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Pozzi F. - Ma gli oggetti, hanno un’anima? (2014)

I Seminari del Centro di Psicoanalisi Romano - Klein Today (20-21 settembre 2014)

Nei primi tempi della mia formazione psicoanalitica, quando mi stavo interessando al pensiero di Melanie Klein, rimanevo, a volte, perplesso nella misura in cui mi sembrava di addentrarmi in un mondo nel quale prevalesse un eccesso di fantasia, anche se era chiaro che ci si riferiva alla “fantasia inconscia”. E’ proprio sulle fantasie che vorrei soffermarmi oggi, le fantasie dei bambini, degli adulti, di noi psicoanalisti, della Klein e del suo mondo magico. Susan Isaacs in particolare, che era seguace e fermamente convinta circa le teorie kleiniane, scrisse un famoso, puntuale e suggestivo articolo sulla fantasia inconscia nel 1943, poi pubblicato nel 1948 e tradotto e commentato da Diomira Petrelli (2007), in cui vengono affrontate tutte le dinamiche possibili relativamente alla fantasia inconscia. Per Susan Isaacs (1948-2007) “Le fantasie inconsce sono sempre dedotte, mai osservate come tali” (p. 3) e “Nella prima fase della vita vi è una gran quantità di fantasie inconsce che assumono forme specifiche in relazione all’investimento di particolari aree del corpo” (p. 19). La fantasia inconscia così descritta dalla Isaacs si viene ad inserire nella struttura dell’organizzazione mentale precoce dell’infante.[1] In un analogo modo di teorizzare si esprime anche Spillius (2007, 181) quando scrive: “Le prime e più profonde fantasie inconsce sono corporee, e soltanto gradualmente, con la maturazione e lo sviluppo dell’esperienza attraverso l’introiezione e la proiezione, alcune di queste vengono ad assumere una forma verbale” (traduzione mia). Ma queste teorizzazioni pur così raffinate non erano sufficienti per far diminuire il mio atteggiamento di perplessità: l’idea che l’infante, ancora piccolissimo, potesse manifestare affetti, pulsioni, fantasie e forti sentimenti di invidia e collera, da un lato mi affascinava, dall’altro mi faceva dubitare che si potesse credere in un mondo così primordiale dello sviluppo psichico umano. Già Mancia (1982) aveva messo in evidenza la possibilità che esistessero flussi affettivi fra madre e figlio a partire dal settimo-ottavo mese di vita intrauterina, a proposito dell’inizio di un’attività di vita mentale nel feto. Mano a mano che andavo acquisendo esperienza con la psicoanalisi infantile e con la cura di bambini gravemente deprivati, tutto ciò che per un certo tempo mi era sembrato eccessivamente “fantastico”, andava invece acquistando sempre più una maggiore credibilità. Avere a che fare con le fantasie proprie e altrui mi faceva entrare sempre più in un mondo possibile dove “l’inanimato” poteva animarsi, così come uno spazio vuoto psichico, per esempio quello di un bambino autistico, poteva lentamente riempirsi con dei contenuti psichici “vitali” che avrebbero dato un senso a quel particolare lavoro psicoanalitico che si andava svolgendo. Oggi posso dire che, anche catamnesticamente, un certo numero di casi che ho avuto in cura hanno esitato in un percorso di vita accettabile, grazie proprio al supporto teorico al quale ci riferiamo nella giornata odierna.

C’è un modo di dire popolare: anche gli oggetti hanno un’anima. Più di una volta, nella vita quotidiana, mi è capitato di riflettere su questo detto, a dire il vero con una modalità di pensiero magico di tipo infantile. Ecco due piccoli esempi per entrare nel merito della “magia”. Un giorno cercavo di fare entrare in una piccola bustina di plastica un bottoncino di ricambio di una camicia appena acquistata: ogni volta che prendevo fra le dita il bottoncino e tentavo di sistemarlo nella bustina, questi mi sfuggiva di mano, rimbalzava due o tre volte sul tavolo capriolando, mi cadeva a terra rotolando sul pavimento e andava ad infrattarsi nei posti più imprevedibilmente scomodi da raggiungere; lo riacchiappavo e ritentavo di “farlo prigioniero” e così via per più e più volte. Si andava così svolgendo una sorta di dialogo fantastico fra me e il piccolo oggetto: “Vieni qui che ti acchiappo, sta fermo, cosa fai? Non vuoi proprio farti prendere!”. Una sera, in cucina, stavo preparando la base per cucinare degli spaghetti all’aglio, olio e peperoncino. Mi era rimasto un ultimo spicchio d’aglio, il più bello e il più grosso, sicuramente determinante per la buona riuscita del piatto: improvvisamente, lo spicchio mi schizzò via di mano (come se non volesse finire in padella!) centrando, come un pallone quando va in canestro, il piccolo foro del cestello dei rifiuti, andando così a nascondersi fra la spazzatura e diventando irrecuperabile! Anche in questo caso dei pensieri del tipo “fumetto”, che vi lascio immaginare, si svolsero fra me e quello spicchio d’aglio. Di episodi simili a questo, nella vita quotidiana, se ne possono riscontrare ogni giorno (o quasi) ed anche più di una volta al giorno. Hanno spesso a che fare con variazioni del nostro umore in uno spazio di oscillazione del tutto normale e non patologico. Quando però queste oscillazioni assumono un andamento eccessivamente elevato e frequente, allora si entra nella patologia, nell’allucinazione, nel delirio. Ovviamente, c’è da dire che, in tutti questi episodi, la causalità la fa, direi quasi sempre, da padrona.

Lupinacci (2013, 402), a proposito del dare un nome agli oggetti inanimati descrive l’attonicità suscitata dalle sue parole in un suo piccolo paziente in terapia analitica. Si esprime così la terapeuta: “Mi rivolgo all’omino costruito e gli dico: ‘Ciao omino!. Il bambino mi guarda stranito, come fossi matta: un adulto che parla ai giocattoli, figurarsi!’[corsivo mio]”.

Melanie Klein, in un suo interessante articolo del 1929, prende in esame un’opera musicale di Maurice Ravel, l’Enfant et les sortilège, analizzandola secondo le teorizzazioni sulla sessualità infantile da lei arricchite e approfondite, che proseguivano nella direzione indicata da Sigmund Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) e nelle successive revisioni (1910, 1915, 1920, 1922, 1924 e 1925) da Freud stesso modificate (Luchetti et al. 2010).

E’ interessante questo articolo di Melanie Klein su un’opera musicale perché seguendo la traccia fra arte, posizione depressiva, creatività e riparazione, Hanna Segal (1955, 1991) svilupperà un discorso partendo appunto dalle teorie kleiniane. Dice la Segal (1955) come, partendo da Freud che “… ha notato come il lavoro dell’artista sia un prodotto della fantasia e abbia, al pari del gioco infantile e dei sogni, le sue radici nella inconscia vita della fantasia (p. 495)” …[…]… e arrivando alla Klein che “… ha gettato più luce sul problema dell’impulso creativo e della sublimazione (ibidem)” …[…]… “La ‘posizione depressiva’, come viene descritta da Melanie Klein, si determina nell’infante allorchè questi riconosce la madre e altre persone –tra cui il padre- come persone reali.” …[…]… e a questo punto la “… paura dominante è quella di perdere l’oggetto amato nel mondo esterno e nel proprio interno (p. 496)” …[…]… “Fantasie depressive danno origine al desiderio di riparare e ricostruire e diventano stimolo a ulteriori sviluppi, solo in quanto l’ansia depressiva può essere tollerata dall’Io e il senso di realtà psichica conservato (p. 497)” …[…]… Hanna Segal si domanda allora: “Come avviene questa creazione? Fra tutti gli artisti colui che ci dà la miglior descrizione del processo creativo è Marcel Proust, che per anni e anni si è scrutato e analizzato con mirabile acume. Secondo Proust, un artista è costretto a creare dal suo bisogno di riacquistare il passato perduto (pagg. 498 e 499)”. Hanna Segal (1991) aveva analizzato sia artisti che psicotici. Essa mette in evidenza l’importanza del simbolismo, le connessioni fra sogno ad occhi aperti, gioco, arte e pensiero creativo che si realizzano nella riparazione: “L’artista si ritira in un mondo di fantasia, ma può comunicare le sue fantasie e farne parte agli altri. In tal modo, egli compie una riparazione, non solo rispetto ai suoi oggetti interni, ma anche al mondo esterno (1955, 510).” …[…]… “Il vero piacere estetico, cioè quello prodotto da un’opera d’arte, è dovuto a un’identificazione di noi stessi con l’opera d’arte, in quanto questa è un tutto, e con l’intero mondo interno dell’artista qual è rappresentato dalla sua opera (ibidem)”. A proposito d riparazione Alvarez (1990) fa notare la distinzione tra vera e falsa riparazione, dove una riparazione maniacale ed ossessiva tendono ad essere viste come difese, e quindi inferiori alla vera riparazione. L’autrice ipotizza un continuum di meccanismi riparativi dalla posizione schizoparanoide alla posizione depressiva. La riparazione maniacale ed ossessiva vengono considerate come tappe evolutive di un unico processo di sviluppo.

Tornando alla favola musicata da Ravel, questa narra delle vicende di un bambino che, come spesso accade ai bambini, è svogliato, si rifiuta con insistenza di fare i compiti, fa linguacce alla mamma che dolcemente lo invita a mantenere i propri impegni, fino a che, esasperata dai suoi rifiuti, lo mette in castigo. Per reazione il bambino manifesta una rabbia furibonda: se la prende con gli oggetti della stanza, li distrugge, li scaraventa da tutte le parti, disseminandoli ovunque, mettendo in atto un potenziale di aggressività che, anche bambini molto piccoli, sono ben in grado di esercitare. La Tazza e la Teiera vanno in pezzi … lo Scoiattolo viene punto con la penna e fugge terrorizzato … l’acqua del Bollitore viene versata nel Camino sollevando nuvole di fumo e così via. “Ma ecco che gli oggetti maltrattati si animano” (Klein 1929, 240). Il bambino assegna un’anima alle cose a seconda della sua rabbia, che pare dipendere dal desiderio e, nello stesso tempo, dalla paura di crescere, legata al timore di poter perdere l’amore dei genitori. Momenti di tranquillità si alternano alla sua rabbia: egli si trova ad avere a che fare con oggetti che, “appunto animati”, si rivoltano contro di lui e lo coinvolgono, in certi momenti, al limite della tollerabilità, vendicandosi così dei tanti torti subìti, fino ad arrivare a terrorizzare il bambino che cerca rifugio nel bosco attorno alla casa, invocando l’aiuto della mamma.E, “ … sull’orchestra che, ammutolita da tutti quegli sconquassi, pare trattenere per un momento il fiato, la voce del bambino grida due sonorissimi ‘hurrà!” (Restagno 2009, 421-423), quasi nel tentativo di voler affermare i residui della propria onnipotenza infantile. Ed è in questo contesto che due figure della favola musicale in particolare, colpiscono la Klein: la poltrona (cui corrisponde in francese il sostantivo maschile fauteuil e il divano, un divanetto dalla forma speciale, la femminile bergère[2]: avremo così di fronte “una coppia”, rappresentata dal Fauteuil (basso) e dalla Bergère (soprano). La Klein identifica, appunto, in questi due oggetti, la coppia dei genitori del bambino che, quando intraprendono una danza, stanno a significare la simulazione della scena primaria che fa così tanto arrabbiare il bambino, lo sconvolge e lo coinvolge. E’ evidente che la Klein, nel suo commento psicoanalitico dell’opera musicale di Ravel (basata appunto, come tante altre dell’Autore su una fiaba), ha anche colto in “trasparenza” le componenti infantili del musicista, cosa che, del resto, appare chiaramente anche dal titolo e da tutto il contenuto del libro su Ravel di Enzo Restagno che recita: Ravel e l’anima delle cose[3].

Quando la poltrona e il divano iniziano la danza che può essere rappresentativa della coppia dei genitori, che “esclude” il bambino (che avrebbe voluto “adagiarsi” nel divano/mamma, che però lo rifiuta preferendogli la poltrona/papà), questa scena mi richiama alla mente un suggestivo episodio del film Edipo Re di Pasolini, dove la coppia dei genitori balla romanticamente, apparendo a tratti, simulacro della scena primaria, dietro le tende fluttuanti della finestra della camera da letto mentre il bambino (che si sveglia di soprassalto, quasi che percepisse qualcosa e si alza dalla culla … ) osserva, aggrappato alla ringhiera del balconcino che dà sul cortile, con un’espressione triste ed angosciata che rappresenta magistralmente il significato intrinseco dell’esclusione edipica. Equivale ad un bambino che irrompe, la notte, nella camera dei genitori, attratto dalla scena primaria.

Nella prima parte della favola il bambino manifesta il piacere di distruggere. Dice la Klein: “Mi riferisco in particolare alle aggressioni contro il corpo materno e il pene del padre che vi sarebbe contenuto. …[…]… E infine come opera il bambino la sua aggressione, che è aggressione contro i genitori accoppiati? …[…]… con una modalità aggressiva peculiare dei bambini molto piccoli, quella cioè di insudiciare con gli escrementi. [rovescia il calamaio, il bollitore della teiera, ecc…] …[…]… Ciò vuol dire che il conflitto edipico esordisce sotto il dominio assoluto del sadismo” (Klein 1929, 241). In un secondo tempo il bambino riparerà prendendosi cura degli oggetti maltrattati, curando, ad esempio, lo scoiattolo ferito dalla penna e quando si sarà rassicurato di non aver perduto l’amore dei genitori. La Klein nell’analizzare le vicende del bambino protagonista della favola musicata da Ravel si riferisce ad un bambino normalmente nevrotico alle prese con le sue vicende edipiche. Secondo le teorie kleiniane un bambino psicotico non avrebbe potuto in nessun modo avere accesso all’Edipo. Molti anni dopo, André Green contesta questo concetto, a modo suo e con la consueta assertività che era una sua caratteristica peculiare.

Green (1992) scrive: “E’ ormai banale dire che, quando l’analista si trova in presenza di un’organizzazione edipica male strutturata, ha il diritto di formulare certe riserve prognostiche … […] … Se è vero che lo psicotico, nelle sue fasi più regressive, non ci permette di reperire le coordinate più abituali dell’Edipo, è ugualmente vero che questa destrutturazione regressiva ha distrutto il complesso di Edipo, così come ha distrutto una gran parte dell’attività psichica. …[…]… il soggetto si trova posto a confronto con i due genitori, ma questi vengono identificati secondo il loro carattere buono o cattivo. …[…]… la tripartizione soggetto-oggetto buono-oggetto cattivo sfocia di fatto in un rapporto duale, giacchè l’oggetto terzo è sempre solo il doppio dell’oggetto. Il soggetto si unisce allora a un solo oggetto (pp.260-62)”. Io posso dire che mi situo a metà fra queste due linee teoriche (Klein-Green), come vedrete dalla vignetta clinica che vi propongo.

Vi riporto qui di seguito una situazione clinica tratta da un mio lavoro, riguardante l’apparire dell’Edipo nelle vicende di un bambino autistico che ho avuto in analisi per un lungo tempo (Pozzi 2005a).

Il piccolo, che chiameremo F., in analisi dall’età di quattro anni e mezzo, mutacico, che non faceva nemmeno uso di un cenno di linguaggio ecolalico (frequentissimo nella maggioranza di questi casi), dopo alcuni anni di terapia aveva iniziato a propormi (con insistente frequenza nelle sedute) due interiezioni caratteristiche: uuh! e ohh! Utilizzando solamente queste due modalità di vocali, espressive rudimentali e primitivissime, profondamente sospirate, interloquiva con estrema precisione e sintonia ai commenti, ai pensieri e alle parole che gli andavo svolgendo in seduta. Con la medesima modalità si era “presentato” ai genitori, facendo loro sentire la sua voce per la prima volta, una notte che questi l’avevano sorpreso “sorridente e curioso” a guardare verso la coppia dai piedi del lettone, durante una delle sue usuali scorribande notturne di esplorazione del suo appartamento. Alle parole della madre: “Cosa fai qui?”, il bambino fece un ampio sorriso ed esclamò: “Uuh!…, Ohh!…”, in maniera un po’ gutturale, ma come se si sforzasse di comunicare qualcosa, modulando le sue interiezioni e usando connotazioni vocali intensamente emotive e continuando a sorridere. Era anche la prima volta che F. si esibiva in tentativi di linguaggio. Nella seduta successiva a quanto mi era stato comunicato dalla madre, ho interpretato al bambino la curiosità che questi aveva rivolto alla coppia dei genitori da lui sorpresi a letto assieme: la sua risposta era stata quella di rivolgermisi, attentissimo alle mie parole, con un sorriso complice, ripetendo gli stessi tentativi di parola che aveva dedicato ai genitori. Era evidente che, come il bambino “vagava” per le stanze dell’appartamento [esplorando uno spazio], così egli si avventurava confusamente per le antiche strade percorse da Edipo [saggiando così il tempo].

Pur in assenza di linguaggio (sinteticamente rappresentato dai suoi uuh! e ohh!) dal comportamento del bambino trapelava la conflittualità edipica rappresentata dagli atteggiamenti che questi assumeva nei confronti della madre e del padre (attaccamento e gelosia), come testimoniavano i racconti dei genitori, riferiti non soltanto alla vita notturna del figlio, ma anche a quella diurna domestica. L’accenno, in seduta, alle sue esplorazioni notturne nella stanza dei genitori suscitava nel bambino una “complice” ilarità, rinforzata da un ampio e luminoso sorriso, oserei pensare, di assenso. L’esplorazione dell’area edipica non era quindi impedita (come avviene anche nelle psicosi o in situazioni borderline di adulti), ma non appariva ancora accessibile in quanto le componenti pregenitali non sufficientemente integrate richiedevano la massima attenzione e la massima cura ed a quelle era necessario continuare a rivolgersi: tale concetto assume un’importanza ancor più rilevante quando si analizzano pazienti adulti.

Il fatto di poter utilizzare osservazioni dei genitori, soprattutto nei casi di bambini con patologie molto gravi, aiuta la terapia e rassicura i genitori. Ci tengo a ricordare che Frances Tustin parlava spesso con i genitori e li sollecitava a frequenti colloqui per aggiornarli ed essere aggiornata a proposito dei mutamenti che avvenivano nei loro figli in terapia (Monti 1999).

Per riprendere il tema degli oggetti che “parlano” o “che hanno un’anima” penso che l’infanzia ci insegni molto, l’infanzia dove la fantasia sta al primo posto delle attitudini psichiche e mentali. Mio nipotino, oramai preadolescente, quando parla della sua infanzia dice: “Quand’ero piccolo mi divertivo a far parlare i miei animali di pelusche, chiedendo loro ‘com’è andata a scuola, cos’hai fatto durante la giornata?’”. Freud (1915-17, 527) dice “Le più note produzioni della fantasia sono i cosiddetti ‘sogni a occhi aperti’…”. Sempre Freud (1907, 378) sostiene però: “Si deve intanto dire che l’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa”. Se questo è giusto è pur vero che se anche nell’adulto la fantasia non potesse spaziare secondo gli stimoli legati alla creatività, non avremmo tante opere d’arte, tante suggestioni letterarie e neppure il pensiero di Melanie Klein che ci ha nel tempo dimostrato la sua utilità nel lavoro clinico, con i bambini in particolare.

Per concludere, in omaggio alla Klein in questa giornata a lei dedicata, vi proietterò una serie di disegni ricavati da una terapia analitica kleiniana ad un bambino autistico da me supervisionata alla dr.ssa Donà dalle Rose. Sono ben evidenti i rapporti della triangolazione edipica che il piccolo paziente sta via via lentamente guadagnando, grazie ad un trattamento andato a buon fine.

In sintonia di quanto vi racconterò di questo caso vorrei citarvi un passaggio di un’analisi infantile di Cancrini (2002, 95) per significare l’importanza del disegno nell’analisi infantile, quando la rabbia e la distruttività, come nel caso del bambino dell’ Enfant et les sortilège, rendono la comunicazione fra paziente ed analista quasi impossibile: “C’è stato nell’analisi con Emanuele un momento molto drammatico, in cui le angosce di annientamento e disintegrazione erano particolarmente intense e spingevano il bambino ad agìti di rabbia incontrollabile. Ricordo una seduta in cui le parole non servivano e l’ascolto era impossibile, tanto forti e assordanti erano l’urlo e lo scroscio disperato dell’acqua che inondava tutto. In quella situazione soltanto il disegnare dell’analista è riuscito a rompere quell’atmosfera terrificante di violenza e di incomunicabilità”. Come spesso accade nelle analisi infantili l’analista è obbligato a fare interventi particolari, non consueti in altre analisi, che servono a rassicurare il piccolo paziente, quando questi non riesce a comunicare altro che con urla e collera incontrollabile (Pozzi 2005b e 2008). Nel caso del bambino del quale vi mostrerò i disegni è stato molto “duro” l’incontro del paziente con la sua terapeuta che però ha retto ed alla fine ha ottenuto un cambiamento nella struttura psichica del suo piccolo paziente.

Vi ringrazio per l’attenzione che mi avete prestato.

                              

Bibliografia

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1- Ed, a questo proposito, vale la pena di ricordare Eugenio Gaddini (1989) quando riprese questo concetto parlando di fantasie nel corpo, più precoci (1959, 1969, 1974 e 1981) e fantasie sul corpo, più recenti (1985), oppure quando parla di organizzazione mentale di base (OMB), ridefinendola come sinonimo del Sé, nel 1980, 1982, 1984 e 1985.

2- Potrebbe essere il lettino psicoanalitico?

3- Purtroppo c’è da dire che la vita di Ravel, così brillante e piena di successi per un lungo periodo, andò pian piano impoverendosi affettivamente ed intellettivamente per una malattia che presumibilmente oggi classificheremmo come una forma di Alzheimer, anche se la diagnosi è soltanto ipotetica, in quanto gli studiosi del musicista stanno ancora valutando più di una possibilità diagnostica. C’è un particolare significativo, tratto dalla biografia di Ravel, che mi pare importante per segnalare l’avvio lento di un malessere che mina la salute dell’artista. Quando egli ha 42 anni gli muore la madre alla quale era molto affezionato e da lì iniziano disturbi del sonno, affaticabilità, irritabilità, sintomi depressivi che andranno via via aggravandosi fino a quando, all’età di 58 anni e a seguito di un banale incidente di macchina, il suo stato mentale peggiora fino alla morte che avverrà all’età di 62 anni. Pochi mesi prima Ravel aveva subìto un intervento neurochirurgico attraverso il quale era stata evidenziata una grave forma di atrofia cerebrale. La sua componente infantile così pregna di immaginazione l’aveva sostenuto nel suo percorso artistico e creativo nella vita adulta, fino all’esordio della malattia.

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