuo SNC cercando di farti avere il buon senso di sdraiarti sul terreno’” (vol. II, p. 61).

L’episodio in cui Bion salta fuori dal carro narra un’azione che nasce prima della mente, prima del proposito, del pensiero o della scelta; si tratta di un’azione automatica e involontaria[14]. In Cogitations. Pensieri (1992), egli fa riferimento all’analogia del tropismo nelle piante per indicare un comportamento innato in cui l’organismo si rivolge o si allontana da uno stimolo, che negli esseri umani è la ricerca automatica di un oggetto che può contenere l’identificazione proiettiva di colui che cerca (p. 56), consentendo così lo strutturarsi della mente: l’azione di ricerca e reperimento dell’oggetto è la matrice primitiva dalla quale nasce la vita mentale (p. 56). In Trasformazioni (1965) Bion sviluppa ulteriormente la rilevanza psicologica del concetto, inventando il segno, ± ←↑, o “in cerca di esistenza” (p. 151), che indica entrambi i tropismi negativo/positivo.

   L’esperienza bellica di Bion è un ritratto del tropismo negativo, personificato dalla ricerca che non riesce a trovare l’oggetto in grado di contenere il terrore mortale: è il ritratto di un individuo che ha dunque cessato di esistere, una “persona non-esistente”, un “esso” il cui fallimento a trovare esita nell’odio per la vita (1965, p. 156). In effetti le autobiografie di Bion sono la dimostrazione dell’impossibilità irriducibile che esista o possa esistere un oggetto capace di contenere le sue emozioni esplosive. Il risultato è il rigetto del tropismo positivo, l’allontanarsi dalla ricerca di esistenza, un disconoscimento del movimento verso la vita e la sua sostituzione rivolgendosi alla morte. Quando si è sotto l’influsso del tropismo negativo ciò che si cerca è un oggetto da uccidere o dal quale essere uccisi (1992, p. 56). Questa è una descrizione dello stato di Bion nei suoi resoconti della guerra.

     I tropismi positivi, +←↑, d’altronde, indicano un’aspettativa di esistenza, un rivolgersi innato e involontario allo stimolo che dà vita, “la consapevolezza di una mancanza di esistenza che esige una esistenza, un pensiero in cerca di un significato, di una ipotesi definitoria in cerca di una realizzazione che si avvicini ad essa, di una psiche che ricerca una dimora fisica che le dia esistenza, di ♀ che cerca ♂" (1965, p. 153). Nell’istante in cui Bion balzò fuori da quel carro condannato, il tropismo positivo ebbe il sopravvento ed egli, senza pensarci e involontariamente, cercò la vita e non la morte. Il suo frenetico tentativo di raggiungere il carro armato per poterci risaltare dentro fu successivo al tropismo; fu il prodotto del pensiero.

   È evidente che la necessità di comprendere in che modo “‘quelle stesse ossa morte diedero vita ad una mente’” (1991, vol. I, p. 60) spinse il Bion teorico ben oltre i suoi sforzi di comprendere il funzionamento della mente psicotica e di quella traumatizzata. Il corpus delle sua opera è anche e forse principalmente una teoria del funzionamento della mente non psicotica. Da una parte il Bion delle autobiografie fu l’uomo che impazzì durante la guerra, l’uomo che morì ad Amiens, l’uomo che verso il termine della vita scrisse che “nessuno mi disse... che il mio servire in guerra avrebbe cambiato completamente la mia capacità di godere la vita " (1991, vol. III, p. 76). D’altra parte il Bion storico fu l’uomo che sopravvisse alla guerra e, nonostante l’esperienza dell’atrocità, cercò e trovò dei pensieri che, pur costituendo il tentativo di comprendere l’effetto della catastrofe sulla mente, sono anche il tentativo di approfondire lo stupefacente fenomeno della vitalità, della mente che giunge in essere scaturendo dall’assenza di mente e prosegue nella sua esistenza.

Trad. Isabella Negri

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1 Tutti questi testi sono raccolti nel volume War Memoirs (1997).

2 Il titolo originale è The Long Week-end [N.d.T.]

3 Bion pubblicò Memoria del futuro quando era ancora in vita, ma dobbiamo a Francesca Bion gli altri volumi, curati da lei.

4 In “Aftermath”, la sua postfazione a War Memoirs, Bion Talamo (1997) formula l’ipotesi che là dove gli episodi sono riportati in Memoria del futuro pressoché letteralmente dai lavori autobiografici precedenti, si tratta di un segno che “un’ulteriore elaborazione non [fu] possibile” (p. 309). Un’altra indicazione della difficoltà di Bion dopo la guerra è che, come ha rilevato Francesca Bion (1985), gran parte del suo lavoro creativo fu realizzato in seguito al matrimonio, cioè quasi quarantacinque anni dopo la sua smobilitazione. (p. 6),

5 Vorrei chiarire che la mia intenzione in questo contributo non è di cercare di aggiungere qualcosa alla biografia di Bion – o, per utilizzare un suo termine, di “congetturare” sulla sua reazione soggettiva all’esperienza bellica, sforzo che avrebbe certamente considerato uno “spreco di tempo” (1991, vol. I, p. 213). Quando parlo di “Bion”, parlo del narratore di queste opere letterarie, della rappresentazione in queste narrazioni di colui che visse quelle esperienze, o dell’autore dei suoi lavori teorici. È questo il “Bion” a noi accessibile.

6 Vedi Meltzer (1981), Symington & Symington (1996), Sandler (2003), Souter (2009), Williams (2010), Szykierski (2010) e Brown (2012), che hanno scritto in modo persuasivo della rilevanza delle esperienze di Bion in guerra per la visione della mente che egli propose.

7 Vedi Tarantelli C.B. (2003). Life within death: Towards a metapsychology of catastrophic psychic trauma. Int J Psychoanal. 84, pp. 915-28. [trad.it: (2004). “La vita entro la morte. Verso una metapsicologia del trauma psichico catastrofico”. Psicoterapia psicoanalitica, XI, 2.

8 Vorrei intendere tale affermazione come una sottile critica a Melanie Klein e alla sua scuola, data la rilevanza da loro assegnata al primato della fantasia.

9 Vedi anche Tarantelli (2003) per un’analisi della nausea come la difesa più primitiva possibile dalla disintegrazione della mente: si registra una sensazione fisica che “richiama l’attenzione, costringe all’attenzione, necessita di attenzione”. La capacità di registrare la sensazione è “un segno che il corpo è ancora in vita e che la mente lo percepisce” (p. 924).

10 Dovremmo tener presente che, per poterne discutere, gli effetti che accompagnano l’esplosione devono essere raccontati in modo sequenziale ma anche che tali effetti non sono sequenziali o successivi all’esplosione e l’esplosione non ne è la causa. Non sono affatto degli effetti: sono semplicemente simultanei all’esplosione, ad essa sincroni, o sono la stessa cosa. Vedi Tarantelli (2003) p. 919.

11 Grotstein (2007) racconta che nella sua analisi con lui Bion si riferiva spesso a questo concetto: “quando avrei potuto sembrargli ‘onnipotente’, mi offriva un’interpretazione per cui ero stato ‘ridotto a diventare onnipotente’, giacché mi sentivo impotente nella situazione che gli avevo illustrato” (p. 37, corsivo nell’originale).

12 In una delle varie versioni della morte di Sweeting in Memoria del futuro (1991), Bion rievoca con immenso rincrescimento il modo in cui aveva trattato il ragazzo giacché, nelle sue intenzioni, aveva privato Sweeting del proprio morire. Dice P.A.: “‘Se avessi potuto credere in Dio gli avrei chiesto di perdonarmi … Uso le parole più tristi della lingua: ‘Non volevo che accadesse’” (p. 38, II).

13 Non poteva accettare che questo fosse un ritratto completo del marito, poiché, come afferma lei stessa, egli “riuscì a conseguire grandi soddisfazioni... dal suo matrimonio, dalla sua famiglia e dal suo lavoro” (1985, p. 7). A correzione del ritratto dipinto nelle autobiografie, Francesca Bion include una serie di lettere scelte di Bion indirizzate a lei e ai loro figli in A ricordo di tutti i miei peccati (1985). Alcune lettere, scritte nel periodo del loro corteggiamento, sono la raffigurazione della potenza creativa dell’amore: la presenza dell’amata “riversa sulla mia vita una dolce luce di gioia” (p. 78), facendo sì che “la cupa e stupida routine meccanica nella quale sono caduto si [stia] spalancando” (p. 85). Qui l’inadeguatezza delle parole per rappresentare l’esperienza è dovuta al fatto che l’espressione del sentimento ha “bisogno di un coro al completo, con orchestra e organo” (p. 98). È senz’altro rilevante, come ha notato Francesca Bion (1985, p. 7), che quasi tutte le opere più importanti di Bion furono scritte dopo il matrimonio.

14 Nella sua ultima evocazione dell’episodio in Memoria del futuro (1991), Bion realizza la propria intenzione di ritornare al carro armato, ma anche qui qualcosa lo espelle involontariamente un attimo prima che esploda: “‘Senza pensarci balzai fuori dal portello mentre le fiamme di benzina avvolgevano la carcassa di acciaio … [e] sono caduto sul sedere” (vol. III, p. 47).

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