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Sonnino A. - Eventi Traumatici: verità storica o verità materiale? (2011)

Presentato al Centro di Psicoanalisi Romano nella serata scientifica dell'11 febbraio 2011

 

Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.      

 George Santayana (1905)

In un precedente lavoro di Fiorespino e Sonnino (2008), veniva indicata quale utile risorsa nel trattamento di casi complessi, casi cioè ad alto tasso di implicazioni simbiotiche con la famiglia d’appartenenza, la possibilità di incontrare i familiari dei pazienti, in un setting flessibile, allargato, allo scopo di potersi assicurare una loro minima collaborazione, come pure già suggerito da Rosenfeld (1965, 1987), Arrigoni Scortecci[1] (1988), Pandolfi (1997) e Kancyper (1997), onde evitare il rischio di intrusioni distruttive, difficilmente controllabili, possibili soprattutto lì dove il lavoro analitico è persecutoriamente vissuto come minaccia alla simbiosi familiare (Sonnino, 2006) e, soprattutto, per favorire la ricostruzione storica degli eventi alla base della patologia, specie se difficilmente raggiungibili a causa della loro forza traumatica (Correale, 2000) o se condizionati da influenze transgenerazionali, ossia appartenenti originariamente ad altre generazioni e solo successivamente precipitate nel mondo intrapsichico dell’analizzando[2]. Le considerazioni che vogliamo ora proporre riguardano in modo particolare proprio la complessa questione della ricostruzione degli eventi traumatici, partendo dalla distinzione tra “verità materiale” e “verità storica” (Freud, 1937 e 1938: 447 nota editoriale), ritenendo che, seppure, a nostro parere, tale ricostruzione risulti centrale ed indispensabile[3], specialmente nel caso si siano verificati eventi traumatici, il recupero di ricordi “materiali” o “concreti”, non possa comunque prescindere dalla personale elaborazione operata dalla mente del paziente all’interno del lavoro analitico.

Freud, nel corso della sua opera, sembra aver assunto una posizione quanto meno “oscillante” sulla questione relativa al recupero dei ricordi concreti all’origine della psicopatologia: dalla lettera del 21 settembre 1897 al “Mosè”, ove contrappone la “realtà esterna” a quella “psichica” o “mentale” (1938: 399), passando per “Costruzioni in analisi” (1937) ove, pur dichiarando la non completa realizzabilità del superamento dell’amnesia infantile, ribadisce, quale “obiettivo ideale della cura”, proprio il tendere verso il recupero dei ricordi, sebbene nell’accezione di un recupero “storico” e non “materiale”, intendendo per “storico” il prodotto dell’elaborazione interna che la mente del paziente può aver fatto di ogni specifico evento, come sottolinea anche Rinaldi (1990) quando assimila la “verità psichica” alla “verità storica” <come lo abbiamo immaginato e lo ricordiamo, ma non quale esso fu>> (corsivo nostro). Scrive Giannitelli (1987: 381): .

Il presupposto che la rievocazione dei ricordi materiali non sia realizzabile in modo completo sembrerebbe, quindi, aver contribuito allo spostamento dell’attenzione analitica sul concetto di “verità storica”, o “verità psichica”, che certamente tiene in più ampia considerazione proprio il ruolo soggettivo, volto alla rielaborazione intrapsichica, assunto dal paziente all’interno della coppia analitica al lavoro, ma che rischia però di allontanare il recupero dei “fatti” così come essi possono essersi realmente svolti (per Bion, “un fatto è un fatto”), recupero che potrebbe comportare la conseguenza di influenzare le menti di paziente e analista, chiamati in tal caso implicitamente ad “assumere una posizione” o addirittura a subire l’influenza dei propri giudizi sull’evento stesso (Fiorespino, 2000).

Dunque, se da una parte rimane irrinunciabile per il lavoro analitico tendere ad un autentico, effettivo recupero del ricordo di eventi che possono essere all’origine della patologia, specialmente nel caso di esperienze traumatiche, dall’altra viene sottolineata l’irrealizzabilità di tale compito, così da portare Freud stesso alla concettualizzazione di una “verità storica”, appunto contrapposta alla “verità materiale”, che risulti essere il frutto dell’elaborazione operata dalla mente del paziente, e dell’analista, nell’attualità della seduta e nel presente, elaborazione che è pur sempre connotabile come una ricostruzione dotata di valenze terapeutiche (Freud, 1937). Inoltre, sempre per Freud, come ci ricorda Conrotto (1998: 236), è il “ricordo” più che l’”evento in sé” ad essere dotato di una valenza patogena, ricordo che, come già accennato, sarà il risultato di una elaborazione intrapsichica. A sottolineare l’importanza delle influenze provenienti dal mondo interno sugli stimoli che ci giungono dall’esterno, sono anche le osservazioni oggi proposte dalle neuroscienze, così come sottolinea Ficacci (2009) quando scrive: “La corteccia invia giù i suoi messaggi, ma questi possono solo modulare gli stati primordiali generati dalla sottocorteccia […] la neurofisiologia delle emozioni mostra che ci sono più neuroni che vanno dall’amigdala e dall’ippocampo alla corteccia che viceversa”.

Ma a cosa può essere dovuta la difficoltà di accedere alla verità, o realtà, materiale, ai “fatti” per come si sono concretamente verificati, a volte segnando indelebilmente la vita del paziente, per loro stessi più che per i processi intrapsichici conseguenti?

Un’ipotesi esplicativa di tale complessa questione potrebbe essere rintracciata nei limiti che le menti della coppia analitica incontrano in rapporto alla capacità di contenimento attraverso la pensabilità di elementi che risultino eccessivamente dolorosi per il paziente[4] (Correale, 2000), o che, come già accennato, potrebbero indurre l’analista ad agiti o ad assumere posizioni. Scrive Giannitelli (1987: 385): <>, perché, aggiungeremmo noi, l’accesso della realtà concreta nella situazione analitica può rendere il trauma nuovamente presente come “fatto in sé”, rendendo a volte utile, nel caso di eventi particolarmente  insostenibili, proprio a causa della loro forza traumatica, predisporre più “reti di contenimento”, che potrebbero essere rappresentate dal ricorso ad un doppio setting (Sonnino, 2006).

Un altro aspetto, particolarmente incisivo sulla difficoltà di una ricostruzione materiale, effettiva, dei ricordi può inoltre derivare dalle profonde influenze del mondo intrapsichico sul processo stesso di rievocazione, tanto da renderlo il prodotto di un’integrazione tra “informazioni derivanti dall’interno e dall’esterno” (Ficacci, 2009), pur essendo una meta analitica quella di favorire il più possibile “relazioni reali”, intendendo per relazioni reali quelle <> (Micati, 1993). Scrive Petrella (2008): .

La verità, quindi, che ci sforziamo di ricostruire[5], dobbiamo chiederci, in quale misura potrà corrispondere ai fatti accaduti nella loro concretezza, piuttosto che all’elaborazione che di questi il paziente (e l’analista) riescono a farne? Ed inoltre, quanto il paziente (pur insieme all’analista) è disposto ad incontrare una verità concreta che può modificare i riferimenti interni prodotti dalle proprie elaborazioni, a volte sulla base di esigenze difensive? Spesso, quindi, un tacito, segreto, accordo, fa sì che la coppia analitica, pur intenta in un’accurata ricostruzione della verità storica, sempre dotata di profonde potenzialità terapeutiche, si preservi dall’onda traumatica del ricordo, materiale o concreto, che sarà in tal caso condannato a rimanere sepolto nell’oblio, mettendo in tal modo alla prova la capacità della coppia analitica di tollerare il “non poter sapere”. Del resto Freud stesso, che non trascura il fatto che a volte la “verità” non può che essere rivelata solo sottoforma di elaborazione simbolica, quindi quale “verità storica”, allontanando così la mente dalla conoscenza dei fatti concreti, ossia dalla “verità materiale”, scrive in “Avvenire di un’illusione” (1927: 474): “Quanto alla rinuncia alla verità storica, rinuncia che caratterizza la motivazione razionale delle norme civili, non c’è motivo di rimpiangerla. Le verità che le dottrine religiose contengono sono così deformate e sistematicamente mascherate che la massa degli uomini non può riconoscerle come verità. E’ un caso analogo a quello che si ha quando raccontiamo al bambino che la cicogna porta i neonati. Anche in tal caso diciamo la verità in veste simbolica; sappiamo infatti cosa significa il grande uccello. Il bambino però non lo sa, nelle nostre parole coglie solo l’elemento di deformazione, si ritiene ingannato, e sappiamo quanto spesso la sua sfiducia nei confronti degli adulti e la sua insubordinazione derivino proprio da tale impressione. Siamo giunti alla convinzione che sia meglio omettere nei nostri discorsi coi bambini queste dissimulazioni simboliche della verità e non sottrarre ad essi la conoscenza di circostanze di fatto reali, pur adattandole al loro livello intellettuale” (corsivi nostri).

 

Un paziente di 32 anni, dopo aver manifestato l’esigenza di una ricostruzione degli eventi che riteneva potessero essere alla base dei suoi sintomi (una forte rabbia verso la famiglia ed una potente autodistruttività che lo portava ad abusare di cocaina ed a disperdere ogni risorsa economica nelle scommesse e nel gioco d’azzardo), nel momento in cui si inizia a discutere in seduta, su sua proposta, di un possibile incontro con i propri genitori, da realizzare nella stanza d’analisi, allo scopo di chiarire i vecchi malintesi attraverso il recupero, diremmo noi, di quella realtà concreta che è stata oggetto delle sue amnesie, interrompe l’analisi, mostrando come l’accesso alla verità materiale, attraverso il confronto con gli oggetti reali esterni, debba essere preceduto da un sufficiente lavoro di ricostruzione, o costruzione, di una capacità interna di mentalizzazione e di contenimento, condensando la problematica implicita in quello che è stato l’interrogativo proposto dal titolo di un lavoro di Micati del 1993: “Quanta realtà può essere tollerata?”.

I incontro con P.

Racconta subito di vivere solo, è impiegato, ha 32 anni ed una sorella di 41. Da due anni ha smesso di abusare di cocaina, ma persiste la tendenza a continuare con le scommesse ed il gioco. I genitori, per il loro lavoro, da bambino lo lasciavano tutto il giorno con la sorella. Dice che sono sempre stati molto autoritari; a 18 anni lo avrebbero cacciato di casa, per poi richiamarlo, lasciandogli da quel momento una libertà totale. Si sente insicuro e dipendente, tanto da dover ricorrentemente farsi coraggio ripensando di “avercela fatta con la cocaina”. La madre vorrebbe che assumesse farmaci e spesso gli ripete che se sapesse che lui sta bene, lei potrebbe morire in pace, facendolo così sentire “sovraccaricato”. Continua dicendo che è come se volesse farsi del male: quando gioca ai cavalli è “per perdere” e quando “sniffava” era solito chiudersi in casa anche per quattro giorni “fino allo stremo”.

Ci accordiamo per vederci due volte alla settimana.

1° seduta.

Pz.: “Ho aspettato con ansia questo appuntamento, ci sono venuto volentieri. Come se avessi bisogno di recuperare qualcosa. Sono cresciuto con mia sorella, che si è sposata quando avevo 13 anni e da allora, fino ai 17 anni, ho vissuto solo. Poi a 17 anni, dopo una discussione nel corso della quale venni picchiato, dissi che da quel momento avrei comandato io. Venni cacciato di casa, ma poi si pentirono ed io presi effettivamente il sopravvento. Vivevamo in un regime di terrore. Mia sorella non poteva uscire di casa; una volta, perché uscì quando mio padre aveva la febbre, non la fecero rientrare. Mamma mi picchiava se strappavo una pagina dai quaderni. Poi loro sono cambiati e sono subentrati i miei errori. Mia sorella ha dimenticato”.

Nelle sedute successive

… La madre gli ribadisce che, quando lo vedrà “sistemato”, potrà morire in pace, caricandolo di una forte ansia.

Ritorna spesso sullo scarso affetto ricevuto dai genitori: “Spesso avevo bisogno di telefonare a mia madre per dirle che avevo sniffato o scommesso… Ciò mi sollevava. Ora mi vede più tranquillo, ma vorrei farle sapere che deve continuare a preoccuparsi per me, perché è un percorso lungo. Non mi davano affetto. Non so nulla delle loro storie, vengono da regioni diverse… Perché sono venuti a Roma? Chissà se mio padre era come me? Se avrò un figlio, saprà tutto di me. Ero un ribelle, ora i miei genitori sono terrorizzati da me, ma ciò mi dispiace. Dicevo a mia sorella che un giorno mi sarei vendicato, gliela avrei fatta pagare per tutto quello che mi hanno fatto. Oggi li ho annullati, mi sono vendicato, ma con dispiacere”.

Più avanti…

Pz.: “La famiglia di mia madre era molto povera, mio nonno era un pastore, beveva e picchiava, forse per questo mia madre è fuggita via venendo a Roma. Forse gli atteggiamenti che ha assunto erano quelli di mio nonno: tornava dal lavoro e cercava uno spunto per picchiarci. Non ho avuto una bella adolescenza, non conosco i miei, mai fatto un viaggio con loro…”

In un’altra seduta… “Se parlo di mia madre ad una terza persona, esce tutto il bene che le voglio, se parlo con lei mi sento invece in difficoltà. Se dovessero dirmi che è morta immagino tutto quello che avrei potuto dirle”.

Più avanti…

Pz.: “Ho forti problemi economici, la mia ragazza mi ha offerto il suo aiuto, ma io l’ho rifiutato, voglio risolvere da solo, voglio tenerla assolutamente fuori da questi miei problemi. Lei c’è rimasta male”.

Commento che vuole sentirsi convalidato per le sue capacità, nello stesso tempo non vuole rendere conto a nessuno.

Nei giorni seguenti si sente sempre più incalzato dalle difficoltà economiche ed in ansia rispetto alla ragazza, che decide di lasciare per la seconda volta.

Gli viene fatto notare che sembra non tollerare che ci sia qualcosa o qualcuno di buono per lui [forse per il timore di una colpa insostenibile per la propria distruttività rivolta verso gli oggetti con cui è in rapporto], come la sua ragazza che vuole essergli d’aiuto.

Dice che la madre accusava la ragazza di fargli spendere troppo, in realtà era proprio il contrario, ma non ha mai fatto nulla perché la madre correggesse il proprio punto di vista, lasciando che continuasse a pensarne male.

Più avanti…

Pz.: “Sono preoccupato perché da mia sorella ho saputo che mio padre sta male. A me non dicono nulla direttamente. Mi sento considerato un estraneo. Anche io li ho sempre tenuti distanti, anche quando mi sono operato, preferivo rimanere solo. È così anche con mia sorella e la ragazza”.

An.: “Forse vuole tenere tutti distanti perché non sopporta di avere bisogno degli altri”.

Pz.: “Ciò di cui avevo bisogno non mi veniva dato. Mia sorella ha preso il posto di mia madre, ma poi anche lei mi ha abbandonato. Quindi non mi fido di nessuno; ho paura delle persone che mi stanno vicino, tendo a non avere nessuno accanto”.

Commento che forse sente anche il bisogno di verificare se gli vogliono veramente bene, i pasticci che combina (la cocaina e i debiti di gioco) possono rappresentare anche un modo per metterli alla prova, oltre che per danneggiare se stesso.

Risponde che quando assumeva cocaina, non gli hanno più parlato.

Con l’avvicinarsi della pausa estiva [al 5° mese di analisi], fa sapere che andrà via una settimana prima perché invitato per una vacanza. Nello stesso tempo, ribadendo che sente proficuo il nostro lavoro e che si sente aiutato da me, consideriamo sempre di più quanto senta forte il bisogno di mantenere una distanza dai riferimenti (oggetti) positivi, per paura di distruggerli e, nello stesso tempo, quanto si senta dolorosamente sensibile agli abbandoni, tanto da andarsene via prima per essere lui a lasciare me, piuttosto che subire il contrario con la pausa estiva.

Dopo la pausa estiva:

Pz.: “E’ una bella sensazione essere di nuovo qui. Ho litigato con tutti, è da luglio che non sento i miei. Ieri era il mio compleanno, non mi hanno fatto gli auguri. Loro sono stati il vero male della mia vita. Mi sento solo. Se mi avessero chiamato per gli auguri, non avrei risposto. Ho fastidio ad avere persone vicino. Non li voglio vicino a me, mia sorella mi ha lasciato in mezzo ad una strada. Voglio distruggere tutto ciò che ho, per evitare di perderlo per mano di altri. Non voglio essere abbandonato.”

An.: “Mette una distanza di sicurezza tra lei ed i suoi cari, nello stesso tempo teme di affidarsi per non correre il rischio di essere abbandonato. Forse qui si sente più al sicuro rispetto a questo rischio, avendomi ritrovato dopo le vacanze. Per questo la bella sensazione tornando qui”.

In una seduta successiva…

Pz.: “Sono riuscito a stare veramente solo. Ho avuto uno scontro con mia madre. E’ più di un mese che non li vedo. Dicono che non è vero che mi hanno cacciato di casa, che non c’erano mai e che mia sorella mi ha abbandonato. Mi sentivo come se non contasse ciò che dicevo, potevo dire qualunque cosa senza che servisse a nulla. Ho chiesto loro delle risposte e mi hanno detto che  volutamente non me ne danno. Non avrò più aiuto da parte loro, devo vendermi la casa”[6].

Più avanti…

Pz.: “Non ricordano che volevo stare con loro al lavoro perché a casa non ci incontravamo mai e che per sei mesi sono andato a dormire da un amico. Sono in cattiva fede, non possono non ricordare. Venivano sotto casa del mio amico per implorarmi di tornare, chiedendomi scusa.”

An.: “Forse c’è qualcosa che può essere salvato: forse non sono totalmente cattivi se lo imploravano di tornare a casa, chiedendogli scusa, e oggi, oltre al mutuo, gli pagano l’analisi”.

Pz.: “Loro riparano solo con i soldi, troppo comodo! Io sono qui per loro. Sono convinti che tutto dipenda dalle mie cattive compagnie. Ma io non voglio entrare nelle loro teste, già mi è difficile entrare nella mia.”

An.: “Forse almeno un po’ dobbiamo provarci, proprio per capire bene, e poi perché comunque la condizionano, anche nel presente, a cominciare dal fatto che dipende economicamente da loro”.

Pz.: “Ma io voglio liberarmene!”

An. [ritenendo che invece al contrario faccia di tutto per non separarsi, fondando sul rancore un legame che ancora non riesce a rescindere]: “Per sciogliere qualunque nodo occorre prendere in mano anche l’altro filo”.

Pz.: “Loro hanno sempre considerato errori i miei comportamenti, la droga, le scommesse…”

An.: “Anche lei li considera errori, proprio perché sentiva che erano azioni volte contro se stesso, per farsi del male, tanto da sentirsi soddisfatto quando aveva perso tutto”.

 Nella seduta successiva mi dice che loro non sono disposti a considerare verità diverse da quelle in cui credono. La madre sarebbe disposta a rispondere alle sue domande, ma solo alla presenza dell’analista.

Pz.: “E’ assurdo che sia disposta a rispondermi solo qui, davanti a lei [all’analista]! E se non fossi mai venuto qui? Mi sembra di essere arrivato ad un punto che non posso superare se non ottengo risposte, come fosse uno steccato invalicabile…Ma io già so cosa direbbe mia madre: che è stata una brava madre e che io l’ho messa in ginocchio. Questo in parte è anche vero, ma io non l’ho mai sentita come una madre. Sono io che non ricordo? Chiedo di essere ascoltato, ma poi sono io che non ascolto, non ricordo. Ho chiesto a mia sorella e mi ha detto che in fondo quello era il modo di una volta di tutti i genitori. Lei è venuta diversa da me. Mi chiedo se sono io che non sono riuscito a cavarmela come avrei dovuto. Loro mi dicono di avergli fatto tanto male, ma io avevo più bisogno del loro sostegno. Vorrei che insieme a mia madre ci fosse anche mia sorella perché lei non mi mentirebbe, lei mi ha cresciuto. Mi farei calpestare pur di avere delle risposte. Se ho delle risposte posso lavorare dentro di me, capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, avrei qualcosa su cui riflettere e con cui confrontarmi… Quando mi drogavo, mia sorella mi ignorò completamente. Le chiesi perché l’avesse fatto e mi rispose che una psicologo le aveva consigliato di evitarmi… Ma come ha potuto?”

[La divergenza tra il punto di vista del paziente e quello dei genitori, mi porta ad interrogarmi sull’incertezza, che emerge progressivamente, sulla propria storia, sulle vicende vissute nel suo passato, sul ruolo e sulle caratteristiche dei genitori, e che sembrerebbe, a questo punto, rappresentare un nodo cruciale. Il bisogno del paziente di cercare risposte all’esterno, parrebbe segnalare, infatti, la profonda difficoltà di trovare in se stesso un proprio punto di vista che lo faccia sentire in grado di affidarsi ai propri giudizi ed ai propri pensieri; come se la parte del proprio Io esente dalla confusione e dalla conflittualità, fosse per lui ancora irraggiungibile, configurando in questo un’area traumatica che si riverbera nel rapporto con me, portandomi ad avvertire, in modo sempre più incalzante, l’esigenza di avere quelle risposte che, difensivamente sul piano controtransferale, possano farmi uscire dalla confusione e dall’incertezza su chi sia effettivamente stato il carnefice e chi la vittima. In altri termini il bisogno del paziente di conoscere la propria storia materiale, per uscire dalla confusione in cui precipita nel momento in cui non riesce a fidarsi di se stesso, irrompe nel rapporto analitico spingendo la mia curiosità verso la necessità di stabilire concretamente cosa sia accaduto e per responsabilità di chi, come via di fuga da quella verità storica su cui i comportamenti e le difese del paziente si sono organizzate. In considerazione di tutto ciò, quindi, si fa sentire sempre più incalzante il bisogno di una ricostruzione effettiva degli eventi, in linea con quella prospettiva che tende alla restituzione di una centralità, nel lavoro analitico, all’ambiente ed alla storia reale. Scrive Borgogno (1999: 95): “Non capisco altrettanto, e in aggiunta mi sento allarmato, quando ascolto numerosi analisti che, con pazienti che essi intuiscono e credono essere stati realmente maltrattati e trascurati quand’erano piccoli (qualcuno addirittura dopo aver affermato che, conoscendo nei tempi addietro quella famiglia, è stato testimone di ciò che il paziente afferma essergli successo), non danno importanza a questo aspetto ma continuano sistematicamente a riferirsi -almeno nel materiale che portano e scrivono- ai violenti e mortiferi sentimenti che i pazienti manifestano verso gli oggetti e verso se stessi”.]

An.: “Forse sente il bisogno di sapere cosa io ne pensi, per sentirsi orientato e per stabilire chi e cosa sia buono e chi cattivo. Evitare i confronti, come è accaduto con la sorella, aggiunge dolore al dolore, ma la scelta deve essere sua, io mi rendo disponibile ad un incontro allargato [ritenendo che, in un’ottica sperimentale con un paziente grave, possa essere utile esplorare tale apertura, pur significando una deviazione tecnica, sebbene volta al tentativo di recuperare la “verità materiale”], ma è lei che deve decidere”.

Pz.: “Va bene, sento che mi serve assolutamente. Ho cercato affetto e risposte nella cocaina, nei cavalli, nelle scommesse, facendo danni, soprattutto a me stesso. Quando ci incontreremo, vorrei rimanere così, sul lettino, per evitare distrazioni o di innervosirmi. Loro diranno che sono io ad essermene andato via di casa, mentre io ribadirei che sono loro ad avermi cacciato. Io non ho difficoltà ad ammettere che assumevo x grammi di cocaina”.

Nella seduta successiva…

Pz.: “Devo andare via 10 minuti prima. Penso molto alla possibilità di incontrare i miei. Non ho mai parlato veramente con loro. Questa esigenza è partita da mia madre,  io reagisco male quando sono vicino a loro. Non siamo mai riusciti a parlarci. Sono tante le cose che vorrei chiedere, temo di perdere di vista quelle più importanti. Potremmo vederci la prossima settimana? Non ho stima di me stesso. Ho detto ad un amico che lui non si fida di me, mi ha risposto che non è vero, quindi sono io che non mi fido degli altri. Sto buttando via il mio tempo. Nessuno mi ha mai spiegato come si affrontano le cose, loro hanno sbagliato anche nell’affetto”.

An.: “Si chiede cosa provenga o dipenda da se stesso e cosa dagli altri. Forse con i suoi può essersi verificato qualcosa di simile a quanto accaduto con il suo amico: ha un’impressione, ma poi realizza che ciò che ha pensato è stato il frutto di una sua elaborazione, piuttosto che di qualcosa proveniente da altri. E’ veramente stato cacciato o è lei ad essersene andato? Del resto anche oggi mette me nella condizione di mandarla via 10 minuti prima, ma per una sua esigenza di lavoro. Dell’incontro con i suoi genitori, possiamo riparlarne la prossima volta”.

Salta, quindi, due sedute consecutive, inviandomi un primo SMS con il quale afferma di avere impegni di lavoro e poi un secondo per dire che ha la febbre. Quindi ne invia un terzo, scrivendo: “Dott. mi scusi ma io sono un bugiardo! Devo trovare i soldi per lei e certamente per lunedì li avrò! Non mi sento di venire in queste condizioni e con questo peso! Sto infatti pensando di terminare con le sedute! Sono un fallito e tutto mi sembra inutile. Lunedì le porto i suoi soldi”.

Successivamente ne invia un altro: “Dottore mi dispiace per quanto mi sta accadendo! Non ho nessuno e forse lei è la persona che più mi ha capito…Ora non ha più senso vivere in questo modo.. sono tanto stanco e prego Dio di darmi il coraggio di finire questo calvario!! Ho tanta voglia di chiudere gli occhi e di non aprirli mai più”.

A questo punto, pur avendo il sospetto di una manipolazione, decido di non sottovalutare il rischio di un agito autolesivo e, dopo aver inutilmente cercato di contattarlo, avverto i genitori, che solo in tarda serata riescono a raggiungerlo.

Il giorno dopo il paziente mi invia un messaggio con il quale mi informa di voler interrompere le sedute, esprimendo, nello stesso tempo, un forte odio per i propri familiari e respingendo ogni mia chiamata od invito a riparlare: “…Finché non vedrò crepare i miei genitori e mia sorella so come comportarmi… Li voglio in ginocchio ai miei piedi… Toglierò loro la vita nella sofferenza e nel dolore e non importa se starò male… Io li odio e devono vivere soffrendo!! Finché vivo verseranno lacrime.”

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Il transfert positivo (l’analista come oggetto che lo accoglie e che gli dà fiducia ascoltando le “sue verità”, pur sollecitandolo a vigilare sulle parti distruttive, verso sé e verso gli altri), che si è mantenuto fino a quando non è emersa la richiesta di poter incontrare i genitori nella stanza d’analisi, richiesta avanzata dalla madre, espressa dal paziente che se ne è fatto portavoce e non immediatamente rigettata dall’analista, si è evidentemente dissolto, trasformandosi in transfert negativo -lasciando trasparire gli elementi perversi della sua personalità-, nel momento in cui il paziente ha avuto l’impressione, o il timore, di non poter più contare su una “alleanza incondizionata” con l’analista, vissuto fino a quel momento come disponibile a rimanere “dalla sua parte”, in un clima di condivisione ed in piena adesione alle “sue versioni”, in linea con la propria “verità storica”. La possibilità di ascoltare la versione dei familiari, con la prospettiva di ricostruire una “verità materiale” che avrebbe potuto mettere in discussione o addirittura invalidare le convinzioni del paziente, avrebbe minacciato la tenuta delle sue difese funzionali alla necessità di tollerare una colpa per la propria distruttività, troppo profonda per essere sostenuta, soprattutto se consideriamo che tale colpa era verosimilmente proporzionata all’entità dell’odio provato. In altre parole, pur avendo dichiarato il bisogno di un confronto con i familiari allo scopo di ricostruire la “verità materiale”, incontrandosi su questo con le esigenze della madre, il paziente può aver sentito il rischio di essere smascherato rispetto alle sue istanze distruttive perverse, istanze che provava a legittimare sulla base di una “sua” verità storica (“mi hanno cacciato, quindi, in quanto vittima, posso vendicarmi”), in opposizione ad una verità materiale (“sebbene mi abbiano trascurato, io ho deciso di andarmene; loro hanno comunque provato a riparare; io sarò altrettanto in grado di farlo, superando il mio odio e rinunciando al trionfo [narcisistico]?”).

Dalla posizione dell’analista è necessario affermare che l’implicita adesione alla richiesta di incontrare i familiari nella stanza d’analisi (pur avendo rappresentato un’occasione sperimentale), anziché, come sarebbe stato tecnicamente più corretto all’interno di un modello classico, averne subito proposto una lettura decodificante i significati più profondi, con riferimenti al transfert, o al mondo interno (bisogno di incontrare proprie parti interne, i suoi oggetti interni disposti a cacciare l’altro per distruggerlo, bisogno di conoscere la posizione dell’analista, di verificarne la disponibilità ad allearsi con lui fino in fondo, fino a condividere le sue istanze distruttive/vendicative contro i genitori) può aver rappresentato un controagito che deve aver fatto sentire il paziente tradito rispetto ad una richiesta che, forse, in quel momento, sentiva provenire più dai suoi familiari piuttosto che da sé.

Le convinzioni del paziente relativamente agli eventi più significativi della propria storia (“sono stato cacciato di casa dai genitori”, “i miei non erano mai presenti, mi lasciavano sempre solo”, “anche mia sorella mi ha abbandonato”), hanno quindi costituito, a mio giudizio, una trama all’interno della quale si è condensata una strategia difensiva volta alla necessità di risolvere il peso di insostenibili sensi di colpa, causati da una distruttività intrisa di elementi perversi, per i quali continuava a danneggiare se stesso, mentre, contemporaneamente, esprimeva odio per la sua famiglia (affermava di volersi vendicare per il male ricevuto e quindi, di fatto, prosciugava le loro risorse economiche, oltre che, ovviamente, le proprie). Purtroppo non è stato possibile ricostruire su cosa si fondasse quell’odio che il paziente aveva bisogno di giustificare ricorrendo alla “sua verità storica”. Le ipotesi da considerare, a questo riguardo, possono certamente essere diverse, ma a qualunque livello o ambito appartenessero (traumatico precoce? preedipico? edipico?), devono aver rappresentato un piano inavvicinabile per il paziente, tanto da averne indotto la fuga nel momento in cui si è iniziato a discutere della possibilità di incontrare nella stanza d’analisi gli oggetti reali, con la prospettiva, quindi, di ricostruire la verità materiale, concreta.

Il ruolo della vittima, in rapporto a genitori carnefici, vissuti come insensibili e cinici, costruito sulla base della sua verità storica, gli avrebbe dunque permesso di giustificare l’odio provato nei loro confronti, evitando il peso di una colpa, mentre la possibilità di incontrare le figure reali, riavvicinandosi alla verità materiale, concreta, avrebbe comportato per il paziente il rischio di dover mettere in discussione le convinzioni alla base di quella verità storica che doveva essere mantenuta affinché le sue difese potessero rimanere intatte. E per questo, per tale elaborazione, non era evidentemente ancora pronto, come del resto, forse, aveva implicitamente indicato quando ha chiesto di poter incontrare i genitori nella stanza d’analisi rimanendo sul lettino, lasciando così trasparire il suo bisogno di confronto con gli oggetti interni, sul piano intrapsichico, prima di poter accedere alle figure reali esterne. Dal punto di vista controtransferale, c’è infine da segnalare quanto, in tali situazioni “di frontiera”, con pazienti così gravi e con vissuti ascrivibili ad esperienze traumatiche, sia forte il rischio di essere travolti dalla tentazione di andare a verificare gli scenari esterni, subendo, come sottolinea Zerbi Schwartz (1998, 531-532), una pressione induttiva all’enactment e quindi all’assunzione di ruoli



* Questo articolo è frutto di una rielaborazione del lavoro presentato il 30 maggio 2009 a Bologna al XXXVIII convegno a seminari multipli della SPI, nel seminario condotto dalle dott.sse M. Antonietta Ficacci e Francesca Piperno, al quale hanno partecipato i componenti il gruppo di studio sulla “clinica del trauma”: dott.sse. Lorella Diolordi, Marisa Fiorillo, M. Assunta Giannini, Simona Spizzichino ed i dott.ri Tito Baldini ed Alberto Sonnino.

[1] Arrigoni Scortecci sottolinea (in Semi, 1988, 644): “…la necessità [con i pazienti gravi] di appropriati interventi sulla famiglia per rendere comprensibile ai familiari la patologia del paziente, per assicurarsi una loro minima collaborazione…”.

[2] Sulla questione transgenerazionale cfr. Kaes (1993), Neri (1993) e Nicolò (2000).

[3] Scrive Rosenfeld (1987: 166): “Non è possibile trattare i pazienti psicotici senza conoscere la loro storia e senza aver indagato al riguardo in modo empatico e immaginativo”; mentre Mina Arrigoni Scortecci (1994, 228): “…con i pazienti psicotici l’analista a mio avviso dovrebbe tenere abbastanza presenti nella sua mente, qualora ne sia stato informato, quegli eventi particolari e significativi che hanno per così dire determinato e dominato interi periodi della vita del paziente funzionando come nuclei di condensazione attorno a cui si sono organizzate le sue difese”.

[4] Pensiamo, a questo riguardo, che l’esperienza nei campi di sterminio nazisti possa configurare un esempio di “traumatismo assoluto” (Mucci, 2008; Pezzetti, 2009), un traumatismo, cioè, che comporti l’impossibilità di un contenimento fondato su una capacità di elaborazione volta o finalizzata ad una trasformabilità o ad una pensabilità. Un traumatismo che non può che rimanere come “fatto in sé”, incistabile nella mente e con il potere di trasmettersi immutato alle generazioni successive proprio a causa della propria non trasformabilità (Wardi, 1992; Di Castro, 2008).

[5]  Petrella, nel già citato lavoro del 2008, dopo aver sottolineato quanto la ricostruzione degli eventi storici passati sia condizionabile dalla lettura che ne viene fatta nel presente, come pure il metodo storiografico dimostra, conclude riaffermando “l’inevitabilità metodologica del momento storico-ricostruttivo in analisi, che nessun elogio dell’hic et nunc e della relazione analitica attuale può far dimenticare”.

[6] Pregnante, a questo riguardo, il riferimento di Borgogno a Ferenczi sul ruolo traumatico e patogeno non tanto degli eventi, quanto piuttosto del loro diniego da parte degli adulti. Scrive Borgogno (1999: 164): “Nel diniego non è unicamente negata e disconosciuta la percezione della realtà che ha il bambino, ma vengono negati e disconosciuti la realtà e lo sviamento che il genitore impone, sì che il bambino viene trasportato in un luogo mentale non suo e privato di sue peculiarità, anche solo potenziali e fisiologiche. Una forma -per eccellenza- di estrazione e intrusione, di sottrazione e di proiezione non evolutive, alimentate da <>”.

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